Intervista

A cura di:

Monika Bulaj
In cammino tra le fedi

Monika Bulaj ha un ingegno multiforme. Ha la sensibilità per l'alterità dell'antropologa, l'istinto della testimonianza della cronista, il gusto del racconto della scrittrice, la presenza rispettosa e la passione forte e delicata di alcune donne. E un percorso di vita e ricerca espressiva che dalla Polonia l'ha portata in Italia e a girare, soprattutto, in Europa, Medio Oriente e Asia Centrale. Sulle tracce delle "genti di Dio", dagli ortodossi greci e russi agli sciiti, dalla chiesa etiope al sufismo, dagli ebrei di montagna ai cattolici italiani o polacchi. Una ricerca profonda che porta avanti da anni, aggiungendo ogni volta un rituale, un monastero, un pellegrinaggio.


© Monika Bulaj - Etiopia

Qualcuno ti ha definito la "migliore fotografa sul tema del sacro". La tua ricerca su diverse forme di spiritualità ha prodotto lavori come "Gerusalemme perduta", "Figli di Noè", ora "Aure" e "Genti di Dio". Da dove nasce questo interesse e come si è sviluppato il tuo percorso attraverso le fedi?
Penso che la fotografia è una cosa seria, un impegno. Questo percorso attraverso le fedi, lo vivo anche come una necessità, ma non so dire da dove nasca tutto questo. È così da sempre, questo mi è abbastanza chiaro. E mi è sempre di piu chiaro che sono io al servizio di questa cosa. Credo che l'arte dell'immaginario, come la percepiva Andrej Tarkowski, ma anche l'arte che esplora e racconta la realtà, talvolta "piu straordinaria dell'immaginazione" come diceva Ryszard Kapuscinski, significhino una totale dedizione e sacrificio. Per loro è stata l'unica possibile forma di essere. Questo mio percorso nelle fedi iniziò da adolescente nei libri trovati per miracolo e cercati con disperazione nel vuoto comunista, tra le pubblicazioni clandestine (i samizdat), le collezioni private e le vecchie biblioteche, e furono già grandi incontri, anche se sicuramente prematuri. Dostojevski e Nietzsche, Szestov, Simone Weil, Thomas Merton, Padri della Chiesa, teologia ortodossa del XIX e XX secolo, Martin Buber e I. Heschel, Jerzy Nowosielski, mistica occidentale, ecc. Fu una lettura portata avanti nella massima tensione. Poi vennero gli incontri veri con uomini e donne straordinarie. La tesi di maturità sullo sterminio degli ebrei. Studi alla facoltà di Filologia Polacca subito integrati con i seminari di antropologia del sacro, storia, antropologia di teatro, teologia bizantina, filosofia cattolica e biblistica all'Accademia Teologica, ecc. La teoria e poi la pratica sul teatro di matrice grotowskiana, che esplorava i confini tra il rituale e la rappresentazione; studi sulle pratiche delle confraternite sufi, sul culto della possessione, sulla gnosi cristiana. Tutto un po' al limite. Avevo da una parte una grande cultura polacca; dall'altra il terribile vuoto della Polonia, il suo deragliamento identitario, la sua visione della realtà in bianco e nero, il suo silenzio insopportabile sulla Shoah. Ricerche guidate solamente dall'intuizione, le cose trovate quasi per miracolo che si mettevano in ordine, talvolta svelando una logica, come in una collana di perle. Importante fu seguire il filo rosso, non perdere la strada, non perdere la testa. Poi venne il primo viaggio a piedi lungo il confine orientale della Polonia per cercare i microcosmi di fede. La macchina fotografica, una Zorka scassata, c'era già, ma non ero capace di fotografare, ho rotto i miei due unici rullini. Ricordo: era dicembre, il secondo anno dell'università, avevo 19 anni, e il grande studioso di antropologia del teatro, Leszek Kolankiewicz, rise come un diavolo quando gli raccontai che me ne andavo a camminare per cercare antiche sette ortodosse e popoli tartari scovati in qualche libro di storia. Non so perché chiesi consigli proprio a lui. Mi segnò sulla carta geografica una serie di villaggi e poi disse solo una cosa: "vai".


© Monika Bulaj - Cappadocia

Nell'introdurre il tuo ultimo lavoro hai scritto che non t'importa descrivere analogie coreografiche o gestuali tra ebrei, cristiani e musulmani, ma somiglianze atmosferiche, l'aura che spira dalle persone o dai luoghi che hai sperimentato tra la gente del dio unico. Cosa è "Aure"?
Ti citerò Ellemire Zolla. "In greco e in latino", scrisse, "si parla del fascino come di una brezza, un'aura spirante dalle persone o dai luoghi, che a volte cresce, diventa turbine, nembo, nube abbagliante, riverbero dorato, ingolfa e stordisce".

Un osservatore è prima di tutto un testimone e non si pone necessariamente un problema di partecipazione a ciò che vede e vive. Mi chiedo se, a livello personale, ti senti vicina a una qualche forma di spiritualità.
Non sono d'accordo. Per me testimoniare è sempre partecipare. Sentire dolori, vibrazioni, slanci, suppliche. Vedere la luce cui aspirano gli uomini e avvertire la loro paura. Provare stupore o orrore, sempre senza giudicare. Viaggiare in solitudine, trovarsi con tutto questo addosso da soli. Negli occhi delle persone che incontri devi trovare te stesso. Diverso, ma accettato. Sento un sottile ma forte diaframma che mi protegge. Non so definirlo. Ci deve essere, perché l'esperienza talvolta è troppo forte. Spesso ricevo le proposte di conversione, per il bene della mia anima che, a sentir i miei interlocutori, già si trova sulla strada giusta. Parlo degli ebrei, sì, persino gli ebrei che normalmente non fanno proselitismo, e poi dei cristiani ortodossi e dell'Islam. "Sei una di noi", dicono i musulmani. "Hai la nostra anima", dicono gli ebrei, usando in più una parola ebraica che significa l'incessante viaggio delle anime, di un corpo nell'altro. "Gilgul", una bella parola. Nonostante questo, non ho mai avuto problemi di identità. Talvolta il rischio è acustico. I tamburi e i pifferi nei riti di possessione, nelle danze rituali. Talvolta il ritmo è più forte della volontà. Ti segue, ti manipola, ti tradisce.


© Monika Bulaj - I samaritani - Israele

Viaggiando, vedendo talvolta cose straordinarie, non ho mai provato nessun desiderio di conversione e nemmeno di appartenenza, anche se, cosi a naso, le preghiere dei chassidim e quelle dei sufi, ma anche quelle degli etiopi e quelle dei siriaci, le trovavo efficaci. Anche l'approccio buddista non mi dispiace. Ma sai quanto è bello il Padre Nostro in greco? E nelle Beatitudini sulla Montagna trovo gia tutto.

Danze estatiche, masse che si spostano, gesti della preghiera, feste, vesti, figure, ombre. Nelle tue immagini c'è spesso (sempre?) la presenza di "genti di Dio" - come li definisci – di corpi manifestazione di fede, testimoni di devozione.
Il corpo non mente. Il sacro passa attraverso il corpo, lo trafigge. Nell'arcaicità dei gesti non leggi niente della storia orrenda delle conversioni forzate «in articulo mortis» o di quelle estorte a fil di spada sotto l'ombra della Mezzaluna, ma leggi la saggezza arcana del popolo, la ricerca della liberazione attraverso l'uso sapiente dei sensi. M'interessa il mistero della devozione passionale bollata dalla cultura "ufficiale" come "devotio stulta": cioè popolare, folcloristica o esaltata. La manifestazione di fede espressa da "illiterati et idiotae", mistici e poeti, santi e analfabeti.


© Monika Bulaj - Gerusalemme , la tomba
di Gesù
Come ti poni nei confronti dell'ambiente di cui entri a far parte per fotografare? Quali cautele usi? Sono meccanismi naturali o attivi una tua strategia per non esser percepita come invasiva?
Nessuna strategia. Ogni situazione è nuova e mi piacciono le situazioni nuove. Consiglierei attenzione massima, il massimo rispetto, umiltà e gioia. Non essere iena ma testimone. È fondamentale farsi accettare ma può accadere solamente se il fotografo rimane se stesso, cerca il bene e cerca di capire. Consiglierei una calma serafica, cosi la fotografia può diventare anche pratica spirituale. La calma e il rispetto vengono immediatamente percepite. Importante è la grande pazienza e l'estrema velocità nell'agire. Non vi è nulla di contraddittorio in questo. In ogni situazione si può trovare qualcosa. Si deve cercare il positivo anche nelle complicazioni, sempre. La fotografia poi non dipende dalla situazione ma dallo sguardo.
L'unica regola, ferrea, è di vestirsi come loro là dove il vestito diventa bandiera, simbolo di appartenenza, tabù.

Per il rispetto, ma anche per stare meglio e per far stare meglio gli altri. E di condividere la loro vita, cibo, sonno, abitudini, ritmi, modo di camminare, il modo di rivolgersi agli uomini. Una bambina albanese una volta si è messa a piangere dandomi della bugiarda perché le dicevo di essere straniera. Lei viveva su una montagna sperduta, sognava d'incontrare uno straniero, ma io non incarnavo quell'ideale. Somigliavo a una di loro. Un'altra volta, dopo un lavoro tra i chassidim, mi sono addormentata, sfinita, sulla mia borsa, sulla spiaggia di Tel Aviv. Un amico ebreo laico mi ha detto, inorridito: "sembri una di loro". E così via.

Oltre che fotografa, sei scrittrice, antropologa, regista, sceneggiatrice. Cosa pensi abbia di proprio, rispetto agli altri mezzi di espressione e comunicazione, la fotografia?
La fotografia e il film sono più vicini al sogno e all'inconscio. E come nel sogno, sono crudeli e perfetti in ogni dettaglio. La forza dell'immagine, la precisione e la ferocia nell'esprimere la fattura della materia, la luce, lo sguardo, l'avvenimento. È una grande sfida nell'epoca dell'immagine onnipresente, nauseante, volgare, banale, brutale, sporca e invasiva.


© Monika Bulaj - La Città del Libro, Kiryat Sefer, Israele

Credi che esista un approccio femminile alla fotografia? Rivendichi una differenza o sei scettica?
Se non diventa ossessione, o qualche problema da risolvere, non credo ci sia differenza con l'approccio maschile. Vanessa Beecroft fotografa Vanessa Beecroft nel volto e nel pube di modelle-bambole senza sguardo. Non so se questo è un approccio femminile. È un autoritratto e la persona che si ritrae è una femmina. Il problema è che quando cominci a togliere alla modella, sempre la stessa, anno dopo anno, prima la maglietta, poi il reggiseno, e poi le mutande, o la metti persino in verticale (senza le mutande), non rimane né donna né uomo, ma un Nulla. Forse un uomo guarderebbe diversamente un nudo di donna? Forse rimane ancora qualche simbolo o qualche tabù da violentare? Forse le donne conoscono più segreti da svelare? Ma non è stato gia tutto spogliato, denudato, desacralizzato, svelato? Nella grande immagine fotografica ma anche nella pittura della quale nasce la fotografia, nelle grandi opere d'arte cinematografica, colpisce la perfezione dell'armonia. Ed è difficile dire qualcosa di più. L'immagine perfetta "ara" e trasforma l'anima, rivolge l'uomo verso il bene, lo prepara alla morte, lo possiede e illumina. Non è né maschile ne femminile. È come un semaforo, un misterioso avvertimento. Se guardi i lavori di Margaret Bourke-White, Leni Rieftenstahl, della ballerina-documentarista Eleonora Derenkovskij ti paiono i lavori di femmine? Non credo che esista lo sguardo maschile e lo sguardo femminile, la differenza sta tra chi resiste più o meno a viaggiare lontano dai figli. Tre giorni? Una settimana? Un mese? Magari anche col seno che ti scoppia di latte?


© Monika Bulaj - Libia, il velo rituale delle donne tuareg

Bianco e nero e/o colore, come ti regoli?
Nella tasca ho i rullini in bianco e nero e a colori. Talvolta non ho tempo di cambiare la pellicola e ragiono nella categoria di quello che trovo nella camera. Cambio il binario, cambio il modo di vedere e di pensare. Mai trasformo il colore in bianco e nero. La scelta dipende dalla luce e dalle ombre, dal tema, dalla fattura grafica della cosa che trovo di fronte, della storia che vorrei raccontare. Amo di più il colore. Ma lo uso solamente quando è denso e significativo.

Quanto è importante per te la tecnica?
La Leica non è facile. Bisogna avere una manualità pazzesca, e in più ogni obiettivo ha una sua manualità diversa. Poi, è una macchina per correre tanto. Bisogna amare correre e arrivare vicino al soggetto. Una volta imparata la tecnica, che è fondamentale, quindi la luce e il tempo, conta poi forse di piu la manualità, appunto. Il fotografo è come uno scultore con lo scalpello in mano. Lo scalpello fa parte della sua mano.


© Monika Bulaj - Istanbul i Sufi Mevlana

Di cosa è composta l'attrezzatura che ti porti dietro normalmente? Quali obiettivi prediligi?
Una Leica M6 con 35 mm o 50 mm Noctilux sempre sul collo, s'infila bene sotto il braccio, scompare sotto la sciarpa o il velo. Il bellissimo 21 mm per raccogliere lo spazio in un pugno, per avvicinarmi ancora di più. I due obiettivi e i rulli li metto nella tasca. Se ho la borsa mi porto dietro anche il vecchio Nikon F90 con un teleobiettivo zoom, ma lo uso poco e sempre di meno. Per i viaggi lunghi o i reportage impegnativi porto il secondo corpo della Leica. Non so usare il flash, non mi serve. Col tempo tendo a togliere l'inutile, il peso, il troppo. Cerco di rimanere con una sola macchina, un solo obiettivo. Non credo però che la scelta della macchina sia fondamentale, importante è il punto di vista. Due fotografi, con le stesse ottiche, di fronte alla stessa situazione, producono degli immagini completamente diverse.

Per chiudere, c'è qualche fotografo che riconosci come maestro, punto di riferimento per la tua ricerca?
Mario Giacomelli, Josef Koudelka, Sebastiao Salgado, i bianco e neri di Cristina Garcia Rodero, Francesco Cito, la luce di Luigi Ghirri, Caravaggio e Zurbaran, Del Greco, Rembrandt, Vermeer, Wojtkiewicz, Fra Angelico. Perdonami il mescolanza dei generi, mi viene spontanea. Dei giovani italiani mi piace Paolo Pellegrin. Con Cristina Garcia Rodero sento un'affinità molto forte, la ammiro, come persona e come fotografa. Nelle sue straordinarie immagini in bianco e nero si avverte la fortissima angoscia di "Caprichios" e "Desaparecidos" di Goya, il mistero e la paura. Il misterium tremendum. Lei svela il pagano nel monoteismo in un modo sublime e drammatico, e ci è sicuramente comune la ricerca del minimo multiplo nelle religioni.


© Monika Bulaj - Gerusalemme


Chi è
Fotografa, antropologa e scrittrice polacca, Monika Bulaj vive in Italia. Autrice di grandi reportage sul giornale di Ryszard Kapuscinski, la Gazeta Wyborcza (Varsavia, Polonia), collabora a National Geographic, D La Repubblica delle Donne, Io Donna, Internazionale, Courrier International. Scrive sceneggiature per film documentari; ha pubblicato Libya Felix (2003). "Donne", Alinari 2005; "Gerusalemme perduta" con Paolo Rumiz, Frassinelli 2005; "Figli di Noe", Frassinelli 2006. Ha realizzato il film documentario "Figli di Noè".

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