Dalla preistoria della fotografia al 1839

A cura di: Marco Rovere

La parola fotografia deriva dal greco antico ed è composta dai due termini (phôs, pronuncia fos), luce e (graphè, pronuncia grafé), scrittura o disegno.
Quindi, scrittura eseguita con la luce. Una sintesi efficace che riassume una procedura complessa (basata su principi chimici e fisici) e affascinante. In passato, da alcuni, ritenuta addirittura “magica”.
Oggi, la “penna” con cui viene effettuata la scrittura con la luce è la macchina fotografica, ma non è sempre stato così.

Occorre, anzitutto, distinguere tra “processo” e “fine”: il processo è il modo con cui una immagine viene riprodotta fisicamente su un supporto (ieri la pellicola, oggi la memory card); il fine è la motivazione per cui si vuole ritrarre fotograficamente un soggetto.
E qui ci dobbiamo spostare nel campo metafisico: riprendere figure statiche o in movimento (persone, animali, piante, oggetti, paesaggi, opere d’arte, fatti, avvenimenti, manifestazioni della realtà e della vita: la vita nel proprio divenire, in sostanza) è sempre stata una esigenza dell’essere umano. Stimolata dalle più svariate necessità: propiziatorie, come nel caso dei graffiti preistorici (se oggi ci fa sorridere l’idea che, per esempio, a una immagine possa essere collegata “magicamente” la persona ritratta, provate a prendere la fotografia di un vostro caro o del vostro cantante/giocatore preferito e iniziate a punzecchiarla con degli spilli: sono certo che avvertirete una certa sensazione di disagio, come se steste nella realtà colpendo la persona ritratta. È la magia delle immagini, che continua, seppur filtrata da secoli di acculturamento, dagli uomini preistorici ai giorni nostri); di espressione personale dell’artista, che, a seconda della sua creatività, del suo gusto estetico e della società di cui fa parte anela a mostrare la sua visione del mondo; di narrazione, di cronaca. E potremmo continuare per righe e righe.


Grotta delle Mani, Patagonia, Argentina.

 

Ciò che appare certo, oltre al desiderio dell’uomo di riprodurre la realtà attraverso immagini, è l’istinto di ottenere questo risultato “automaticamente”. Nella Grotta delle Mani in Patagonia (Cueva de las Manos, provincia di Santa Cruz, Argentina; fra i 9300 e i 13.000 anni fa) ciò appare particolarmente evidente ma, in generale, lasciare l’impronta della propria mano è un gesto antichissimo che troviamo ripetuto in diverse parti del mondo, in differenti periodi storici e in svariati modi (attraverso il colore o per mezzo dell’incisione, per esempio).



Posto che le motivazioni a compiere un così semplice gesto siano le più differenti, è certo che siamo di fronte a un primo(rdiale) tentativo di riproduzione di una immagine in maniera quasi automatica, oltre che alla evidente interazione tra soggetto ritratto (la mano) e supporto (dove, appunto, la mano veniva posata).
 


Cavallo rovesciato, Grotte di Lascaux, Francia.

Si suppone addirittura che l’uomo primitivo poté osservare il fenomeno ottico della luce che, passando attraverso un piccolo foro sulle pelli che coprivano l’uscio della sua caverna, restituiva sul fondo della parete l’immagine posta al di fuori della caverna stessa. È questa una spiegazione della figura del cavallo rovesciato sita nel Diverticolo assiale, considerato “la Cappella Sistina della preistoria”, nelle grotte di Lascaux in Francia (17.500 anni fa; tour virtuale al link www.lascaux.culture.fr).

Questa affascinante tesi, tuttavia, presenta alcune incongruenze, in quanto il cavallo ritratto appare realmente caduto (lo si intuisce dalle narici dilatate e dalle orecchie all’indietro) e non è, quindi, il disegno effettuato sulla ripresa (rovesciata) dell’immagine creata dalla luce proveniente dal foro.
Questa tesi ci porta comunque a considerare che il fenomeno fisico della luce che, passando attraverso un foro, riproduce l’immagine della figura che si trova dall’altra parte, si perde nella notte dei tempi.
 

Il principio della camera oscura, per iniziare a chiamare le cose con il proprio nome, viene citato anche dal filosofo cinese Mo-Ti (Mo.tzu; Micius; fine del V sec. a.C.), fondatore della scuola del Mohismo (cin. Mo.chia), oppositore del confucianesimo e sostenitore dell’amore universale, del pacifismo e dell’utilitarismo, che nell’opera riassumente i canoni del suo pensiero, cita il principio della camera oscura, parlando di “luogo di raccolta” o “stanza del tesoro sotto chiave”, a proposito di un’immagine capovolta formata dai raggi del sole passati attraverso il foro di una stanza buia.
 

Platone e Aristotele, particolare dell’affresco del 1509 – 1510
“Scuola di Atene” di Raffaello Sanzio, Città del Vaticano.


Filosofo cinese Mo-Ti, fine del V sec. a.C.
 


 

Da Mo-Ti ad Aristotele (384 – 322 a.C.) passano pochi decenni. Il filosofo e scienziato greco allievo di Platone (428 – 347 a.C.), nel suo famoso mito della caverna, raccontato all’inizio del libro settimo de “La Repubblica”, narra, in chiave filosofica, della creazione di immagini (ombre) grazie ad una fonte luminosa (il fuoco) posta alle spalle degli spettatori (l’umanità).

Dichiara inoltre, in uno dei suoi trattati meno noti (il “Problemata Physica”), di aver osservato un’eclissi di sole all’interno di un piccolo ambiente oscurato («...i raggi del sole che passano per un’apertura quadrata formano un’immagine circolare la cui grandezza aumenta con l’aumentare della distanza dal foro.»). Dopo di lui, il matematico greco Euclide (323 – 285 a.C.), nel suo trattato “L’Ottica”, studia appunto, l’ottica applicata alla geometria e, nella traduzione dell’opera effettuata a metà 1500 da Ignazio Danti, viene citata la descrizione della camera oscura.
 

Ma fu il medico, filosofo, matematico e astronomo arabo Alhazen (o Abū ʿAlī al-Hasan ibn al-Hasan ibn al-Haytham o al-Basrī o al-Misrī o Ptolemaeus secundus; 965 - 1038) a descrivere dettagliatamente e correttamente nel suo trattato di ottica (tradotto in latino e in ebraico già dall’XI secolo) la camera oscura e il fenomeno fisico del rovesciamento dell’immagine: i suoi studi sono alla base dell’ottica moderna. Sicuramente Alhazen si ispirò agli studi aristotelici ma dal filosofo greco a lui passano più di mille anni. Immaginiamo che in tutti questi secoli molti studiosi abbiano studiato il fenomeno fisico che sta alla base della fotografia e sui cui si basa(va) la camera oscura, perché la fotografia è figlia del mondo, della sua cultura e del desiderio di progresso tecnico-scientifico. E non possiamo immaginare che l’umanità non abbia provato ad analizzare un così affascinante fenomeno in più di 1000 anni.


Il trattato sull’ottica di Alhazen tradotto in latino.


 


Ritratto di Giovanni Keplero,
anonimo.
Statua di Ruggero Bacone, Oxford
University Museum of Natural History,
fotografia realizzata da Michael Reeve.
Fonte: Wikipedia.

Ma torniamo alla camera oscura, vero fondamento della fotografia: il termine (in latino “camera obscura”) è stato coniato da Giovanni Keplero che lo cita nella sua opera “Paralipomena ad Vitellionem” (“Il seguito del Vitellione”, dove Vitellione sta per Witelo Erazmus Clolek, monaco, matematico, fisico e filosofo polacco che studiò approfonditamente diversi fenomeni fisici della diffrazione), intendendo un ambiente buio, di dimensioni differenti (da una piccola scatola a una stanza), su una parete del quale sia stato praticato un piccolo foro (chiamato foro stenopeico: dal greco stenòs, stretto, e opé, foro).

Passando attraverso esso, i raggi luminosi provenienti da oggetti esterni illuminati si incrociano e proiettano sulla parete opposta l’immagine rovesciata e invertita degli oggetti stessi. L’immagine appare tanto più nitida quanto più piccolo è il foro, ma ciò la rende sempre meno luminosa. Ed è proprio di essa che Ruggero Bacone (1214 – 1292), monaco francescano e fondatore del “metodo scientifico”, scrive nel suo trattato “De multiplicatione Specierum”. Anche l’astronomo francese Guglielmo di Saint-Cloud (XIII secolo) che registrò nel suo “Almanach planetarum” la posizione del sole, della luna e dei pianeti dal 1292 al 1312, per le sue osservazioni utilizza la proiezione dell’immagine del sole su uno schermo mediante una camera oscura, il cui funzionamento è spiegato nel prologo della sua opera. Allo stesso modo osservò una eclissi di sole, il 5 giugno del 1285, praticando un’apertura sul tetto di una stanza.
La camera oscura, quindi e fino ad ora, come strumento per osservare il mondo e, soprattutto, per studiare il comportamento della luce.
 


Disegno realizzato da Leonardo da Vinci sul comportamento della
luce e sul funzionamento dell’occhio umano.



In De Radio astronomico et geometrico liber, del 1545, Rainer Gemma
Frisius pubblica la prima illustrazione della camera obscura: è quella
utilizzata per l’osservazione dell’eclissi di Sole dell’anno precedente,
24 gennaio 1544. Fonte: fotographiaonline.it.

Leonardo da Vinci (1452 – 1519), poi, utilizza il principio della camera oscura per spiegare diversi fenomeni ottici di base, come per esempio l’inversione da destra a sinistra delle immagini del campo visivo (è poi il cervello che le raddrizza). La camera oscura come simulazione delle funzioni di base del processo visivo (l’apertura della camera oscura è analoga all’apertura della pupilla) e non come strumento per l’osservazione astronomica.
Similmente a Leonardo, anche il monaco benedettino Francesco Maurolico, nella sua opera “Photismi de lumine et umbra ad perspectivam et radiorum indicentiam facientes” (1521) dà una delle prime descrizioni scientifiche del funzionamento dell’occhio e descrive, parallelamente e come Leonardo, la camera oscura e il suo funzionamento.
La prima illustrazione della camera oscura, però, è a opera del matematico e astronomo olandese Rainer Frisius, che la utilizzò per l’osservazione degli astri e in particolare delle eclissi di sole, come quella del 21 dicembre 1544.

 


Il trattato Magia Naturalis di
Giambattista Della Porta.
 


Statua di Leon Battista Alberti,
Firenze, Galleria degli Uffizi.
Fotografata da Frieda il 18
settembre 2004. Fonte: Wikipedia.

 

La rappresentazione prospettica (o prospettiva, femminile del termine latino prospectivus che significa “che assicura la vista”) sviluppata nel 1400 da Filippo Brunelleschi (1377 – 1446) e arrivata a noi grazie al De Pictura (1434 – 1436) dell’umanista e architetto Leon Battista Alberti, unitamente alla conoscenza della camera oscura, permise a quest’ultima di essere utilizzata per la pittura: grazie a essa, infatti, si potevano copiare paesaggi fedelmente proiettati (anche se capovolti) su di un foglio appositamente appeso.

Stabilita questa finalità (che si andava dunque ad aggiungere a quella scientifica), la camera oscura subì delle importanti modifiche finalizzate a migliorare l’immagine che veniva proiettata attraverso il foro: nel 1550 il matematico, medico e astrologo italiano Girolamo (o Gerolamo) Cardano introdusse una lente convessa per concentrare la luce e aumentare la luminosità; nel 1568 Daniele Barbaro aggiunse un diaframma per ridurre le aberrazioni; nel 1591 Giovanni Battista della Porta descrisse, nel suo “Magiae Naturalis” (un trattato su diversi argomenti tra cui cosmologia, geologia, ottica, medicina), un apparecchio con lente per rendere le immagini più nitide e accennò anche alla possibilità di uno specchio concavo per far sì che fossero diritte: stava nascendo il concetto che sta tutt’oggi alla base delle più moderne reflex (che è, appunto, il sistema che consente di proiettare l’immagine dall’obiettivo su un vetro smerigliato, dove è visibile direttamente o attraverso il mirino). Va precisato che quando della Porta scrive della camera oscura, intende una stanza oscurata, con foro stenopeico verso l’esterno, costruita per l’osservazione agevolata di paesaggi assolati.
 

Studi recenti, svolti dall’esperta di storia dell’arte e docente al Studio Arts Centers International di Firenze, Roberta Lapucci, hanno ipotizzato che anche il famoso pittore Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571 – 1610), maestro del chiaroscuro, utilizzasse la tecnica della camera oscura per ritrarre i suoi modelli che si suppone venissero illuminati dalla luce filtrante da un foro praticato nel soffitto del suo studio, completamente buio. Il fatto che Caravaggio non facesse mai schizzi preliminari e che i suoi soggetti siano in preponderanza mancini - le immagini venivano proiettate sulla tela al contrario – confermerebbe questa tesi. Addirittura, si ipotizza che Caravaggio usasse sostanze chimiche per fissare l’immagine sulla tela per circa una mezz’ora, tempo più che sufficiente al genio milanese per abbozzare l’immagine proiettata con una mistura di diverse sostanze, visibili anche al buio. Naturalmente, ciò non toglie nulla al suo genio indiscusso ed eterno, anzi! Il fatto che potesse utilizzare una “tecnologia” nuova per innalzare l’arte al di sopra dei limiti fino all’epoca raggiunti, non fa che aumentare la sua grandezza.

Il Bacchino Malato di Caravaggio, Galleria Borghese, Roma.


 


La Lochkamera (camera obscura) di Kaspar Schott.
Fonte: Deutsche Fotothek
(descrizione originale: Optik & Projektion & Reflexion & Lochkamera).
 

Ma torniamo alla nostra camera oscura, ormai dotata di lente e votata, anche, alla riproduzione delle immagini. Nonostante all’epoca (fine 1500 – inizio 1600) di Keplero (che, lo ricordiamo, fu il primo a chiamare la camera oscura con il suo nome) per gli artisti fosse difficile procurarsene una, è indubbio che la fama della “camera obscura” si diffuse tra i pittori che, negli anni a venire, la utilizzarono come strumento per il loro
lavoro.

Intanto, essa continuava a essere perfezionata: lo stesso Keplero trasformò una tenda da campo in camera oscura per i suoi rilievi topografici, inserendo una lente e uno specchio sulla sommità di essa per ottenere, all’interno, l’immagine esterna; lo scienziato gesuita Kaspar Schott (1608 – 1666) nel 1657 costruì una camera oscura composta da due cassette scorrevoli, una dentro l’altra, permettenti la variazione della distanza fra la lente e il piano su cui si forma l’immagine, e quindi di mettere a fuoco. Siamo di fronte al primo teleobiettivo.
 

La lanterna magica. Optic Projection: Principles, Installation and Use of the Magic Lantern, Projection Microscope, Reflecting Lantern, Moving Picture Machine, by Simon Henry Gage and Henry Phelps Gage, Ph.D. Ithaca, New York, Comstock Publishing Company. 1914. page 676. Scanned by Davepape.
Fonte: Wikipedia.

Nello stesso periodo, si diffonde (grazie al matematico, astronomo e fisico olandese Christiaan Huygens e al filosofo e storico gesuita Athanasius Kircher) la lanterna magica, lo strumento nato (probabilmente in Oriente) per proiettare immagini dipinte (di solito su vetro) su una parete (in una stanza buia, tramite una scatola chiusa contenente una candela, la cui luce è filtrata da un foro sul quale è applicata una lente: praticamente una camera oscura invertita, come la descrisse Kircher nella seconda edizione del suo trattato “Ars magna lucis et umbrae”).
Proiettore di diapositive e cinema, ecco il vostro diretto antenato!
 

Disegno della “camera obscura” pubblicato da Johann Zahn nel suo trattato
Oculus Artificialis Teledioptricus Sive Telescopium (1685).

Ed a proposito di antenati, nel 1685 l’inventore tedesco Johann Zahn, basandosi sul progetto di nove anni precedente del fisico tedesco Johann Christoph Sturm, creò la prima (camera oscura) reflex, ovvero una camera oscura in cui al suo interno uno specchio posto a 45° permetteva di raddrizzare l’immagine proveniente dall’obiettivo e la proiettava dritta sul vetro smerigliato, sul quale i pittori potevano appoggiare il loro foglio per riprodurre i paesaggi ripresi. La nostra camera oscura è ora pronta a riprodurre con una buona qualità le immagini ad essa esterne ma non è ancora possibile fissarle automaticamente sul foglio sul quale esse vengono proiettate. Iniziano dunque gli studi sui materiali fotosensibili: al chimico tedesco e padre della fotochimica Johann Heinrich Schultze (1687 – 1744), al monaco, fisico e matematico italiano Giovanni Battista Beccaria (1716 – 1781) e al chimico svedese Carl Wilhelm Scheele (1742 – 1786) dobbiamo i primi esperimenti sulla materia. Intanto, nel 1788, in quella che sarà la patria della fotografia digitale – il Giappone – lo scienziato Bansui Otzuki descrive la camera oscura, chiamandola “shashin-kyo”, specchio del vero. Shashin ancora oggi significa fotografia in giapponese.

Ma torniamo ai nostri esperimenti chimici legati ai materiali fotosensibili: dopo altri esperimenti compiuti alla fine del 1700 dal chimico inglese Humphry Davy e dallo scienziato e inventore britannico Thomas Wedgwood, entrano in campo il francese Joseph-Nicéphore Niépce, Louis Mandé Daguerre e il rivale inglese William Henry Fox Talbot: la data della nascita ufficiale della fotografia è vicina. Intanto, nel 1806 il medico, chimico e fisico inglese William H. Wollaston brevetta un dispositivo ottico usato come aiuto al disegno di paesaggi e oggetti, la camera lucida. Sei anni dopo (1812) sostituì la lente convessa di Cardano con una concavo-convessa, a menisco.

 

Ritratto di Sir John Frederick William Herschel realizzato da sua figlia Margaret Louisa Herschel. National Maritime Museum, Inghilterra. Fonte: Wikipedia.

Prima di arrivare alle prime fotografie, urge una citazione particolare: all’astronomo, matematico e chimico inglese John Frederick William Herschel (1792 – 1871), che contribuì nettamente al miglioramento del processo e delle reazioni chimiche nel fissaggio fotografico, scoprendo che l’iposolfito di sodio scioglie i sali d’argento non colpiti dalla luce e che usò per la prima volta nella storia il termine fotografia, in una lettera inviata a Talbot. A lui sono attribuiti anche i termini – usati in senso fotografico, ovviamente - negativo e positivo.

 

 

Ora un po’ di primati: la prima fotografia è datata 1826 (o 1827) ed è stata realizzata da Joseph Nicéphore Niépce: si tratta della ripresa di un paesaggio (Veduta dalla finestra a Le Gras) che impressionò una lastra dopo un’esposizione di otto ore.


Vue de la fenêtre du domaine du Gras, di Joseph Nicéphore Niépce.
La prima fotografia della storia.

 

A sinistra il primo negativo della storia (con annotazione), William Henry Fox Talbot. A destra, la copia positiva, in cui si possono contare le circa 200 tessere componenti la vetrata.

Il primo negativo della storia è stato realizzato da William Henry Fox Talbot che, dopo aver fatto un esperimento poco riuscito esponendo alla luce solare una foglia a contatto con carta imbevuta in una soluzione di sale da cucina e nitrato d’argento, realizzò il primo negativo della storia della fotografia (agosto 1835, ripresa della finestra nella galleria sud della sua abitazione, Lacock Abbey) in cui è possibile, con l’aiuto di una lente (come ci suggerisce lo stesso Talbot) contare le circa 200 tessere di vetro componenti la vetrata. Talbot spiegò che è possibile ottenere un’immagine positiva da una negativa: questo processo, chiamato calotipia (dal greco kalos, bello, e typos, stampa; conosciuto anche come talbotipia o disegno fotogenico), a differenza della dagherrotipia, permetteva di produrre più copie di un’immagine utilizzando il negativo.

La riproducibilità delle immagini, però e a quell’epoca, rendeva il prodotto calotipico meno prezioso rispetto al dagherrotipo, che è unico. Non male come inizio per quello che sarebbe stato il processo fotografico come lo abbiamo sempre inteso, ovvero composto da una matrice da cui ottenere un numero potenzialmente illimitato di copie.

Nel 1838, infine, dopo aver realizzato nel 1837 il dagherrotipo “L’Atelier dell’artista” (una natura morta ripresa in interno), il francese Louis Mandé Daguerre fotografa il Boulevard du Temple e la prima immagine umana: un gentiluomo (forse un complice di Daguerre, considerando il tempo lungo – oltre 20 minuti - dell’esposizione) fermo dal lustrascarpe.

De facto, la fotografia è pronta a fare il suo ingresso ufficiale nella storia del mondo: è il 1839, oltre 170 anni fa.

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