Il maimone bacchico nel Carrasegare sardo.

A cura di: Monica Selenu

Da un'epistola di Papa Gregorio Magno, datata maggio 594 d.C., rivolta al duce barbaricino Ospitone, "uomo giusto ma severo nella lotta contro il paganesimo" (in tal modo encomiato poi nelle scritture pontificie) si evince che nonostante il Cristianesimo fosse ormai affermato in quasi tutto il mondo conosciuto, le popolazioni sarde (specialmente quelle delle province montane) tornavano a praticare una religiosità più antica, manifestata da divinità di pietra e maschere lignee. Le leggende e tradizioni sarde sono tutte strettamente legate alla sua storia millenaria, e nonostante siano abbondanti le testimonianze della cultura indigena, le innumerevoli migrazioni delle più autorevoli potenze coloniali antiche hanno integrato costumi e abitudini proprie, alterandone l'uniformità culturale originaria. Ma vi sono state alcune presenze, quelle micenee e greche, che tra l'XII ed il XIV secolo a.C., sono penetrate in Sardegna in maniera determinante. Ed è proprio da queste ultime comunità commerciali che i sardi ebbero più influenza di tipo rituale. Decisivo fu il culto dionisiaco. Tutti gli adoratori di Dionisio bramavano ardentemente uscire dalla propria persona trasfigurandosi e lasciandosi poi possedere dal dio greco. Lo facevano attraverso l'ebbrezza del vino, l'estasi la musica e la danza. Era un modo per eliminare la barriera che separava l'uomo dal divino. L'uomo si annullava nel dio. Quando poi si convincevano di rassomigliare al devoto, si attuava il sacrificio diabolico. In Sardegna ciò avveniva durante alcune feste pagane, campestri. Le cosiddette "festas de corriolu", feste che oggi sono state convertite e tramutate in onore di alcuni santi. La parola "corriolu" ha origine da "iscorriare" letteralmente lacerare la carne viva dell'animale, sbranarla cruda. Proprio come il mito narra del dio Dioniso sbranato vivo dai Titani. Da "iscorriare" e dalla sua accezione più simile deriva il termine "carrasegare o carrasecare" (carra-carne, secare-lacerare), un rito di antropofagia che includeva la rinascita del dio. Carne viva stracciata con mani e denti, l'uso del coltello era proibito. Riutilizzato poi con l'avvento del Cristianesimo.

© Monica Selenu
Su Thurpu © Monica Selenu

Dionisio in Sardegna ebbe molti nomi e la sua discesa negli inferi si ripeteva ogni anno attraverso la morte della vittima che lo rappresentava. Questa forma tragica e cruenta del culto apotropaico e generativo, trovava largamente spazio in Sardegna, in cui viscere membri e ossa di animali costituivano parte della "maschera "usata durante questi riti. Il bisogno di esorcizzare il male attraverso il suo proponimento. I cicli della morte e della rinascita della natura, le maschere antropomorfe e zoomorfe ripropongono in chiave grottesca il rapporto uomo-animale, danze propiziatorie legate ai ritmi della natura e al culto delle divinità pluviali precristiane.
La maggior parte delle maschere che rappresentano Dionisio, sia nei tempi lontani che oggigiorno, sono quella del capro, del toro o di altre figure animali (quasi tutte legate alla pastorizia). Sono realizzate sia in sughero, fico o pero selvatico, l'albero sacro a Persefone, madre di Dionisio alla quale si consacra.

Sino al secolo scorso, in alcuni paesi della Baronia e della Barbagia, la vittima che personificava il fantoccio subiva delle lievi torture durante il rito ancestrale. Oggi invece questa passione è totalmente simulata. Non si trattava di sadismo ma la concezione, ancora radicata. che la terra per produrre necessitasse di sangue. La vittima rappresentava il "maimone" (divinità legata all'acqua e alla pioggia). Colui era il dio Dionisio che doveva morire per far ottenere piogge abbondanti e terre fertili. Quasi tutti i paesi della Barbagia e alcuni dell'Ogliastra hanno conservato le tracce di questo uso, i paesi invece del Campidano e della Gallura, più aperti alle influenze esterne, hanno sostituito questi proponimenti apotropaici con la cultura dei simboli. I riti arcaici appartenevano però un tempo a tutta la Sardegna. Paesi barbaricini come Mamoiada, Orotelli, Ottana, Orani, Lula, Fonni o Oristanesi come Ulà tirso, Samugheo e Bosa conservano quasi intatti questi riti apotropaici nominando Dionisio (il dio) s'urtzu, s'urthu. maimone, mamuthone.

Su Mamuthone © Monica Selenu
Sos Mamutzones © Monica Selenu
S'Urthu © Monica Selenu

Mamoiada è il paese dei mamuthones. I "mamuthones" e i "maimones" sono maschere abbastanza caratteristiche dell'Isola nuragica. Sono termini che designano più o meno la medesima figura. Hanno la stessa origine. Deriverebbero entrambe dalle parole: mam che significa acqua, e muth "chiamare" ed il gruppo ones, con il valore di "uomini".
Per cui i Mamuthones sarebbero gli "uomini invocanti la pioggia".
Sono dodici, compaiono in numero fisso come le lunazioni. Dodici teschi per la pioggia; come usanza anche di tanti altri paesi, ex villaggi del centro Sardegna. C'era una valenza magico sacrale nel culto dell'acqua in terra sarda, esperienze politeiste con le divinità fluviali esattamente come avveniva nelle regioni del Reno o del Nilo. I Mamuthones indossano una mastruca nera (casacca di pelle ovina o di capro caratteristica dei pastori sardi) e celano il loro volto con una maschera nera antropomorfa realizzata in legno, sa visera.

Legata da cinghie di cuoio, portano sul dorso una serie voluminosa di campanacci (circa 25, 30 kg di peso) chiamata sa carriga. I dodici mamuthones si dispongono su due file parallele, sei in ciascuna. Durante la loro tragica processione danzante, si avviano a passo zoppicante verso il sacrificio a cui sono destinati. Piccoli saltelli simultanei che rimbombano sino le profondità della terra. "Svegliati natura". Un riso sardonico è intagliato nelle maschere dei mamuthones, il sacrificio utile per il bene della comunità. Un salto al di là, verso l'estasi. Sono accompagnati da otto guardiani, detti Issohadores, che si muovono con agilità tenendo in mano il laccio sa soha, una lunga fune in giunco o cuoio accortamente lavorata e intrecciata a mano, con il quale catturare le vittime se queste tentassero di sottrarsi alla loro sorte. I loro indumenti ricordano per taglio e colori l'abito maschile della tradizione isolana. Nelle culture medio orientali la corda è in stretta relazione con l'acqua, e questa forma ha dato origine a tanti dolci tipici de su carrasegare, come sas zippulas e sas rugliettas.

Sos Mamuthones e Issohadores © Monica Selenu

Sa visera (una maschera androgina) è avvolta da un indumento dell'abito tradizionale femminile sardo, su mucadore (il fazzoletto). E su issohadore tiene legata alla vita un altro elemento tipico, uno scialle da donna a frange magistralmente ricamato. Elemento tipico del culto di Dioniso è la partecipazione femminile alle cerimonie che si celebravano in svariate zone della Grecia: le baccanti (chiamate anche menadi) ne invocavano e cantavano la presenza e anche per mezzo di maschere (vedi in su carrasegare). Nei rituali dionisiaci venivano stravolte le strutture logiche, morali e sociali del mondo abituale. Uno stato di estasi ed ebbrezza infrangeva il cosiddetto "principio di individuazione", un'ambiguità sessuale tipica dei riti orgiastici dionisiaci.

Su Merdule © Monica Selenu
Bosa © Monica Selenu
Su Boe © Monica Selenu

Pure a Ottana le caratzas (maschere) dei Boes e Mersdules sono supportate da su mucadore. Questo elemento compare spesso nelle varie figure de su carrasegare sardo. La maschera lignea del boe non sempre rappresenta un bue, spesso le corna sono quelle di un capro, ma in ognuna vi è sempre la rappresentazione zoomorfa di Dionisio. Il resto del corpo è anch'esso ricoperto da una lunga mastruca fatta di pelli di caprone, anche se si ritiene che un tempo indossassero anch'essi delle pelli nere.
La maschera di Ottana porta a tracolla un grappolo di campanacci che agita quando si muove e si lascia legare (proprio come su mamuthone) da una corda tenuta dal suo guardiano su merdule. Egli è vestito di pelli bianche di capro e tiene sul viso una maschera lignea antropomorfa.
Le maschere de sos merdules come quelle de sos issohadores sono parlanti, al contrario di quelle delle vittime, il dio Dionisio, che sono mute. Su merdule oltre alla fune tiene un bastone con il quale pungola di tanto in tanto su boe.

Il sacro tirso (nome oltretutto del fiume più lungo in Sardegna) era un bastone rituale attribuito al dio greco Dionisio e ai seguaci del suo culto (come i guardiani merdules). Era di legno vario. Il simbolismo legato a questo strumento è chiaramente fallico e rappresenta la forza vitale del dio che viene instillata nella vegetazione, negli animali e negli uomini. Infatti quando durante il proponimento del rito su boe si butta in terra dopo essere stato pungolato dal bastone, su merdule gli si siede accanto e lo accarezza soffermandosi proprio intorno agli organi genitali.

Altra maschera inquietante di Ottana, ma di certo importante, è quella de sa Filonzana. Descritta come un'orribile vecchia senza età. È comunque certo il legame con le moire romane e le parche dell'Antica Grecia. Sa filonzana (la filatrice) è colei che presiede al fato: tra le mani tiene il fuso di lana che fila in continuazione (a simboleggiare lo scorrere del tempo, della vita). Pendenti da un laccio, che tiene sul collo, si notano le sue cesoie con le quali può spezzare in qualsiasi momento il destino del prossimo tenuto, emblematicamente, tra le sue dita.

© Monica Selenu

Nel carrasegare sardo è tipico l'atto del "ferire". Negli anni passati si utilizzavano dei veri e propri spilloni come amuleti, simboli di fertilità. Il sangue che scaturiva dopo la puntura serviva a rendere fertile la terra e feconde le donne. Anche il fantoccio che appariva nel carnevale di Tempio e Bosa, che rappresentava Dionisio e chiamato Ghioglis Puntogliu (Giorgio da pungere), era continuamente fustigato col pungolo. Giògli, Zòrgi è un arcaico termine sumero che significa 'verdetto di morte e lamentazione'. Esattamente era quanto accadeva a danno del fantoccio che veniva poi portato al rogo. Le festività hanno inizio il giorno di Giogia lardagiolu (il termine lardajolu, come la maschera di Dorgali o sa jovia lardajola di Gavoi, indicano proprio "persona che ama il lardo", infatti nel periodo carnevalesco era tipico mangiare fave con lardo. Fave e fagioli erano il cibo dei morti); Seneca non ne mangiava mai per il timore che qualche anima si celasse all'interno del contenuto. Le attitadoras con il viso ricoperto dalla fuliggine del sughero bruciato e vestite di nero in segno di lutto, recitano ritmiche lamentazioni funebri mostrando figure sessuali e un bambolotto smembrato, spesso imbrattato di nero o di rosso, di cui lamentano il malessere o la morte con particolari cantilene attitidos; per il conforto del quale chiedono un sorso di latte alle donne che incontrano nel loro cammino. All'imbrunire, le maschere si vestono con lenzuoli e copricapi bianchi, trasportando lanterne o candele e vagano per le strade fino alla cattura del dio. Giolzi! Ciappadu!

Su Battileddu © Monica Selenu

Pure su battileddu (battile colui ciò che non vale; un folle) a Lula appare vestito di brandelli con il volto tinto di nero con fuliggine. È uno dei riti più cruenti e impressionanti dell'intero carrasegare. Su battileddu porta sul capo delle corna di bue o di cervo ed è accompagnato da sos battileddos, i quali indossano indumenti femminili e hanno, anch'essi, il viso tinto di nero. Su battileddu personifica il ruolo della vittima e porta al collo dei campanacci e sulla pancia tiene legata su chentu 'è puzzone (uno stomaco di animale pieno di sangue, cosicché possa essere punto in continuazione). Si fanno così dei piccoli tagli sul ventre in modo tale che il sangue coli lentamente sul percorso della passione, della flagellazione. Su battileddu scappa, ma viene puntualmente ripreso con il laccio scagliato da sos battileddos e poi, logorante, trascinato in terra per metri.

Un momento di sofferenza accompagnato da urla bestiali e lamenti funebri sino alla definitiva morte della vittima sacrificale.

Sos Thurpos (i ciechi) e sos eritajos di Orotelli, indossano gabbani di orbace e funi legate alla vita. Sono maschere legate ai riti ancestrali e propiziatori della fertilità e abbondanza. Sos eritajos indossano in prossimità del petto i dorsi di due ricci o porcospini e vagano alla ricerca di donne da stringere a sé. Il loro pungolo causa dolore e perdita di sangue. Ma anche su Bundu di Orani è una maschera legata ai riti scaramantici fortemente radicati nella società agropastorale sarda. Gli elementi della natura, come il vento la pioggia la terra sono tipici di questi culti arcaici.

Sa Sartiglia © Monica Selenu
Su Bundu © Monica Selenu

Pure gli spagnoli contribuirono a modificare la Sardegna dai culti millenari, ma non a sfuggire al rito ancestrale. Quando nel medioevo conquistarono l'Isola, mutarono le gare equestri già annoverate nell'interno come sas mascheras de caddu in una specie di giostra, sortija (sorte). L'attuale Sartiglia oristanese. Dalla riuscita della gara si traggono i pronostici sull'annata che sarà più o meno buona.
Il cerimoniale gira intorno alla figura de su componidori, il cavaliere semidio che indossa una maschera androgina di terracotta (come su issohadore). È lui a dare inizio alla giostra anche agli altri cavalieri appartenenti ai vari gremi, cioè alle diverse corporazioni di arti e mestieri. Avviene così la corsa alla stella, appesa nel percorso con un sottile filo di lana. Questo anello è simbolo di buona sorte e di fecondità. Più stelle si trafiggono, migliore sarà l'annata.
Durante la benedizione della folla su componidori usa a mo' di aspersorio un mazzo di pervinche, fasciate nei gambi da un nastro verde, chiamato sa pippia de maju (la bambina di maggio). Il semidio viene vestito lentamente da alcune donne is massaieddas mentre sta su un tavolo. Da quel momento non può posare i piedi per terra, passerà direttamente sulla groppa del cavallo e non vi scenderà fino al termine della Sartiglia.

Nei tempi più antichi su componidori appariva con due maschere, la domenica era verde come la fioritura la primavera, il martedì una maschera scura come la vegetazione che muore.

A Sant'Antonio abate (17 gennaio) è toccato fare da controfigura a divinità che nulla avevano a che fare con la Chiesa e la sua dottrina religiosa. Si accendono i fuochi nella vigilia in suo onore, con riti purificatori per uomini e animali. Nella parte dell'anno solare, consacrato a Dionisio, avvenivano le cerimonie bacchiche intorno a un tronco di legno che lo rappresentava. Lo stesso tronco ricorda quello di quercia a cui si dà fuoco, oggigiorno, per preparare sa tuva di Sant'Antonio (Patrono in Sardegna dei pastori e agricoltori). Concomitanze sicuramente non sottovalutabili. Fu nel periodo bizantino che Sant'Antonio fu scelto a copertura dei riti pagani.
Il santo simile a Prometeo che scende giù negli inferi per portare fuoco agli uomini selvaggi, costretti a mangiare carne cruda.

Una cultura, quella sarda, fatta di culti e leggende in cui il mito di oggi si integra con la storia di ieri.

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