Inviati

A cura di: Romina Marani

Matera, Oltre la città dei sassi

Gli allievi dell’ultima edizione del Master in reportage di viaggio sono gli inviati speciali di Sguardi a Matera: città antichissima e contemporanea, prima città del Sud d’Italia a essere nominata patrimonio dell’umanità dall’Unesco, una delle sei finaliste italiane candidate al titolo di Capitale della cultura europea del 2019. Di seguito, alcuni estratti dai loro lavori (testi e foto).
 


 

La Festa del Maggio
Ramona Mendola

«Arrivano!», «Spostarsi!», «Ce sta fac’, guagnin!». La sommità del pendio si apre e centinaia di ragazzi scorrono giù con la potenza e la vivacità di un fiume in piena. Hanno scarpe usurate, maglie strappate, petti nudi e bocche spalancate sul domani. Chiedono aria, più aria, e se la prendono. Sono i ragazzi di Accettura, la piccola comunità in provincia di Matera presso cui ogni anno, in onore al patrono San Giuliano, si tiene la Festa del Maggio. I giovani aprono la strada ai masciaioli, i proprietari dei buoi che, disposti a coppie, trascinano un grande cerro di circa 30 metri dal bosco di Montepiano al centro del paese. Lì, dopo aver incontrato la cima, un agrifoglio trasportato su spalle adolescenti dalla foresta di Gallipoli Cognato, avrò luogo l’innesto, il matrimonio degli alberi. Il bosco di Montepiano è un brulichio incessante: fisarmoniche, tamburelli e zampogne suonano instancabili la tradizione, giovani donne improvvisano coreografie dai toni cortesi; alle loro spalle, mani maschili si dimenano in cerchio: è la morra «un gioco popolare che ha radici antichissime» dice Antonello, trentenne nato e cresciuto ad Accettura, «le squadre sono due e si gioca in coppia, uno contro uno. L’abilità sta nel prevedere la somma dei numeri che si buttano. Il numero va urlato in dialetto e il ritmo è serrato. Se sbagli, passi». L’impressione è di assistere a una rissa: i muscoli tesi, gli occhi concentrati sulle mani e i corpi madidi si lasceranno riposare solo dopo aver acclamato il vincitore. La lunga processione continua il suo corso, ma a decretarne il ritmo è un solo uomo: Antonio, più di settant’anni, apre il corteo. «Non faccio il pastore, io sono pastore», dice. È l’unico a possedere una corporatura esile, tiene al collo un fischietto per dirigere la lunghissima fila di buoi e masciaoli. Un fischio: si parte. Le fruste scrosciano tra urla e richiami, le catene stridono, i buoi spingono, le folla si allarga e sfugge alla tensione dell’attimo. Qualche metro, un altro fischio: ci si ferma. E così avanti, per ore.
 


Accettura (MT)  © Ramona Mendola
 


Una bellezza saccheggiata
Alberto Bile

«Qui venivano i mercanti dalle valli circostanti a barattare il grano, e il luogo veniva chiamato il Monte d’oro. C’erano famiglie benestanti, il Banco di Napoli, la caserma dei carabinieri: c’era tutto, e oggi invece...». Vincenzo Montemurro accoglie i visitatori a Craco, la più celebre città fantasma della Basilicata, abbandonata dagli anni ‘60 in seguito a ripetute frane. Suo padre ha abitato qui fino al 1974, lui mai. Da bambino, però, sentiva i racconti della nonna e si avventurava fra le case, i vicoli, gli splendidi palazzi rinascimentali e le chiese abbandonate. Pochi anni fa ha fondato la “Craco Servizi Turistici”, di cui è il solo componente. Craco è il suo «pane quotidiano», ma basta ascoltarlo un minuto per capire che c’è di più, e fare propria la sua causa. Vincenzo racconta con passione e ironia una vita normale, con punte di eccellenza, che non c’è più, e una bellezza saccheggiata. Ufficialmente le case non sono mai state espropriate, e dunque non sono visitabili. Sono però visibili gli interni, per l’ingente opera di saccheggio che ha portato via tutto: infissi, mobili, tubature. Non stupisce che Vincenzo indichi come elemento d’interesse anche l’unico lampione risparmiato, ma che la bellezza non sia mancata a Craco lo testimonia più di un edificio. Palazzo Grossi, ad esempio, costruito nel XVI secolo. Dentro, non visitabili, ci sono affreschi di scuola napoletana. La Chiesa Madre, del 1400, con la cupola di maioliche che tuttora luccicano al sole, è stata completamente svuotata, tranne che per la campana “Maria Vittoria” di dodici quintali. La torre normanna, dell’anno 1000 svetta ancora, a ricordare la posizione strategico-militare di Craco. Dalla cima si vede fino al mare di Otranto. «Basta lanciarsi dalla finestra e sei in Palestina», dice Vincenzo, perché nella valle ondulata dove si staglia l’ombra di Craco, Mel Gibson ha fatto impiccare Giuda sotto una fila di ulivi, nella sua versione della Passione di Cristo. «Qui hanno girato film, ci fanno le pubblicità, ma per preservarlo e valorizzarlo non si sta muovendo nulla. L’unica cosa a muoversi, ogni tanto», ironizza ma non troppo, «è il terreno».
 


Craco (MT)  © Alberto Bile
 


Centodue anni nei Sassi
Giulia Landucci

«Vuole vedere la casa di mia madre? Si trova sul limitare dei sassi, era della chiesa, ha la panoramica sulla cattedrale». Beppe, la storia di Matera, la conosce bene. Lavorando come guida, ha imparato la distinzione di tutte le zone del centro storico, è in grado di orientarsi ovunque. Quando si viveva nei Sassi, racconta, non ci si spostava molto, di solito ognuno conosceva la zona dove abitava. Il padre di Beppe era del secolo scorso, classe 1899 per la precisione. Passava le settimane in campagna a coltivare. La madre, invece, a otto anni è rimasta orfana e da allora ha cominciato a lavorare anche lei nei campi, a zappare con la sorella e il fratello. «Di vita vissuta molto poca», specifica, «dopo aver lavorato nei campi, ha cresciuto sei figli». Beppe dice che, quando era giovane, molti si rivolgevano a sua madre perché era una di quelle persone in grado di curare i mali attraverso le parole e facendo dei segni: «roba religiosa», spiega con orgoglio. «Il suo terrazzo è quello bianco, lassù». Dalla porta d’ingresso si vede il duomo e in basso le case grotta. Sotto di loro abitava la nonna che aveva la stalla e teneva gli animali, ma solo all’inizio perché il mulo non riusciva a salire le scale. La madre di Beppe sta seduta in un angolo, all’estremità della stanza accanto al letto, su una poltrona colorata. Saluta con cortesia: «piacere a conoscere», ripete. Il figlio le chiede: «Mamma ma tu te ne andresti a vivere fuori dai sassi?». Ruota gli occhi verso il figlio, poi risponde in dialetto ed è lui a tradurre: «No, io sto vivendo nei sassi, sono 102 anni, ci sono nata qua».
 

 
Matera © Giulia Landucci
 


Tumulti di creatività
Fiammetta Cerreti

Il pastore in quegli anni era ormai un contadino e si era fatto dare un passaggio da Raffaello mentre portava il radiatore di un trattore da aggiustare a Matera. Quel ragazzo in macchina, chiuso come una «crisalide» nel silenzio della «ferrea dignità lucana», «parla e rompe silenzio e calura» per dire «però, quando avevo undici anni e facevo il pastore, c’era una grotta che la chiamavamo “dei 100 santi” perché c’erano delle fotografie di santi, era tutta pittata. Io dormivo in una grotticella di notte con le immagini di San Michele, San Raffaele e San Gabriele che mi guardavano con gli occhi sgranati». Primo Maggio 1963. Raffaello, Teresa, Maria e Carlo sono gli ultimi di una piccola spedizione che da mesi cerca la grotta dei “100 santi”, gli altri hanno rinunciato da tempo. Sono nelle terre dell’azienda vinicola Dragone, abbarbicati lungo le scarpate della Gravina di Picciano dove sapevano esserci delle grotte che facevano da dimora alle pecore e ai pastori nella notte. Carlo e Raffaello sono più avanti, trovano una fessura e si fanno largo nella vegetazione. Entrati dentro, pochi secondi per abituarsi al buio e vedono finalmente “le fotografie dei santi”. Quando Teresa e Maria li raggiungono li trovano abbracciati in lacrime a terra, mentre i custodi della grotta, le 71 pecore, rientravano. Quella sarà la Cripta del Peccato Originale, la più importante delle chiese rupestri del materano, in cui il Pittore dei Fiori di Matera ha affrescato scene dell’antico e del nuovo testamento in un ciclo d’epoca bizantina. Matera e la sua terra sembrano essere così: sembrano attrarre istinto, ricerca, passione e creazione. Da Pasolini a Mel Gibson, tanti i registi che si sono avvicendati nelle sue terre, gli scultori e artisti vari. Vittorio Storaro ha detto di Matera: «dopo aver girato il mondo, qui ho avuto tumulti di creatività».
 


Matera © Fiammetta Cerreti
 


L’Africa nel chiostro
Greta Lorimer

«Volevi una stanza? Oggi ne sono arrivati altri venti, perciò siamo al completo». Una signora spazza distrattamente il marciapiede d’entrata. L’albergo materano “Il Chiostro delle Cererie” era un convento, ora accoglie anche immigrati africani provenienti da Lampedusa. Un centro dove trascorrono mesi ad attendere di essere identificati dalla questura per i documenti. Quanto tempo per i documenti? «Non lo so, dipende da Dio», dice Abraham, nigeriano, 26 anni, l’ultimo di otto figli. L’intera famiglia è «andata con Dio» come dice lui, in un incidente. Per questo ha deciso di partire. La penisola per lui è un posto di pace: «la Nigeria è un posto difficile. Se hai il telefono nella mano sbagliata, qualcuno può spararti». I suoi occhi sono lucidi di lacrime, ma sorride. Il suo sogno è poter viaggiare. Dice che in Africa è difficile perché l’«Africa non è unita» e i visti per spostarsi costano troppo. In Italia può farlo con un solo documento, che attende con tanto ardore: «no documents, no power». Per lui l’Italia è una scommessa, una speranza. Ha pregato Dio - «il mio unico amico», dice - ed è sopravvissuto in quel mare. «Quel mare, quel mare», continua a ripetere con voce spezzata, «hai due scelte: muori o lo attraversi. Quel mare può prendersi chiunque». Ha preferito correre il rischio nelle acque di Lampedusa che non tentare affatto, «Niente avventura, niente vita. Bisogna stare calmi, prenderla con calma. Non ho niente la perdere, deciderà Dio». La cena, offerta dalla cucina del Chiostro, è una piccola festa. Siedono al tavolo insieme, ognuno con tre porzioni in scatole di alluminio e si parlano come una grande famiglia, molti legati fortemente per aver condiviso la stessa barca. I sorrisi rallegrano le stanze da letto e l’Africa sembra unita in quei corridoi verdi come la loro speranza. Modou prima di dormire ascolta sempre canzoni del suo paese per sentirsi meno solo. «Amiamo i bedroom party. Ci sentiamo liberi, ma solo a mezzanotte», ride scuotendo il capo.
 


Matera © Greta Lorimer
 


Casanetural, incubatori di sogni
Alice Falco

A Piazza Duomo, oltre al belvedere sulla storica Matera, c’è un piccolo arco. Attaversandolo si entra nella sede di Casanetural. Subito, è come se si venisse sorpresi da un abbraccio caloroso. Scorcio mozzafiato sui sassi, piante rigogliose e piccoli vasi dove pomodori, odori e spezie stanno facendo capolino. All’interno, un ampio soffitto a volta, tanta aria e luce. Un piano è soppalcato, la zona notte per il co-living. Una scala funge da libreria, delle cassette per la frutta sono state montate per far da ripiani alla dispensa nella cucina comune, un tavolo è stato girato e attaccato al muro a mo’ di “appendi-tutto”. Mariella è raggiante, saluta Andrea che si affretta per andare a una riunione. Andrea, dal 2011, ha cominciato a girare la Basilicata, voleva lavorare sul co-working rurale e portare avanti il concetto di collaborazione fuori dal contesto delle grandi città. Il destino ha voluto che lui e Mariella fossero coinvolti in un workshop, lui le ha parlato del suo progetto e così hanno messo insieme le loro competenze e nel 2012 hanno creato Casanetural. «Poi, vabbé, ci siamo innamorati!», racconta Mariella. Hanno investito i loro soldi, tutto con le loro forze e a oggi l’associazione ha un team di 21 persone, 70 soci e più di 500 persone hanno frequentato lo spazio. Casanetural non è solo un luogo di aggregazione, né una realtà per pochi eletti. Vuole parlare a tutti, un modello adattato alla popolazione e alle esigenze della regione. I ragazzi di Casanetural pensano in grande. Vogliono impegnarsi sul territorio e che il territorio stesso rivolga il suo sguardo all’esterno, per apprendere nuove cose e trasmetterne altrettante. Riuscire a creare lavoro e nuove opportunità è tra i primi obiettivi. Si organizzano corsi di lingua, si coltivano spazi in disuso per una produzione più consapevole e più qualitativa, progetti dedicati ai bambini e altri dedicati alla sostenibilità. È concesso sognare, a Casanetural. Anzi, si è incoraggiati a farlo. Si è spronati a compiere i piccoli passi necessari a realizzare i propri progetti, anche i più ambiziosi. Come dice Mariella, «siamo incubatori di sogni».
 


Matera © Alice Falco
 


I gomitoli di Bice
Umberta Coglio

«Manca manodopera, non se ne fregano niente» dice Bice, poco più che ottantenne, controllando la maglia. A pochi passi da piazza San Rocco, sul piano di Matera, si trova una piccola maglieria d’epoca. Beatrice Miglionico lavora la maglia da più di settant’anni, ha iniziato a cucire quando era ancora alle elementari. Il suo maglificio un tempo era molto più grande, «tutti i negozi più importanti li servivo io perché avevo macchinari speciali» esclama orgogliosa. Bice lavora ancora, abita poco più avanti, ogni mattina esce alle sei e rientra la sera alle dieci. «Io lavoro perché mi piace e non so che fare, il tempo preferisco perderlo così». Ha i capelli raccolti in uno chignon e lo sguardo un po’ malinconico. Nonostante la crisi, il negozio funziona. Tanto che Bice vorrebbe qualche ragazza a lavorare per lei, ma il suo mestiere sembra essere in disuso. «Ho bisogno di una mano», spiega un po’ rattristata, «una cosa alla volta riesco fare». Nonostante l’età sembra instancabile, si alza solo per mostrare i suoi premi appesi su tutta una parete del negozio. «Questi gomitoli d’oro io li ho guadagnati», racconta fiera. Vicino a lei, sul tavolo, spunta tra i gomitoli una Madonna in una vetrinetta, con una lista di nomi e numeri. «Queste sono le madonnine che girano il quartiere», spiega, «è la vecchia tradizione, bisognava tenerla ventiquattro ore ciascuno, come stanno scritti i nomi cosi si fermava in ogni palazzo». Ora che tutti sono anziani, però, la Madonnina si è fermata. «È rimasta lì nella lana», scherza, «si vede che le piace fare la maglia».
 


Matera © Umberta Coglio
 


Un presepe di Sassi
Daniela Mattina

Dicono che Matera sia un esempio eccellente della capacità dell’uomo di scavare nella roccia. La parte antica della città è famosa per i suoi Sassi, le sue case-grotta, e per i suoi meandri cavernosi. Quello che in passato è stato considerato un luogo d’infamia e di vergogna nazionale - specialmente dopo gli anni Cinquanta, quando la legge De Gasperi decretò lo sfollamento di 16 mila abitanti dei Sassi verso i nuovi quartieri residenziali nel piano «per il vissuto infernale delle grotte» dove l’uomo conviveva con le bestie - oggi trova finalmente il suo riscatto. I cavernicoli, che scavavano canali e cisterne e costruivano giardini pensili, diventano degli eroi. Matera è stata riabilitata e, proprio grazie alle sue grotte, dichiarata Patrimonio dell’Unesco nel 1993, gemellata con la città di Petra nel 2011 e candidata a Capitale Europea della Cultura per il 2019. Fino ad oggi è stata ristrutturata circa la metà del patrimonio dei Sassi, 3500 grotte. «Quando chiusero i Sassi tra il 1956 e il 1957 mi venne un pianto spontaneo sul belvedere - racconta Francesco Di Pede, geometra ottantenne che ha vissuto nei Sassi fino a 35 anni - erano finite le corse dietro ai traini, il mezzo di trasporto agricolo condotto da due o tre muli a secondo del carico. Avevamo la fontana pubblica, dove si andava a prendere l’acqua con recipienti in creta. Adesso manca la vita di quell’epoca». Un tempo cuore della civiltà contadina, oggi i Sassi rivivono soprattutto di sera, quando le piccole luci di residenze, botteghe di artigiani e ristoratori li fanno sembrare un presepe in cartapesta. Specie in estate, al fresco del tramonto, la piazza si riempie di bar con tavolini all’aperto, dove è facile fermarsi ad ascoltare musica tradizionale lucana, a suon di organetto e tamburello, e danzare a passi di taranta.
 


Parco della Murgia materana (MT) © Daniela Mattina
 


Jazz sulla Gravina
Elena Mantovan

Il costante gorgoglio della Gravina culla la quiete della sera, unica colonna sonora dei dintorni che dalle stanze dell’albergo Le Monacelle giunge all’orecchio. Ma alcune notti lo scorrere del fiume accompagna l’eco di una chitarra, di un saxofono, di una voce. Vengono dall’Altereno, un piccolo locale che organizza concerti jazz e rock e serate di incontri culturali. Antonio è sempre presente, fin dal mattino, e cura con attenzione i particolari del suo caffè. Ci lavora da due anni, lui ne ha 28, e ha ereditato il suo spazio dal nonno, mastro Giuseppe, che al posto del bancone del bar aveva il tavolo di lavoro da falegname. «Fino a un paio di anni fa questo posto era molto diverso: le pareti e la volta erano pieni di fuliggine e umidità, vecchi armadi di metallo pieni di martelli, seghe e pialle, i suoi strumenti». Alcuni di questi strumenti Antonio li tiene ancora lì, esposti con orgoglio, a ricordare le storie che il nonno gli raccontava, l’odore delle sue Nazionali senza filtro e di segatura, il crepitio della legna messa ad ardere in stufe di fortuna, le mani forti e rugose, la passione per un mestiere. Prima di essere falegnameria fu abitazione di famiglia per un centinaio d’anni, da quando i bisnonni la acquistarono coi risparmi guadagnati lavorando in America. Ma la storia di questo edificio va molto più indietro nel tempo, arrivando al convento di Santa Lucia e Agata alla Civita, costruito presso la porta orientale dell’antica città, detta Postergala, che dalla fine del ‘200 al ‘800 ospitò le monache di clausura dell’ordine benedettino, per poi essere trasformata in masseria. Uscendo sulla terrazza, arroccata sulle pendici del fiume e affacciata sul verde della Murgia Materana, si vedono ancora le tracce di portali, colonne, iscrizioni, che caratterizzavano il monastero. Antonio sta cercando di ampliare i suoi spazi, per allestire un tourist point e organizzare percorsi enogastronomici e mostre di artigianato tradizionale. C’è ancora tanto lavoro da fare, ma lui continua con impegno e passione il suo lavoro. Due turisti entrano, meravigliati, davanti al panorama dalla terrazza. Si siedono al sole e assaggiano un bicchiere di vino «di qua».
 


Matera © Elena Mantovan
 


Paesi reali, paesi letterari
Marianna Mazzoli

«Da bambino, seduto vicino agli anziani, rimanevo ore ad ascoltare le leggende sui lupi, i fatti di stregoneria e brigantaggio accaduti a Craco. E mi sono talmente affezionato a queste storie che ho deciso di mantenere il ricordo di ciò che mi hanno raccontato, raccontandolo agli altri» dice Vincenzo, 23 anni, unica guida turistica dell’antica Craco, il paese senza più abitanti, a 300 metri di altitudine sulle colline dell’Appennino Lucano, a una cinquantina di chilometri da Matera. Con passione ripete ai visitatori di passaggio quelle storie tramandategli di un paese che è stato e dove oggi è consentito circolare tra le rovine solo con elmetto fornito all’entrata di un percorso obbligato. Un asino e qualche capretta abitano il paese fantasma, definitivamente evacuato nel 1963 a causa di una frana provocata da lavori di infrastrutturazione, fogne e reti idriche. Oltre ad essere set di alcune scene della “Passione di Cristo” di Mel Gibson, Craco è stata scenario anche del film di Francesco Rosi “Cristo si è fermato a Eboli”, in particolare dell’episodio dell’arrivo di Carlo Levi a Gagliano, sua destinazione di confino. La Gagliano della finzione letteraria (e cinematografica) è in realtà Aliano, lontana un’ora di strada tra i calanchi che la fanno da padrone, paese in cui lo scrittore e pittore torinese è stato recluso quasi un anno, a seguito delle sue attività anticonformiste alla retorica dell’epoca fascista. Gli anziani del paese seduti sulle panchine della via principale conservano un bel ricordo di Levi e scambiano volentieri due parole con i visitatori che vagano tra i vicoli del centro e le “case con gli occhi”.
 


Aliano (MT) © Marianna Mazzoli

 


Carlo Levi si è fermato ad Aliano
Alice Guidi

La fontanella di fronte alla chiesa continua a sgorgare e lo scroscio dell’acqua fa da sottofondo alle chiacchiere di quattro anziani seduti su una panchina, all’ombra di due grandi alberi. Capelli bianchi, grandi occhi scuri e dal volto segnato, Don Pierino è il parroco di Aliano da oltre trent’anni. «Ho lavorato per molti anni in una comunità di malati di mente, prima di venire a esercitare quassù ad Aliano, non è stato facile. Qua siamo pochi, i più se ne sono andati», racconta mentre con la mano saluta un signore in auto. Mostra la Chiesetta del paese indicando una Madonna , «questa è l’opera più importante della Basilicata», dice riempiendosi la voce. Statue di angeli colorati e filari di candele decorate con perline bianche dall’aria un po’ gipsy le fanno da contorno. Si respira un’aria pesante fatta di devozione e tradizioni. La luce è bassa, quasi soffusa, e la temperatura gradevole si contrappone violentemente al bianco della luce del sole e al suo calore sfiancante una volta usciti fuori. Don Pierino inizia a raccontare con emozione di Carlo Levi, del confino ad Aliano durante il regime fascista, di come ne è stato ispirato nella scrittura di “Cristo si è fermato a Eboli” e di quanto nella Gagliano letteraria si ritrovi di Aliano. Camminando per le viuzze deserte indica i luoghi reali raccontati nel romanzo - dalla casa della vedova all’abitazione del podestà - citandone brani qua e là. «Spalancai una finestra, mi affacciai a un balcone, dalla pericolante ringhiera settecentesca di ferro e, venendo dall’ombra dell’interno, rimasi quasi accecato dall’improvviso biancore abbagliante. Sotto di me c’era il burrone; davanti, senza che nulla si frapponesse allo sguardo, l’infinita distesa delle argille aride, senza un segno di vita umana, ondulanti nel sole a perdita d’occhio, fin dove, lontanissime, parevano sciogliersi nel cielo bianco». Lo studio del parroco è pieno di quadri e di libri. In una bacheca di vetro, di fronte alla scrivania, conserva gelosamente tutte le versioni

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