Passaggio alle Eolie: le isole piccole

Alicudi, Filicudi, Panarea

 

Alicudi, trekking nel tempo
di Giulia Bassanese

Si staglia a occidente l’ultima delle Eolie, un triangolo roccioso circondato di blu, un masso corposo e spinoso, non proprio accogliente, ma capace di intrappolare l’anima di coloro che s’avventurano. L’elettricità nelle case arrivò appena nel 1998. Di strade non ce ne sono. L’unica è lunga un centinaio di metri e va dalla piazzetta che si apre appena sbarcati, fino alla pista d’atterraggio dell’elicottero, unica via di salvezza in casi d’emergenza per gli appena 80 abitanti dell’isola e le centinaia di turisti che la invadono d’estate. Per il resto, ci sono le mulattiere: centinaia di gradini che conducono alle case inerpicate solo sul lato ovest dell’isola. Se non si vuole contare sulle proprie gambe, i muli sono gli unici mezzi di trasporto. Rumori di zoccoli al posto di clacson e motori. Una mappa poco leggibile, con i sentieri segnati da dubbiose pennellate di colore, è reperibile presso la biglietteria Siremar. Qui lavora Elena, una ragazza di Bolzano che, dopo dieci anni di lavoro nel turismo a zonzo per il Sudamerica, s’è trovata catapultata con mente e cuore in quest’angolo di mondo.


Alicudi © Giulia Bassanese

Seguendo la cartina interpretabile, si passa attraverso case di stile eoliano, con grandi balconi vista mare da dove sventolano panni ad asciugare, l’unico segno di presenza umana nella calura pomeridiana. Ci sono poi due negozi di alimentari, la posta ed un hotel-ristorante, aperto solo nei mesi estivi. Il bar, con uno sbiadito cartellone di gelati, è aperto «quando gli pare». Accanto alla posta vive Silvio, Silverio Taranto all’anagrafe, pescatore di sessantacinque anni che apparecchia la sua tavola per i turisti di passaggio. Il menu dipende dal risultato della sua pesca mattutina e l’atmosfera è così casereccia che fa strano dover pagare alla fine del pasto. Proseguendo il ripido cammino, la natura si diverte a mettere i suoi gambi tra le ruote. Ci si può imbattere in un gruppo di case abbandonate, ricordo di un’emigrazione massiccia dei primi del ‘900, mentre un po’ più su si trova la Contrada Pianicello, abitata da persone di madrelingua tedesca, approdate sull’isola circa 30 anni fa. Un ultimo sforzo e si giunge alla Chiesa di San Bartolo, il patrono delle Eolie. Aggrappata a 360 metri d’altezza, sembra aver dominato nel passato il duro lavoro dei contadini in bilico sugli ampi terrazzamenti che si snodano al suo cospetto. Scendendo con fatica verso il porticciolo, la mente continua a vagheggiare un mondo antico che forse esiste ancora. I polmoni respirano erba e mare, le orecchie ascoltano canti di galli e richiami da un piano all’altro delle mulattiere e gli occhi vedono discese gialloverdi che sfumano nel blu.


Alicudi © Nicole Contardo

 

Incontaminati silenzi
di Matteo Bertuletti

Sbarcando al porticciolo di Filicudi non ci si rende subito conto di quanto sia bella l’isola che accoglie il visitatore con un agglomerato di case in cemento e un grande albergo resort. Non appena ci si allontana, passando lungo la spiaggia e salendo un ripido sentiero, si raggiungono facilmente il promontorio di Capo Graziano e le rovine di un villaggio preistorico di età neolitica, primissimo insediamento dell’isola, una vera e propria fortezza naturale circondata da pareti scoscese. Abbandonato il villaggio e recuperata la strada principale, l’unica asfaltata, è possibile scendere lungo una striscia di ciottoli che conduce sino alla spiaggia delle Punte. I grossi sassi tondi di origine vulcanica introducono direttamente al mare, così azzurro, limpido e trasparente e subito profondo pochi metri oltre la riva. Concedersi un bagno in una soleggiata domenica di primavera, nelle acque chiare restando ad ammirare l’Etna innevato all’orizzonte è sicuramente qualcosa di impagabile. Se poi venisse un po’ di fame non resta che entrare in un ristorante e pranzare con un piatto di spaghetti all’eoliana (capperi, olive, pomodori) o al finocchietto selvatico, giusta occasione per continuare ad assaporare il luogo. Finocchietto selvatico, capperi, fichi, sono questi i profumi che saltano immediatamente al naso non appena ci si addentra nei sentieri interni; è affascinante poter camminare nella storia e farsi rapire dal panorama, dai terrazzamenti che sembrano disposti in equilibrio su linee parallele, dagli alberi di ulivi, carrubi, fichi d’india e dalla macchia mediterranea.


Filicudi © Simone Prezzolini

Filicudi è un'isola selvaggia, dominata dalla natura. L’elettricità è stata introdotta da meno di vent’anni e, secondo qualcuno, più che nelle altre isole si è mantenuta pura la struttura della tipica casa eoliana che doveva difendersi dai venti, dal caldo e dal rischio sismico. «Questa abitazione è compatta, con piccole finestre e tre o quattro vani aperti su un terrazzo comune» spiega Giuseppe, ex muratore ora in pensione. Immediatamente fuori dai centri abitati, dove prosegue il cammino nella natura, si rimane facilmente catturati dalla potenza del cromatismo floreale e ci si ferma volentieri ad ammirare la dolce linea delle coste che crea nel mare una varietà di colori che spazia dal verde, al blu e al violetto. Ancora oggi Filicudi è sentita come isola remota, dai turisti di passaggio e anche dagli eoliani delle isole maggiori. In effetti, ciò che la fa sentire lontana, non è tanto la distanza ma qualcosa di più profondo: è una distanza nel tempo, nel modo di essere dell'isola e della sua gente, è lontananza dal mondo comune.


Filicudi © Francesco Conte

 

Un sogno deserto
di Valeria Comacchio

Celebrità, vita notturna, yatch lussuosi, musica ad alto volume. Esistono isole attorno alle quali si sviluppa un flusso selezionato di visitatori. Da Ibiza a Formentera, passando per Panarea. Quasi a metà strada tra le isole di Salina e Stromboli, Panarea sembra quasi un minuscolo arcipelago a sé con gli isolotti, gli scogli e le barche che la circondano. 3 chilometri quadrati di superficie e poco meno di 240 residenti. Nei mesi estivi esplode di vip e turisti «à la page», ma in bassa stagione è diverso. Quando il sole scotta meno, ed è più facile camminare sui sassi scuri a piedi nudi, si può passeggiare tra le sue stradine deserte, attorniati solo da muri bianco candido con porte blu acceso.

Blu le porte e le tante api Piaggio usate per muoversi rapidamente tra i viottoli che - quasi a completare un corredo - fanno sembrare Panarea una donna vestita per la sera della festa, con un vestito in lino bianco e tutti gli accessori in tinta. Una signora dell'eleganza. In abbinamento a scarpe e cintura, a completare il quadro, il mare cobalto, e in lontananza le altre isole sue sorelle a decorare l'orizzonte.


Panarea © Stefania Perrone

Le stradine si snodano su e giù per l'isola come piccole montagne russe naturali, che salendo e scendendo portano a luoghi inaspettati e baie nascoste. In cima a una scalinata abbarbicata su una delle sue pendici, si arriva al villaggio preistorico, su un altipiano a strapiombo sul mare. Vagando tra i resti del villaggio, con le pietre ancora in circolo dove una volta sorgevano le abitazioni, si ammira il paesaggio mozzafiato che la baia di Cala Junco nasconde. Qui, scendendo l'ennesima scalinata, ci si può rilassare in una spiaggetta che sembra esser privata, in un'atmosfera inaspettata, in quest'isola così famosa per la sua vita notturna, e così poco apprezzata per la pace che in realtà nasconde.


Panarea © Matteo Bertuletti

 

Sogno di un giorno di metà aprile
di Simone Prezzolini

Sboccia Filicudi nel suo arcano splendore una domenica di aprile. L’aliscafo tocca veloce i piccoli porti dell’arcipelago e naviga poi via, lasciando che i primi turisti e alcuni lavoratori pendolari animino l'isola semi-deserta, risvegliandola dalla quiete tacita delle prime luci dell’alba con schiamazzi e impaziente curiosità. I pescatori sono già all’opera, intenti a districare il diabolico groviglio delle reti che dovranno poi piazzare strategicamente «ammare». I luoghi comuni, che vogliono il pescatore come l’aspro lupo di mare, sono spazzati via dalla gentile mitezza e disponibilità di una famiglia di pescatori che opera al largo di Filicudi e che con invidiabile pazienza si presta alle domande dei curiosi. «Cinta, si chiama», spiega il pescatore descrivendo il metodo antico quanto efficace che utilizza l'equipaggio del Carascu. Il pesce viene attirato, quindi catturato nella rete, che si chiude a sacco attorno all’ignaro animale. I greci chiamavano questa isola "la donna incinta", per il suo profilo visto da lontano, somigliante appunto a una donna gravida distesa supina sul letto del mare. Lasciandosi alle spalle il porto e incamminandosi lungo il sentiero che porta al villaggio neolitico in vetta al promontorio, la testa della donna, ci si immerge nell’impervia natura di Filicudi, che ha ormai sovrastato i terrazzamenti dei tempi in cui l’isola era quasi interamente coltivata a fichi d’india e capperi. Domina qui la pianta del finocchietto selvatico e una moltitudine di fiori dai più svariati colori, insieme a grovigli indistinti e inaccessibili di macchia mediterranea. Ma è l’olfatto il senso più stimolato, lusingato dagli odori e dai profumi che si sprigionano vigorosi nell’aria, amplificati e intensi, come fossero un’evoluzione di quelli normali, tra i quali spicca la mentuccia selvatica e la salvia.


Filicudi © Carolina Napoli

L’anima selvaggia e indomabile della natura dell’isola si riflette anche nelle sue spiagge, non sabbiose, ma formate da pietre di una rotondità perfetta, modellate incessantemente dal movimento senza fine del mare azzurro-verde dell’isola. La spiaggia di Le Punte, situata nel lato dell’isola rivolta verso Alicudi è in questo periodo dell’anno già popolata e i più coraggiosi si cimentano nel primo bagno stagionale nella limpida quanto gelida acqua del mar Tirreno. Filicudi è attraversata da una sola strada asfaltata che collega le varie parti dell’isola, ma anche da nascoste mulattiere che insospettabili la circondano e arrivano nei più ardui e interessanti luoghi, sorvegliati sempre in lontananza dall’imponente e contrastante presenza della cima innevata dell’Etna. I pochi punti di ristoro si trovano sulla “pancia della donna”, nel promontorio più alto, dove vengono serviti piatti tipici locali come spaghetti alla eoliana e pesto al finocchietto selvatico, dal controverso sapore. Ritornando a ritroso verso il porto si respirano avidamente gli ultimi scampoli dell’alchimia che invade questo posto e aspettando l’aliscafo che ti strapperà da questa isola ti rendi conto di aver vissuto il tuo esotico «Into the wild», dentro i confini della tua terra, avendo vestito i panni di Alexander Supertramp, almeno per un giorno, senza aver dovuto raggiungere l’altra parte del mondo per assaporare la sensazione di libertà estrema che Filicudi sa dare.


Filicudi © Simone Prezzolini

 

Il colore dell’ombra
di Stefania Perrone

«Qua un tempo fummo maledetti», così dice Silvio, pescatore isolano di sessantadue anni riferendosi a una storia dei primi del novecento. La segale usata per panificare fu contaminata da un’erba tossica «la Tuzzunara la chiamavanu» racconta l’uomo, «e si pigghiò tutte cose», riferendosi al fatto che l’erba per anni si mescolò al raccolto della segale facendola diventare «segale cornuta». Di recente si è scoperto che il seme nero ha la stessa base da cui Hoffman estrasse l’LSD negli anni ‘70, come dice un abitante dell’isola  nel documentario di pochi anni fa “Alicudi , l’isola analogica”. Questo provocò allucinazioni che ognuno cercò di dominare e che pare abbia lasciato qualcosa nel carattere degli isolani, una grande forza nel reagire agli eventi. Anche la religione qui assume un carattere insolito. La chiesa di San Bartolo, patrono dell’isola, da anni è orfana della statua del suo santo, trasferita per comodità dei circa ottanta abitanti nella chiesa vicino al porto.


Alicudi © Stefania Perrone

Sembra che questo abbia provocato non pochi problemi, come racconta Silvio, continuando a parlare di superstizioni. Si dice che il santo, non felice di essere stato portato «in un’altra casa», crei vari problemi sull’isola, facendo alzare il vento per esempio nei giorni della processione tra il 20 e il 24 di agosto e creando trombe marine, alle quali si accosta la leggendaria figura dei «tagliatori», uomini  che si dice fossero addetti a tagliare i vortici sulla prua delle barche che andavano a pescare. Si parla anche di donne capaci di volare e di sacchi parlanti, tante le storie narrate su questa montagna in mezzo al mare che forse trovano le loro origini dalle visioni avute dalla popolazione negli anni della panificazione con la segale tossica. Detta da alcuni «l’isola che non c’è», conosciuta per la sua bellezza schiva, per il suo spirito silenzioso, senza auto, con pochi rumori di barche e ragli di muli che si abbarbicano sulla roccia per trasportare merci, con la policromia che offre alla vista e gli odori di erica e ginestra, Alicudi è anche semideserta, quasi ostile con i suoi percorsi impervi e si nasconde dietro luci opache, che celano misteri di un tempo andato e leggende, superstizioni o fantasie, che continuano a serpeggiare nella vita degli isolani rimasti.


Alicudi © Valeria Comacchio

 

Guten Morgen, Alicudi
di Tobias Martin Marchetti

Helga, una signora tedesca, abita ad Alicudi da ormai più di dodici anni. Racconta di un viaggio, fatto con dei suoi amici in Sicilia. Sentendo il consiglio di andare a visitare le Eolie rimase affascinata da Alicudi. «Sono sempre stata alla ricerca di una piccola nicchia, ugualmente da dove essa si possa trovare, dove poter andare a vivere, lontana dalla massa e dal consumismo, e rifugiarmi in luoghi dove poter vivere da quello che la terra mi regala, in empatia con la natura». È una donna molto semplice, ma molto forte, come dimostra il fatto di farsi tutti i giorni lunghe camminate, spensierata, quasi come un artista appartenente all’epoca dello “Sturm und Drang” o della “Romantik”, fuggiasca, in ricerca di un posto che la possa ispirare. Con un bastone alla mano per aiutare il passo e quell’occhiale tondo, un po’ alla Hermann Hesse, sembra proprio  un personaggio catapultatosi qua da un epoca passata e ormai lontana.


Alicudi © Tobias Marchetti

Alicudi è situata all’estremità ovest dell’arcipelago. Fra tutte le isole dell’arco eoliano ha il minor numero di abitanti. Questo sicuramente le dà un fascino in più, soprattutto per i viaggiatori in cerca di pace e solitudine. Molti sono tedeschi e svizzeri. Vi si trovano viaggiatori di tutti tipi, molti di passaggio e altri pronti a lasciare tutto per trovare nuova vita e nuova fortuna in questo arco insulare. Tra le ardue e anguste salite, molte case abbandonate. Alcune ancora in buono stato, con materassi, tavoli e utensili utili per la vita campagnola, lasciate come in attesa di qualcosa. O di qualcuno, magari come Helga, che possa renderle di nuovo dimore accoglienti. Eugen, svizzero, di St. Gallen è qui in vacanza per un mese. È stato a Salina prima di venire qui. Ma appena vista Alicudi ne è rimasto talmente colpito che ha allungato la sua permanenza, pensando ora di trasferircisi con sua moglie. Lui, artista, lo è per davvero. La sua passione più grande è il disegno. Narra dei colori e delle viste delle quali può godere stando qui e dice «Non basta una vita per poter ritrarre tutto ciò».


Alicudi © Giulia Bassanese

 

4444 scalini in mezzo al mare
di Valeria Comacchio

Qui, al largo della Sicilia, proprio di fronte a Messina, terremoti ed eruzioni hanno creato isolotti impervi, sparsi in mezzo al mare come sassi lanciati da qualche giovane Dio capriccioso appena sgridato dalla madre. Su uno di questi sassi lanciati, dove sembra impossibile vivere, l'uomo ha unito la sua esistenza con la natura, con il sudore della fronte, spostando massi vulcanici e ricavando terrazzamenti in cui vivere e coltivare la terra, raccogliendo l'acqua delle piogge per irrigare i raccolti. Questo sasso si chiama Alicudi ed è la più estrema delle isole Eolie. Qui le case, abbarbicate sul crinale del vulcano che forma l'isola, sono collegate l'una all'altra solo da scalini. Le strade non esistono. Gradoni di pietre laviche, una sull'altra, spostate e sistemate forse da giganti o da antichi esseri dalle gambe lunghissime. Troppo alti per qualsiasi passo normale, incastrati tra antipatici cardi, inaspettati cactus, coloratissimi cespugli d'erica e prati di margherite. Scalini, eterne e infinite file, che sembrano ascendere all'Olimpo.


Alicudi © Valeria Comacchio

La geografia della memoria è capace di grandi salti e, mentre i muscoli si guadagnano la salita, porta molto lontano da questo mare, nel nord est d'Italia, al Canal del Brenta. In una valle dura come la pietra in cui da sempre l'uomo ha vissuto con ostinazione, scavando la montagna con le mani, spostando massi, raccogliendo l'acqua al fiume con secchi di latta. Un paesaggio disegnato da terrazzamenti disallineati, le antiche masiere, e da sentieri come la Calà del Sasso, chiamata anche «i 4444 scalini» poiché solo di scalini è composta. Passo dopo passo, verso la cima nel Canal del Brenta, come ad Alicudi. Silvio, tra un’oliva con il pane e un bicchiere di vino, racconta che per vivere ha fatto ogni sorta di lavoro. Inizialmente il contadino, poi il muratore. Ai primi del '900 la popolazione dell'isola era attorno a 1500 persone. Ora sono poco meno di 70. «C'è anche la scuola», dice, «ma sta chiudendo. Ha solo due studenti». Le esigenze cambiano, ora per vivere fa il pescatore e prepara da mangiare per i turisti sulla terrazza di casa sua, subito dopo l'Ufficio Postale. Sentieri che svelano segreti a ogni curva, scale con storie da raccontare. Alicudi si sta spopolando, ma anche deserta, resta una perla del Tirreno, patrimonio dell'Unesco e meta ambita di ricercatori di tranquillità.


Filicudi © Manuela Paniccia

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