Inviati 2

A cura di:

In Madagascar
Massimo Branca e Riccardo Bononi

Aeroporto di Antananarivo, Madagascar, settembre 2011. È notte fonda quando l'aereo sta per atterrare sulla piccola pista della capitale, guardando dai finestrini si possono scorgere solo rarissime luci sparse, tutto il resto, avvolto dal buio più totale, è spazio vuoto in cui le nostre aspettative cominciano a correre libere. Il Madagascar, come sappiamo, è la quarta isola più grande del Mondo, nell'Oceano Indiano, separatasi dal continente africano circa 140 milioni di anni fa. Per questa ragione è un Paese unico, un paradiso per paleontologi e naturalisti richiamati da una flora ed una fauna esistenti unicamente sull'isola, una terra vergine popolata da ogni specie di lemuri, coccodrilli e camaleonti.

© Massimo Branca
© Massimo Branca
La banda ingaggiata per l’occasione suona sopra la tomba degli antenati.
Ai suoi piedi alcune donne ballano con le stuoie che serviranno a trasportare i corpi estratti.

Il tragitto fino all'albergo è breve, dal finestrino del taxi la quasi totale assenza di elettricità continua a offrire paesaggi neri, confusi, brevissimi scorci di persone che si muovono tra un'ombra e l'altra. Il Madagascar continua ad esistere ancora nella nostra fantasia e nelle nostre aspettative, il suo segreto più grande è ancora al sicuro.
Con il sorgere del sole comincia ad affacciarsi una realtà inaspettata: il buio della notte nascondeva una metropoli frenetica e dai ritmi convulsi, un crocevia di persone e mestieri, dove la fretta regna sovrana, e il tempo per il riposo, per essere raggiunto, deve essere rincorso per tutto il giorno. I lemuri sono gli unici a riposare, pigri, da dietro le sbarre degli zoo.
Il giorno svela il mistero più grande dell'Isola: è il panorama umano a rappresentare la vera straordinarietà del Paese, un mosaico di culture provenienti dall'Indonesia e dal Mozambico, dove Musulmani, Cristiani e Animisti hanno creato forme religiose inedite, frutto di un sincretismo secolare.

© Massimo Branca
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Madame Serafine mostra la fotografia della suocera defunta.
In un mondo in cui la religione è incentrata sul culto degli antenati,
le fotografie degli estinti si elevano a icone sacre.

Il tema che ci ha spinti fino a lì è quello del particolare rapporto che quel popolo intrattiene con la morte, e la nostra prima tappa – in apparenza un punto di partenza obbligato e coerente con i nostri interessi – è stato il cimitero di Antananarivo, uno degli unici del Madagascar. In contrasto con quella che è la nostra quotidianità occidentale, il cimitero malgascio è un luogo lontanissimo dalla "sacralità" e dal silenzio che ci si potrebbe aspettare: dalle tombe entrano ed escono in continuazione, tra le risa, dei ragazzini, le donne cucinano tra le lapidi e altre ancora stendono i panni ed i giocattoli dei bambini sulle croci dei sepolcri. I nomi sulle tombe sono soprattutto francesi (ex funzionari coloniali) e cinesi (arrivati in massa durante la costruzione dell'unica ferrovia del Paese, oggi inutilizzata).
Una domanda è sorta spontanea: se nei cimiteri ci vivono quotidianamente i vivi, dove riposa l'oltre milione e mezzo di abitanti della capitale quando muore? Questa domanda ci ha condotti in un viaggio verso il cuore rurale del Paese, fino alla costa ovest dell'isola sull'Oceano Indiano, ricercando le differenze e somiglianze nei costumi delle tre maggiori etnie (Merina, Betsileo e Betsimisaraka).

© Massimo Branca
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Veglia funebre nel villaggio di Antanifotsi.

L'aspetto culturale forse più rilevante del Madagascar è infatti la percezione unica che questo popolo ha della morte, considerata come una semplice tappa dello sviluppo umano, simile al passaggio tra due differenti età della vita. Nella morte, mai considerata come "una fine", le funzioni dell'essere umano sono ridotte, ma l'immobilità del cadavere rappresenta solo un'impossibilità fisica di muoversi, non l'assenza del bisogno di movimento e di compagnia, che invece continuano ad essere ben presenti. Gli antenati sono sepolti insieme in grandi tombe familiari nelle campagne, per tenersi compagnia, e dalle tombe continuano ad influenzare la quotidianità dei viventi.
Questa particolare concezione della morte è in Madagascar molto più che simbolica: gli antenati continuano a provare bisogni fisici ed emozioni, la fame, la sete, la curiosità, la noia. Nel rituale del "Famadihana" ogni tre anni circa le famiglie si riuniscono attorno alle tombe, riesumano gli antenati e per tre giorni e tre notti ballano con loro, bevono insieme rum artigianale, mangiano a sazietà, parlano con loro e li aggiornano su quanto è successo al villaggio dopo la loro dipartita.

© Massimo Branca
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Prima della cerimonia vera e propria, viene sacrificato un numero variabile di zebù
(a seconda della disponibilità economica della famiglia)
come offerta rituale agli antenati.

La temporanea commistione tra vivi e morti richiede un prezzo, un sacrificio rituale di bestiame (lo zebù, anche detto vacca malgascia) alla presenza dell'indovino esperto nell'arte della divinazione e dell'influenza fasta o nefasta del moto dei corpi celesti sulla vita degli esseri umani. Anche il sacrificio è un momento di festa, in gli uomini sembrano già pregustare le libagioni dei giorni successivi e i bambini, curiosi e divertiti, giocano tra gli zampilli di sangue che sgorgano dal collo reciso dell'animale. Proprio i bambini del Madagascar rurale meritano un approfondimento, perché sembrano essere non solo osservatori passivi, ma protagonisti di ogni attività quotidiana e rituale che scandisce la vita nelle campagne malgasce: contribuiscono al lavoro nei campi, alla lavorazione della manioca, alla costruzione delle case e delle capanne, all'allevamento e alla cura dei fratelli più piccoli.
Dopo il sacrificio, in un corteo aperto dalle note dei musicisti richiamati per l'occasione, i discendenti provenienti da ogni angolo del Paese cominciano a marciare in processione verso la tomba. Estratti con cura dal luogo del proprio riposo, i corpi vengono fatti danzare sopra le teste degli invitati e, dopo giorni di festeggiamenti, riposti ancora una volta nelle tombe avvolti in un nuovo sudario. Tutta la cerimonia è un rituale di affermazione della vita e da quanto di più bello questa possa essere rappresentata; la morte, mai vissuta come antitetica rispetto alla vita stessa, è solo il pretesto per questa celebrazione vitale.

© Massimo Branca
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Al tramonto una parte dei presenti riprende la via verso casa,
passando tra i lembi di terra che separano le risaie e le altre coltivazioni.

Tra la polvere rossa alzata dalle masse danzanti è possibile passare in pochi istanti dalla commozione profonda di fronte ad una donna che tiene tra le braccia il padre defunto e, subito dopo, accorgersi che sul suo volto non c'è alcun dolore, ma un sorriso sincero, dolce, estraniante. L'odore pungente del rum artigianale satura l'aria così come le menti dei partecipanti, il cui passo si fa ad ogni sorso più incerto, ondulatorio, fino a diventare una danza. Dall'alto della tomba la massa umana diventa un fiume, si muove senza regolarità, senza sincronia, e i lenzuoli in cui sono avvolti i defunti sembrano trasportati in modo causale dalla corrente. L'alcool comincia anche a scorrere nelle vene dei musicisti, le cui dita sono sempre più rilassate sui propri strumenti. La musica è quanto di più allegro si possa immaginare, disordinata ed estatica colonna sonora di un rituale che concentra simbolicamente tutto il caos della vita in poche ore, così che ai morti possa bastare il ricordo per qualche anno ancora, almeno fino al prossimo Famadihana.

© Massimo Branca
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Nell’incontro tra vivi e morti, la musica si ferma per permettere un momento di raccoglimento tra i presenti, e ricordare così i cari defunti.
© Massimo Branca
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I volti dei membri più anziani
descrivono l’intensità del legame
con gli antenati.



Chi sono
Riccardo Bononi, pscicobiologo, antropologo e documentarista è dal 2010 il direttore dell'Istituto di Ricerca e Formazione nelle Scienze Sociali (Irfoss) di Padova. Già allievo di Antonio Marazzi e David e Judith MacDougall, si occupa di antropologia visuale in diverse zone del globo unendo la sua grande passione per i media visivi e la ricerca sul campo. Dal 2006 il suo interesse è approdato in Madagascar, dove è cominciata una proficua collaborazione con il fotografo Massimo Branca.
Massimo Branca, fotografo e antropologo, ha testimoniato con la sua fotocamera la diversità culturale in tre diversi continenti, dai coltivatori dell'Ecuador ai rituali funebri dell'Africa australe. Il suo approccio è sempre stato rivolto all'uso della macchina fotografica come mezzo per entrare in contatto con "l'Altro". La grammatica del vedere è, nella sua pratica fotografica, una koinè linguistica capace di superare i confini invisibili tra nazioni, popoli e culture.

Riccardo Bononi: www.irfoss.it
Massimo Branca: www.massimobranca.com - www.collettivofotosocial.com

 

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