Interviste: Fotogiornalismo, cronaca, reportage

Gianni Berengo Gardin: Storie di un fotografo (da Sguardi 89)

Questione di cultura fotografica.
D’accordo, i libri costano caro, indubbiamente. Però i circoli fotografici se le dividono le spese. A parte Cartier-Besson che lo conoscono anche i sassi, ma già quando parlo di Paul Strand proprio nessuno sa chi sia, nessuno sa che ha fatto un paese con Zavattini, Luzzara, che io ho fatto vent’anni dopo. C’è questa ignoranza. Poi adesso col digitale è andato tutto in vacca perché il digitale cambia la mentalità dei fotografi che scattano a mitraglia, a mitraglia proprio, e poi non guardano nemmeno, tanto se vengono brutte poi le si salva con Photoshop. Io Photoshop, per il reportage, non per la moda o la pubblicità, lo abolirei per legge, perché falsa la comunicazione. È quello il grave, che non è più una comunicazione onesta, perché ormai tutte le foto di paesaggio in digitale hanno i cieli tempestosi. A parte che il digitale non mi piace perché è freddo, è metallico, però può essere una scelta. I due unici vantaggi reali del digitale sono l’immediatezza (fai una foto adesso e il minuto dopo è a New York) e la possibilità di cambiare impostazioni secondo le condizioni. Ma tolti questi due vantaggi? Sì, il digitale è più inciso della pellicola. Ma la pellicola è più plastica. E poi la cosa gravissima è che non esisteranno più gli archivi, perché tra cinque, dieci anni cambieranno i mezzi di lettura. Io ho dei cd che sono diventati vecchi, illeggibili, e poi ho dovuto cambiare computer, stampante, anche se io in digitale stampo pochissimo, solo quando ho un’urgenza. Io sono un fanatico della pellicola. E poi mi dicono i galleristi americani che ormai i collezionisti non comprano più stampe in digitale, vogliono i sali d’argento e quindi io continuo a stampare con i sali d’argento. […]
Vorrei farti una domanda sul linguaggio. Ma tu cosa cerchi ancora?
Il racconto cerco, il racconto. Ci sono due tipi di fotografia che raccontano. Una, chiamiamola alla Cartier-Bresson tra virgolette: una foto unica che però racconti qualcosa. L’altra, il racconto con cento foto, quindi più dilazionato, per fare un libro. […]
Adesso, se guardi in prospettiva, c’è un desiderio particolare da qualche parte in te?
No, a me basta scattare. È proprio un fatto fisico. Io dico sempre, scherzando un po’, che non sono un artigiano ma un manovale della fotografia. Si pensa che i manovali facciano dei lavori materiali e basta, che non serva l’intelligenza. Una grande frase di Cartier-Bresson è stata “Voi credete di fare le fotografie con la macchina, ma in realtà le fate con la testa, con gli occhi e col cuore” è quella la grande verità. Digitale, pellicola, va tutto bene, ma se non c’è la testa...
 


© Gianni Berengo Gardin, Lido di Venezia 1958

 

Don McCullin: La realtà da vicino (da Sguardi 11)

Perché a un certo punto della sua vita ha deciso di smettere di fotografare la guerra e di dedicarsi ai paesaggi?
Innanzi tutto perché la tragedia, la miseria, la sofferenza che vedevo mi ha consumato. Poi perché sono stato licenziato dal Sunday Times, il giornale per il quale lavoravo, dal nuovo direttore un uomo di Murdoch. Diceva basta con queste immagini di guerre, rivoluzioni, bambini morenti africani. Io mi sono arrabbiato moltissimo e mi hanno elegantemente invitato a dare le dimissioni. Mi sono trovato senza lavoro, dopo 18 anni di contratto col Sunday Times. Ho pensato: cosa faccio adesso? Quello che non avevo capito era che mi si era presentata un'opportunità per esplorare me stesso, per scoprirmi. […]
È vero che ha detto: «a cosa serve farsi uccidere se la foto non è bene esposta?».
Non esattamente. Ho detto: perché riprendere una foto se la luce non è giusta? Bisogna essere sempre professionali. Controllare, ricontrollare e controllare ancora.
E quanto conta la tecnica?
Non è una questione di tecnica, è una questione di anticipare le mosse, sapere quel che sarà la prossima cosa che succederà. Qualche volta pensi che qualcosa stia per accadere. Stai lì che aspetti come un falco nel cielo. Un attimo in cui si prendono decisioni, un millesimo di secondo. Qualche volta invece non succede quello che ci si aspettava. La prima regola nel mondo della fotografia è che il soggetto non è tuo. Non puoi dire è mio, lo prendi se ci riesci, lo fermi ma non hai il diritto divino di pensare che ti appartiene. Stai comunque rubando un momento che appartiene a un altro. Gli arabi pensano che gli rubiamo l'anima quando li fotografiamo, e questo è un gran problema.
Perciò la fotografia è un furto?
Una forma. Il problema è che se tu vedi una cosa e vuoi essere educato e dici "scusi posso scattare una foto", quella cosa è comunque cambiata, non è più la stessa o non c'è più per niente. Quindi si ruba. Io sono sempre vicino, non fotografo da molto lontano. La fotografia non ha nulla a che vedere con gli obiettivi, l'attrezzatura. Non importa cos'hai nelle mani. Potete regalare a qualcuno la macchina fotografica più costosa che ci sia sulla faccia della terra ma non vuol dire che farà buone foto se non ha cuore.
 


© Don Mc Cullin

 

Ferdinando Scianna: Premio Kapuściński (da Sguardi 90)

Parliamo subito di reportage. So che il tuo interesse, quando si tratta di raccontare, è doppio. Da una parte c’è la fotografia, dall’altra c’è la parola scritta. Come ti regoli, come convivi con queste due modalità espressive?
In realtà quello che mi interessa è raccontare le cose attorno a me, le cose che mi appassionano, le cose che mi indignano, le cose che mi piacciono. Per me fotografia e racconto non sono scissi. Negli ultimi tempi ho avuto dei problemi di deambulazione, questo probabilmente mi ha portato più a scrivere. Ma non l’ho trovata una cosa stramba, alla fine mi ci sono ritrovato dentro, perché è la continuazione della stessa storia con altri mezzi. Pensa che il mio primo libro, avevo vent’anni, è stato pubblicato insieme al mio angelo paterno, Leonardo Sciascia. Già allora la dimensione del racconto era implicita. Aveva una scrittura di carattere narrativo. Per me la fotografia che non è racconto non so cosa diavolo sia. Ogni immagine può dire un testo ed è il testo che ha in testa quello che la sta facendo e che poi ci mette quello che la sta guardando. Questo testo a volte affiora. Scrittura e fotografia non si escludono. Io nasco fotografo e mi sento fotografo, però ho fatto il giornalista per venticinque anni, scrivendo anche. Mi ricordo che Sciascia, mettendomi in guardia, mi disse “stai attento che te ne può venire una schizofrenia”. Ma io questa cosa l’ho sempre esorcizzata considerandomi un fotografo che scrive. I fotografi hanno una maniera un po’ diversa di scrivere, da questo punto di vista per esempio Kapuściński è per me impressionante - e naturalmente non solo per me - è un punto di riferimento e un maestro, perché io penso che Kapuściński abbia una straordinaria scrittura da fotografo. Nel senso che arriva alla complessità del racconto e del reportage attraverso l’accumulo dei dettagli, l’esperienza diretta del dettaglio vissuto sulla cosa reale.
Le foto per raccontare.
Sì, non mi interessa la bella fotografia, mi interessano le fotografie che raccontano qualcosa, è allora che raccontano il mondo. Naturalmente, dire reportage e dire fotografia per me è la stessa cosa, dire viaggio e dire fotografia è la stessa cosa. Paolo Monti diceva che le fotografie si fanno con i piedi. Io l’ho capito benissimo, da subito, e ancora di più quando i piedi non sono stati così disponibili all’avventura. Perché un fotografo cerca. Un pittore può andare a vivere in una casa sulla scogliera e riproporre immagini della sua esperienza. Un fotografo le proprie immagini le trova. È questo che fa il fotografo. Guarda il mondo e ogni tanto ne riconosce un istante significativo, significativo sul piano del racconto, e naturalmente tanto di più la forma lo accompagna tanto di più e di più significante viene raccontato. Insomma, per me foto e racconto è veramente un sinonimo. Non ho mai pensato alla fotografia altrimenti che così.
 


© Ferdinando Scianna / Magnum Photos / Contrasto

 

Leonard Freed: Fotogiornalismo, testimonianza e poesia (da Sguardi 3)

Che definizione darebbe di se stesso?
Sono un po' di tutto, come nei sogni in cui a volte sei una cosa e poi un'altra. Sono di destra, sono di sinistra. Sono religioso, antireligioso. Amo le donne, le odio. Tutto mi attraversa come in un sogno. Sono come uno studente curioso, che vuole sempre imparare. Per poter fotografare devi prima avere un'opinione, devi prendere una decisione. Poi, quando stai fotografando, sei immerso nell'esperienza, diventi parte di ciò che stai fotografando. Devi immedesimarti nella psicologia di chi stai per fotografare, pensare ciò che lui pensa, essere sempre molto amichevole e neutrale.
Cosa deve esserci in una buona foto di reportage?
La foto non deve aver bisogno di una spiegazione, deve trasmettere un messaggio forte di per sé. Non dovrebbe essere accompagnata da una didascalia. Altrimenti non è una buona foto. Ci sono due lingue, quella visiva e quella letteraria. La lingua letteraria è la didascalia, la lingua visiva è la fotografia e quest'ultima dovrebbe dire tutto. Le fotografie dovrebbero parlare da sole la loro lingua. 
Prima di tutto occorre che ci sia una buona composizione che possa funzionare come astrazione, che è come le fondamenta di una casa: se non ci sono delle buone fondamenta la casa crolla. Poi la fotografia deve raccontare una storia, la gente deve guardarla come se stesse leggendo una poesia. Una buona fotografia deve essere come un piccolo poema, l'osservatore deve percepirlo così e a questo contribuisce molto anche il taglio di luce. Per fare un buon servizio devi conoscere bene la psicologia del giornale e del photo-editor, ma serve sempre una buona apertura, qualche foto descrittiva e una bella foto di chiusura, una foto che deve dire "finito". […]
Se dovesse fare una sola raccomandazione a chi ha la passione della fotografia, cosa gli direbbe?
Io credo che si debba amare la vita per fare questo lavoro. E che bisognerebbe avere sempre l'attitudine di uno studente, essere curiosi, aver voglia di sapere. Essere un eterno studente, questa è la mia filosofia di vita, è questo che rende la vita interessante. Quelli che dicono "bene, non siamo più studenti" sono persone morte. Fotografare è quindi imparare continuamente, avere lo spirito di un bambino pur essendo un adulto. Io cerco di fare questo, guardare il mondo come un bambino. Credo sia importante dire: "oh guarda, non è fantastico?". Guardare il cielo e vedere la sua bellezza, talvolta lo dico a chi mi accompagna. Tanta gente che conosco è andata in pensione e io mi chiedo: cosa faranno ora si siederanno o passeranno il resto dei loro giorni a giocare a tennis? Io non posso neanche immaginare di andare in pensione. Sono piuttosto vecchio, ma la fotografia mi fa sentire bene. A volte non sto bene, ho il raffreddore; ma poi faccio foto, buone foto, e il raffreddore passa improvvisamente. È incredibile, ma è così. Fotografare è il mio segreto per restare giovane.
 


© Leonard Freed

 

Francesco Cito: Una certa pulizia dell'immagine (da Sguardi 50)

Come hai iniziato a fotografare?
A Londra per mantenermi ho fatto molti lavori, da Harrod's ai night club privati. Un giorno conobbi per caso il direttore di un settimanale di musica pop-rock e così ho passato un anno a fotografare concerti e complementi. Ma volevo conoscere il mondo attraverso altre vie. Avevo capito di avere una certa capacità di lettura, di cronaca, di stare sui fatti. Sfogliando i settimanali inglesi, Epoca divenne presto provinciale, superata. L'obiettivo era pubblicare sul Sunday Times Magazine. Feci vedere al suo photo-editor degli scatti su una festa religiosa in Italia e parlammo di un possibile servizio sul contrabbando a Napoli. Mostrò interesse, ma non mi diede garanzie. Ci provai da solo. L'ambiente dei contrabbandieri si rivelò molto più difficile di quel che pensavo. Per un mese gravitai nell'area di Santa Lucia, nel frattempo le Nikon erano arrivate a due. Seguivo la polizia, facevo le irruzioni con loro, facevo le foto al momento dell'arresto. Riuscii a salire su uno dei motoscafi dei contrabbandieri. Portai a termine il lavoro, il mio primo reportage sul Sunday Times. A Epoca venni presentato come quello che aveva pubblicato sul Sunday Times. C'è un detto secondo il quale i grandi giornali fanno i grandi fotografi.
Poi sei tornato in Italia.
Da Londra ero già tornato spesso, come free-lance, per esempio per un lavoro sulla camorra napoletana durato tre mesi che poi è stato pubblicato in mezzo mondo. A furia di seguire le squadre della polizia, ero quasi diventato uno di loro. Credo sia fondamentale introdursi in una certa realtà e cercare di viverla dall'interno, da quella dei contrabbandieri a Napoli a quella dei minatori in Inghilterra. Sono io, come fotografo, che mi devo calare nella loro mentalità. Ci vuole la più grande umiltà per diventare uno di loro.
Bisogna, prima di tutto, instaurare un rapporto.
Farsi accettare, conquistare la fiducia e il rispetto. Io non scatto subito, preferisco perdere una foto magari bellissima per non pregiudicare il lavoro. Una bella foto non significa niente rispetto alla costruzione di un percorso. Alla fine, la bella foto è la parte più facile. Il problema è arrivare a comporre un racconto. Penso di non essere mai tornato senza il lavoro; se la storia non c'era ho sempre trovato qualcosa da portare indietro. Uno dei complimenti più belli me lo ha fatto Carlo Rognoni, direttore di "Epoca", per un lavoro su Lorenteggio, il Bronx di Milano "Cito è uno che riesce a trovare la merda anche quando non c'è". Un buon reporter è uno che riesce a scavare. […]
Riconosci degli elementi principali nel tuo stile?
Credo di cercare sempre una certa pulizia dell'immagine. Sono per una fotografia in un certo senso asettica, per eliminare dal campo visivo tutti gli orpelli, per far rientrare nell'immagine soltanto gli elementi necessari e indispensabili. Certo poi devi inserire le cose che ti raccontano il fatto che vuoi raccontare. Non amo la tendenza alle foto sbilenche; sono della vecchia scuola, quella delle linee ben definite. Il mosso non è detto che sia da dimenticare, però poi la gente lo deve capire. Mi ricordo che una volta, a Panorama, mi chiesero una cosa sul Palio, perché si era battuto il record di velocità nel percorrerlo, allora ho pensato a un panning per dare tutta la dinamicità del cavallo che corre col cavaliere. Mi raccontarono che il giorno dopo il direttore era infuriato: "ma che cos'è questa foto tutta mossa?", urlava. Gli ho mandato a dire che la stessa foto l'aveva pubblicata Life.
 


Napoli 1994 - La sposa e la sorella © Francesco Cito

 

Gianni Giansanti: Testimoniare con fantasia (da Sguardi 36)

Qual è la tua idea di fotografia? 
Che definizione dai, se ce n'è una, di te come fotografo?
Non mi definirei. Per quanto riguarda il mio lavoro, sono ancora in fase di sperimentazione. A me la fotografia piace a 360 gradi. Ho fatto le mie esperienze in tutti i campi: nello sport, nel ritratto, nel reportage, anche di guerra, nel sociale. A me piace la sfida della non conoscenza, la sfida del non saper fare e imparare. Quando ho iniziato a fare la Formula Uno, per esempio, seguendo Ayrton Senna e poi Jacques Villeneuve, non capivo niente, eppure ho tirato fuori cinque libri su quel mondo. Vedevo queste macchine sfrecciare a 300 kmh e non capivo quali abilità richiedesse fermare quel movimento. Non parlo del lavoro dietro le quinte dei piloti o delle scuderie; andare dietro le quinte dei personaggi è sempre stata un po' la mia specialità, il mio modo di raccontare. Da un punto di vista tecnico lo sport è quanto di più difficile ci possa essere. Alle mie prime Olimpiadi, a Seul, dopo aver finalmente appreso la tecnica per fotografare il salto in lungo, zac, dovevo passare al nuoto. È faticoso, ma stimolante. Il segreto, come sempre, è rubare con gli occhi, vedere come lavorano gli altri, soprattutto i più bravi, senza mai chiedere a nessuno, e scattare, scattare.
Che rapporto cerchi di stabilire con chi fotografi?
Cerco di partecipare a momenti veri della sua vita quotidiana. È la maniera più bella che c'è: il personaggio non è lì a posare, cercando di dare l'immagine migliore di sé; tu lo fotografi nel suo relax, gli catturi l'anima. La stessa cosa vale, per esempio, coi Mursi in Etiopia: siamo stati una settimana con loro, dormendo con loro. Il primo e secondo giorno ti toccano, ti stanno attorno; il terzo giorno non ti filano più ed è allora che inizi a fotografare, quando la gente si abitua a te, quando entri a far parte della loro vita, del loro mondo. Allora il personaggio tira fuori ciò che ha di più suo, naturale, intimo. Col tempo ho imparato che tutto quel che si può fare per tirar fuori delle immagini interessanti è bene farlo subito, appena si può. Magari prima se vedevo il personaggio un po' stanco dicevo "va bene, questa la facciamo domani"; fatalmente l'indomani succedeva sempre qualcosa, come quando ti cambia la luce e perciò ti cambia la foto, e non si riusciva più a fare niente. Perciò è sempre meglio continuare anche solo per cinque minuti. Quando il personaggio è nella sua parabola ascendente, ti dà tutto; quando è al top, pressato da mille cose, non ha più tempo e si chiude a riccio; poi, dopo gli anni migliori, quando ha bisogno di rifarsi un po' l'immagine, ti richiama. Ricordo che qualche anno fa eravamo a Montecarlo con Jarno Trulli e Fernando Alonso, sulla barca di Briatore; per creare qualcosa di divertente ho chiesto ad Alonso di buttarsi nella Jacuzzi, anche se non voleva; oggi non potrei più chiedergli una cosa del genere. […]
Quanto conta la tecnica?
Io credo non conti nulla. Oggi come oggi, con il materiale a disposizione, chiunque può produrre una buona immagine. Conta invece la fantasia, il modo di vedere quella cosa, di immaginarla, di fotografarla. Se hai questa capacità di fantasia, puoi raccontare. È un dono, che però puoi coltivare, educare. E quando realizzi una bella immagine è come un sogno, lo senti con lo stomaco, è come un parto, fantastico.
 


Roma, Italia, 9 Maggio 1978. Il ritrovamento del corpo di Aldo Moro dentro una Renault rossa in Via Castani © Gianni Giansanti

 

Francesco Zizola: L’obbligo di raccontare la realtà (da Sguardi 53)

Uno dei problemi centrali del fotogiornalismo è la relazione con il soggetto. Troppo veloce, furtiva, spesso invasiva. Fotografare è, a volte, un atto predatorio, soprattutto in situazioni drammatiche. Eppure hanno detto di te che nelle tue immagini le persone non sono mai in preda dell'obiettivo, che i soggetti fotografati si fidano di te, che si sente solidarietà, rispetto. Come entri, da fotoreporter, in rapporto con l'ambiente?
La fotografia, rispetto a tutti gli altri linguaggi, ha l'obbligo intrinseco di raccontare la realtà che è fuori di noi. Infatti l'etimologia stessa ci dice che fotografia è scrittura di luce, e la luce illumina un mondo che è esterno alla nostra immaginazione. Il valore massimo di vincolo con la realtà si ha con il fotogiornalismo perché vincola con un patto etico l'operatore fotografo, che è giornalista, al suo pubblico; ciò che racconto è colto nella sua evidenza reale senza manipolazione. Il fotoreporter, a differenza del fotografo, stipula un patto con il lettore, il patto di non modificabilità della realtà in cui si trova con l'obiettivo di raccontarla. Sappiamo che ogni visione della realtà è soggettiva ma il fotoreporter si deve limitare ad aggiungere la sua interpretazione operando solo delle scelte linguistiche. Mentre il fotografo dispone, crea, modifica, insomma fa di tutto affinché la luce risponda in pieno al suo disegno (foto-grafia), il reporter deve sviluppare l'arte dell'istinto, della disciplina visiva, dell'attimo significativo, della psicologia degli esseri umani e, come dicevo prima, provare a far sì che in quella porzione di fotogramma rimanga traccia di ciò che per un istante è stato un essere umano con le sue gioie e i suoi dolori. Se poi si riesce a provare empatia, se ci si sente parte di quella realtà, è molto probabile che l'altro si fidi di te, che ti accolga nella sua, a volte difficile, realtà. […]
La scelta di linguaggio attraverso il bianco&nero è quella che preferisci?
Ho fotografato molto in b/n e ancora oggi lo uso. Facilita quella lettura "altra", al secondo grado, della realtà rappresentata. Il bianco e nero è stata una scelta linguistica precisa per l'inchiesta sulla condizione dell'infanzia. Con le mie fotografie cerco di raccontare la realtà, che è il primo grado della rappresentazione, e poi cerco di fare in modo che questo primo grado ne contenga un secondo, il senso, più simbolico. Il b/n è una scelta conseguente perché aiuta il lettore a cercare questo secondo grado; è già esso stesso un'astrazione dalla realtà (che è colorata) percepita comunemente. Negli ultimi anni, quelli hanno segnato il salto di qualità della tecnologia digitale, ho trovato il piacere e scoperto le potenzialità del colore. Colore che cerco di usare come il b/n, cioè esaltando i contrasti o lavorando sulle saturazioni in modo da ottenere quella lettura "altra".
 


© Francesco Zizola - Baghdad, 01.04.2003. La popolazione irachena abbatte la statua di Ahmed Hassan Al-Baker, il fondatore del partito Baath

 

Roberto Koch: Una vita di scatti (da Sguardi 1)

Come pensi debba porsi chi vuole fotografare nei confronti dell'ambiente di cui entra a far parte?
Il rispetto degli altri è fondamentale. La fotografia è un mezzo invasivo. Ed è più o meno invadente a seconda di come ci si comporta. La presenza in un certo luogo dovrebbe essere comunque rispettosa, indipendentemente dal fatto di fotografare. Se chi fotografa è bravo modifica poco le situazioni in cui interviene, la sua presenza è in qualche modo parte integrante del momento, il gesto di fotografare, che può essere molto violento, può risultare meno aggressivo. Tutto dipende dalla sensibilità personale. L'importante è intervenire poco con la propria presenza, avere rispetto per una realtà che appartiene prima di tutto a coloro che la abitano. L'approccio oltre che discreto dev'essere anche veloce; è un equilibrio abbastanza difficile da raggiungere tra l'immediatezza di reazione a sollecitazioni che vengono da realtà che non possono essere rinviate e il rispetto dovuto alla situazione esterna. […]
Bianco e nero e/o colore, qual è la tua posizione?
È totalmente un fatto di sensibilità personale. Un tempo c'era l'idea, un po' nostalgica, che il bianco e nero fosse un linguaggio più corrispondente a temi sociali, a un'indagine, mentre il colore si prestasse di più a raccontare la bellezza, il godimento estetico, la natura, eccetera; ma è un'idea che ovviamente lascia il tempo che trova. A me piace molto il bianco e nero per il suo carattere di essenzialità, forse anche perché la complessità e la specificità della fotografia a colori &egrav

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