Professione reporter

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Gli altri, tra tv e scrittura

Il reportage attraversa le modalità espressive. Fotografia, televisione, scrittura, dal giornalismo fino alla letteratura. Confrontarsi con modi e modelli diversi, incrociare distinti e a volte complementari punti di vista, può essere utile. Di seguito segnaliamo alcuni esempi virtuosi di reportage non fotografici che insegnano qualcosa.


Tratta dal sito www.pinoscaccia.splinder.com

Pino Scaccia è un inviato speciale del TG1. Volto noto, malgrado una presenza discreta in video, solidità di approccio, asciuttezza di racconto, serietà e impegno evidenti nel cercare di capire, documentare, raccontare la propria verità osservata. Ma anche appassionato cultore (e difensore) della professione del reporter. Al punto da creare un blog (www.pinoscaccia.splinder.com) per raccontare meritoriamente, da dentro i fronti, da dietro le quinte, mischiando fatti e riflessioni, il mestiere del reporter, sia giornalista, fotografo o cameraman. "Nessuno di noi", scrive Scaccia nel blog, " è un eroe né ha la vocazione di diventarlo. Si va in guerra, sembra banale, come si va in qualsiasi altra parte del mondo a raccontare: può essere una festa e può essere l'inferno.
La cosa strana è che continuiamo a sentirci dei privilegiati, solo per il fatto di stare in mezzo all'evento, occhi e anima di tutti gli altri.
Molti purtroppo pagano la grande curiosità, questa voglia di capire".

Di seguito riportiamo due sue segnalazioni, emblematica la prima del cinismo raggiunto da alcuni, la seconda dei perché e dei rischi della prima linea e delle ragioni, a volte difficili da trovare, della tragedia.

 


Tratta dal sito www.pinoscaccia.splinder.com

1. Certe volte mi vergogno
India. Sono stati incriminati per istigazione al suicidio i membri di una troupe televisiva indiana che, ansiosi di effettuare riprese-shock da mostrare poi sullo schermo, hanno indotto un manifestante a darsi fuoco, fornendogli persino nafta e fiammiferi per appiccare le fiamme. Lo riferisce il quotidiano in lingua inglese The Indian Express, secondo cui la vittima, Manoj Mishra, stava inscenando una protesta davanti agli uffici di un caseificio di proprietà pubblica per il quale lavornello Stato orientale del Bihar: reclamava il pagamento di stipendi arretrati per 200.000 rupie, meno di 4.000 euro. Nessuno era però lì ad ascoltarlo, giacché lo stabilimento era chiuso per una festività nazionale. I giornalisti lo hanno infine convinto a immolarsi, e hanno filmato l'intera scena senza minimamente preoccuparsi di aiutarlo. L'uomo ha subito ustioni sul 90% della superficie corporea, ed è morto poco dopo il ricovero al pronto soccorso.

 

2. Così muore un reporter
Un cameraman e fotografo freelance svedese è stato ucciso a colpi d'arma da fuoco a Mogadiscio, mentre seguiva una manifestazione organizzata dalle Corti islamiche. Si chiamava Martin Adler e viveva a Vaesteraas, a ovest di Stoccolma. Lavorava, tra l'altro, per la televisione britannica Channel 4, ma questa volta era a Mogadiscio per il quotidiano svedese Aftonbladet. Lascia la moglie e due figlie. Aveva 42 anni.


Tratta dal sito www.pinoscaccia.splinder.com

 

Da Teheran: Volevo mettere qui un'immagine forte, di Martin morto, perchè credo che la gente abbia bisogno di vedere per capire. Per l'ennesima volta mi ritrovo a scrivere di un reporter ucciso mentre fa il suo mestiere e dovrei cominciare come al solito: quando muore uno di noi. Ne muoiono tanti, ma qualche volta ti resta dentro perchè ti ritrovi davanti a un destino che poteva essere il tuo. Norberto quando ha saputo di Martin era commosso, perchè la telecamera poteva essere la sua, perchè anche noi stavamo insieme a Mogadiscio e poteva capitare a noi quella pallottola fatale sparata dalla folla chissà perchè. E Norberto ne ha visti di colleghi morirgli vicino: Ciriello e Palmisano, anche lui in Somalia. Per noi, insomma, non è una notizia di cronaca. E' un lutto personale. Questo giovanottone svedese che poteva stare benissimo a casa sua con le figlie e girare qualche bella conferenza stampa invece girava da anni il mondo più difficile: Liberia, Sierra Leone, El Salvador. Perché? È la domanda che ci fanno più spesso e alla quale rispondiamo sempre allo stesso modo: perchè ci dovrà pur essere qualcuno che va in giro a raccontare. Stamattina ho parlato a lungo con un gruppo di studentesse iraniane all'Università. Prima non volevano aprir bocca, quando hanno saputo che eravamo italiani, che venivamo da fuori, hanno cominciato a spiegarci i problemi (stasera cercherò di riassumervi al meglio le loro idee e le loro aspirazioni). Il nostro mestiere è questo. Pur di capire rischiamo un colpo o di essere arrestati. E in memoria dell'ultima vittima dell'informazione, chiedo per l'ennesima volta attenzione per chi ha deciso di rischiare la vita per documentare. Ci sono tanti reporter cialtroni, come ce ne sono in tutti i campi, ma basterebbe soltanto un sacrificio di questi per meritare rispetto. Specialmente da chi chiede sempre verità.

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Infine due libri, pubblicati di recente, che quest'estate hanno riportato l'attenzione sul genere reportage. Neri Pozza ha presentato Circostanze incendiarie di Amitav Ghosh (euro 17, 368 pp.), un "meraviglioso ibrido di narrativa di viaggio, reportage, analisi storica e libro di memorie, in altre parole il genere in cui Ghosh eccelle come nessun altro" come ha scritto il Washington Times. Inviato nei teatri di guerra e sulla scena dei maggiori conflitti politici, etnici e religiosi per oltre vent'anni, Ghosh ha deciso di raccogliere insieme i suoi reportage e di unirli a saggi più propriamente letterari, rendendosi conto che, tra la sostanziale continuità di temi, interessi e timori che essi avevano in comune, uno spiccava più di tutti: le «circostanze incendiarie», i focolai di violenza che incendiano il nostro mondo, non costituiscono più un'eccezione ma la norma. Fino a qualche tempo fa si poteva credere, infatti, che in tali circostanze vi fosse qualcosa di insolito, che esse fossero semplicemente un aspetto di quelli che V.S. Naipaul ha chiamato «mondi fatti-a-metà», mondi non ancora compiuti, non ancora sviluppati. Ma dopo la tragedia dell'11 settembre 2001, è chiaro che il mondo fatto-a-metà è diventato il nostro «mondo pienamente formato». Dal disastro naturale che ha spazzato via le isole Andamane e Nicobar al conflitto che infiamma il confine tra India e Pakistan, al fuoco che divampa nelle grandi capitali occidentali, che consuma l'Afghanistan e cova sotto la cenere in Egitto, nessun angolo del mondo appare oggi immune dall'irrompere di una violenza inaudita. Con la sua «prosa luminosa», Ghosh getta «uno sguardo accurato sul caos del mondo», mostrando come poche idee siano così pericolose quanto la convinzione che ogni mezzo sia consentito per un fine auspicabile.




Feltrinelli ha invece pubblicato Autoritratto di un reporter di Ryszard Kapuścinski (euro 10, pp.120), rara occasione per comprendere i ferri del mestiere di colui che è considerato il maggior autore vivente di reportage e il modo di adoperarli sia dal punto di vista tecnico che morale, per conoscere la commovente etica umana e ontologica di un uomo cresciuto nella miseria più nera che nel suo lavoro mette al primo posto la comprensione e il rispetto per le sofferenze degli altri. Dietro alla professionalità di Kapuścinski sta infatti qualcosa di molto speciale, di mite e nello stesso tempo durissimo: la vocazione. Da un materiale di migliaia di pagine e di oltre cento conversazioni, è stata ricavata una scelta, distribuita tematicamente in varie sezioni: le origini di Kapuścinski, le ragioni che lo hanno portato a scegliere la professione di reporter, il suo approccio alla materia, la sua visione del mestiere, il modo di scrivere, gli stili adottati, le tematiche dei singoli libri, la profonda trasformazione del mestiere di reporter rispetto all'epoca in cui non imperversavano i media.

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