Gianni Mascolo

A cura di:

Interpretare immagini

Chi sceglie le immagini di un giornale? E con quali criteri? Cosa orienta il giudizio di chi decide quali servizi, quali immagini "funzionano" e quali no. Per chi fotografa, ed è interessato a vendere i propri scatti, è certamente utile confrontarsi con l'opinione e la pratica consolidata di chi rappresenta il terminale di un lavoro spesso lungo e complesso qual è quello della produzione di un servizio fotografico. Ne abbiamo parlato con Gianni Mascolo, Art director de "Il Venerdì di Repubblica", che a Sguardi on line racconta come "interpreta le immagini".

Le immagini che accompagnano l'intervista sono - oltre ad alcuni scatti in b/n di Gianni Mascolo - prove di impaginazione di alcune doppie pagine del "Venerdì" (che mostrano come le fotografie siano inserite nell'impaginato) e della copertina del numero del "Venerdì" uscito subito dopo l'attentato dell'11 settembre.

Qual è stato il percorso che ti ha portato al ruolo di oggi?
Il mio percorso tra fotografia e grafica editoriale è partito presto. Finite le scuole superiori, volevo fare un mestiere a cavallo tra grafica e fotografia, le mie passioni. Ma mi sono subito reso conto che il lato artistico (fotografico) era poco realizzabile e ho puntato sulla grafica.
Entrato a "Repubblica" ho fatto una carriera tutta interna al quotidiano. Grazie al grande feeling con Scalfari, sono stato promosso capo del "primo sfoglio", la parte nobile del giornale, ed è poi arrivata l'investitura ad art director, "direttore delle immagini", con la progettazione del giornale a colori.

Ma cosa faceva - e fa - un art director in un quotidiano o in un settimanale? Che rapporti ha con la direzione, il photo-editor, i grafici?
C'è sempre stata una certa confusione sul ruolo. Io l'ho vissuto inventandomelo di giorno in giorno. A "Repubblica" non c'era; c'era il capo dei grafici. Io ho iniziato a lavorare con i primi sistemi digitali, ho avviato l'acquisto mirato delle fotografie e la creazione di un ufficio fotografico, di un raccordo con l'archivio.
Poi con il passaggio al settore settimanali del gruppo ho iniziato una carriera nuova, anche se avevo già avuto un'esperienza con i settimanali, dal progetto di "Musica!" all'avvio dell'edizione italiana del "National Geographic". Le nostre - photo-editor, art director, servizio grafico – sono tutte professionalità tangenti, laterali, sovrapponibili; penso non solo al mio caso ma anche a quelli di altri giornali.

E al "Venerdì" come funziona?
Con la nuova direzione del "Venerdì" (Laura Gnocchi dalla fine del 2000, ndr) l'oasi del photo editor che dialoga in parte con l'art director in parte con il grafico viene azzerata, perché l'art director e la direzione assumono il controllo delle immagini.

L'art director è uno che interpreta l'immagine nel suo contesto grafico a contatto con un direttore forte. La funzione del photo editor è, in parte, assorbita da me per l'aspetto gestionale e creativo; mi riferisco ai servizi che produciamo: c'è questo soggetto che ci interessa, c'è da fare la copertina, questi particolari, quale fotografo mandiamo, quanti giorni sta, eccetera. C'è poi la funzione dell'archivio che è cresciuta, diventando di proposta e di ricerca.

E i grafici?
Prima il loro lavoro cominciava da un servizio selezionato. Questo incastro è ancora da registrare, ma ora si va dai grafici proponendo: "queste sono le immagini, il servizio lo imposterei così"; ciò non toglie che il grafico possa interpretare e proporre modelli alternativi. Sembra gerarchico, ma è più creativo e funzionale.

Chi opera la scelta finale, chi risolve gli eventuali dissidi?
Sempre noi, a livello di direzione. La penultima parola è la mia, l'ultima del direttore.

Come decidi se un'immagine, un servizio fotografico funziona?
Due sono i livelli di giudizio. Il primo è estetico e di coerenza con il contenuto giornalistico. Emozioni, colori, movimento, espressione, geometrie, tecnica: il mix di tutto ciò rende un servizio, o un'immagine, centrati. Il secondo è più tecnico e riguarda la messa in pagina, il rapporto quindi con la grafica.
Non sempre l'immagine più bella è quella scelta per aprire un articolo su doppia pagina; il taglio della pagina, la titolazione influenzano la scelta, come d'altro canto il rapporto con lo spazio assegnato e il testo ci dicono se un servizio "funziona", se rende cioè al lettore quelle informazioni e quelle emozioni che io e il fotografo volevamo.

Come vedi lo spazio dedicato alla fotografia dai giornali italiani?
Lo vedo male. È un po' come la storia del cinema americano e del cinema italiano.
Dipende, in gran parte, dalla dimensione del mercato, dai numeri. Certo, alla fine la chicchetta la trovi sempre ma la cosa essenziale è la struttura. Se sei in un grande bacino di utenza come quello americano, che comunque - da Hollywood ai produttori indipendenti - tira fuori "Star Wars" e il film autoprodotto, c'è un discorso di quantità che alla fine diventa anche di qualità.
Qui, parlando di magazine e newsmagazine (quindi "L'Espresso", "Panorama", "Sette", "Specchio", "Il Venerdì"), lo scenario tende piuttosto al contrario: tranne qualche eccezione, penso a "Colors", non mi sembra che ci sia un uso dell'immagine così mirato, non c'è un reportage per cui si possa dire "loro fanno questa cosa qui". Non vedo grandi novità.

Hai qualche consiglio specifico da dare a chi produce immagini?
Sì, le storie. Le storie, le storie, le storie. Oggi l'ingresso alla professione è molto più difficoltoso di un tempo. Oggi trovi uno stuolo di persone che sono uscite da scuole e corsi fotografici e pensano di fare il fotografo e che comunque pestano i piedi a te, professionista, perché vengono da me. Perciò le storie, storie diverse, sguardi diversi. Non tutti fanno lo sforzo di trovare uno sguardo originale, proprio. Vanno a Cuba, mettono il rullino in bianco e nero e fanno il macchinone. Oppure fotografano tutte le disgrazie, le pesantezze del mondo e poi magari ci accusano di cinismo perché non pubblichiamo quella cosa.

Ma i fotografi, le agenzie non possono pretendere che "Il Venerdì" si trasformi in un giornale interamente dedicato a questi temi. Nella realtà, la percentuale vita-sfiga è 70 a 30. Di quei servizi ne pubblichiamo anche noi, ma c'è un equilibrio da rispettare con il nostro pubblico fatto di qualche milione di persone.

Volendo fare un paradosso, percorrere un'esperienza drammatica è anche molto più semplice: si va in una bidonville e sicuramente trovi situazioni eccessive come, per esempio, il ritratto di un bambino che si lava in mutandine dentro il catino.
Inventare, invece, una situazione diversa è più difficile: non so, mi viene in mente un reportage sulle sale Bingo alla Martin Parr, con la vecchietta che in mezz'ora perde duecentomila lire o l'usuraio che salta fuori e ti vuole picchiare, un servizio che non ho visto e che magari mi farebbe piacere vedere. Dunque storie diverse, ma anche sguardi diversi, per evitare che ci sia il solito fotografo a fare sempre tutto.

 

Nota biografica
Romano e romanista, 41 anni. Tra l'iscrizione alla facoltà di Architettura, un corso per programmisti-registi televisivi e una passione per la fotografia sceglie la grafica diplomandosi all'Istituto Europeo di Design.

Il suo percorso professionale è tutto interno a "Repubblica", culminato con la progettazione del nuovo giornale a colori e l'attribuzione del ruolo di Art director sotto la direzione Scalfari.
Cura per il gruppo diverse collane multimediali e lo studio e progettazione di un quotidiano parigino in collaborazione con "El Pais" e "The Indipendent". Dal 1996 lascia il quotidiano per assumere, sempre come Art director, la responsabilità del "Venerdì" e di altri supplementi di "Repubblica".
È stato Art dell'edizione italiana del "National Geographic".
Da circa due anni ha un cane che lo sveglia alle 7,15.

Metodi di pagamento: