Madagascar, un paradiso a rischio

A cura di: Francesca Bongarzoni, Simone Sbaraglia

Luogo magico e unico al mondo. Eppure la sua flora e la sua fauna sono costantemente minacciate dalla irresponsabilità umana. Se le cose non cambieranno, in 25 anni le foreste dell’isola verranno definitivamente distrutte.



La magia del Madagascar, come il profumo della sua vaniglia, ti rimane dentro per giorni quando rientri.
Questo luogo speciale, la “Terra di Mezzo” come viene chiamata, è in grado di regalare la gioia di trovarsi a contatto con una natura unica e con quei villaggi in cui, nei miei numerosi viaggi, ho potuto incontrare persone meravigliose, semplici, profonde. Le incredibili ospitalità e cordialità del popolo malgascio rendono semplicissimo avvicinarsi alle persone, chiedere il permesso e scattare. È sufficiente un approccio improntato al rispetto e alla gentilezza per avere aperte le porte delle case ed essere accolti come persone di famiglia.

Le prime fotografie le scattavo con il telefono per non puntare l'obiettivo, non creare la barriera che inevitabilmente la fotocamera rappresenta. Poi la loro disponibilità e cortesia mi hanno dato modo di utilizzare tutta l'attrezzatura di cui avevo bisogno. La stessa incredibile disponibilità sembra contagiare esseri umani e animali: i lemuri fanno a gara per essere fotografati e per saltarti in braccio curiosi, i camaleonti posano per splendidi ritratti senza mostrare alcun segno di fastidio. Tutto questo rende il Madagascar un luogo unico e un vero paradiso per i fotografi, in cui tornare è sempre fonte di nuove emozioni.



Partendo dalla costa orientale dell'Africa, navigando poco meno di 500 km nell'Oceano Indiano, si approda sulla Terra di Mezzo che si è allontanata alla deriva 165 milioni di anni fa, portando con sé una flora e una fauna caratterizzate oggi da oltre il 90% di endemismi. Tra essi quasi un centinaio di specie di lemuri, 260 di rane, 1.000 di orchidee, numerose specie di tartarughe, uccelli e farfalle. Delle oltre 400 specie di anfibi e rettili presenti sull’isola solo una dozzina esistono altrove. Appartengono inoltre al Madagascar 53 diverse specie di camaleonti, più della metà di quelli esistenti al mondo, che possono misurare pochi centimetri oppure arrivare fino a un metro e mezzo di lunghezza. I lemuri sono il simbolo del Madagascar. “Lemure” deriva dalla parola latina lemures che nella mitologia romana corrisponde agli spiriti della notte.

Trovarsi fra di loro è un'esperienza incredibile e divertente: sono primati estremamente curiosi che, grazie alla sostanziale assenza di predatori, non hanno timore ad avvicinarsi come dei bambini saltellanti e festosi. Questi curiosi primati sono arrivati qui dal continente africano circa 50 milioni di anni fa, navigando su tronchi e zattere di fortuna. Qui si sono evoluti e moltiplicati senza troppi problemi. Infatti il loro unico predatore è il fossa, un piccolo felide endemico dell'isola che non rappresenta per loro un grande pericolo. Al contrario il fattore che ha determinato il drammatico declino di questi animali è l'essere umano. Infatti, dopo l'arrivo dell'uomo si sono estinte almeno 17 specie di lemuri e, nonostante l'importante ruolo che questi animali ricoprono per il turismo del paese, il loro habitat si è sempre più ristretto per far posto ai villaggi e alle piantagioni.


I lemuri sono stati classificati in più di cento specie, comprese quelle estinte. Se si ha la fortuna di fare un viaggio in Madagascar non sarà difficile incontrare esemplari di sifaka dal pelo bianco e marrone con riflessi dorati, e ammirare i loro salti simili a una danza. I catta sono i lemuri più conosciuti. I loro occhi cambiano colore con l'età: da cuccioli hanno occhi azzurri che diventano color ocra in età adulta. Hanno una coda lunghissima (raggiunge il metro e mezzo) con i caratteristici anelli bicolore e mentre giocano amano incastrarsi intrecciando le code. Non è raro incontrarli seduti al sole, a godere del calore delle prime luci dell’alba. Senza coda invece è l'Indri, il più grande dei lemuri, famoso per il suo verso simile al pianto umano. L'Indri in cattività adotta un comportamento autodistruttivo, smette di mangiare e si lascia morire lentamente. È uno fra gli animali più a rischio di estinzione. Dal più grande al più piccolo. Il lemure topo pigmeo è talmente piccolo da poter entrare comodamente nel palmo di una mano e detiene un primato: è il primate più piccolo al mondo!

Dopo anni di viaggi l'ultima volta che sono stato in Madagascar ho avuto il privilegio di incontrare uno dei mammiferi più particolari dell'isola: l'aye aye, uno dei primati ad altissimo rischio d'estinzione. La popolazione negli ultimi 20 anni ha subito un declino del 50%. L'aye aye è un animale unico, ha caratteristiche comuni sia con i primati che con i roditori e a oggi è l'unico rappresentante vivente del suo genere (l'aye aye gigante è infatti estinto da tempo). Se si ha la fortuna di incontrarlo, si capisce subito che è un animale pacifico e timido. Studia e annusa, si avvicina con estrema cautela e con movenze sinuose. A volte si introduce nei villaggi in cerca di frutta matura o uova. L'aye aye è prevalentemente notturno.



Alto circa 90 cm ha orecchie da pipistrello, faccia da volpe, occhi da gatto, corpo da scimmia, mani da strega, coda e denti da scoiattolo, ma la caratteristica fisica che veramente lo contraddistingue da tutti gli altri lemuri è il dito medio notevolmente più lungo delle altre dita e sottilissimo, una specie di lungo stecchino fondamentale per la sua alimentazione. Lo usa per dare colpetti alla corteccia degli alberi, alla ricerca di suoni sordi che rivelino la presenza di una larva al di sotto dello strato legnoso. A questo punto l'aye aye pratica un'incisione nel legno coi denti e utilizza il dito come amo per pescare l'insetto. Allo stesso modo il lungo dito medio viene utilizzato per estrarre il midollo dei bambù e della canna da zucchero o per scavare la polpa di frutti come le noci di cocco o i frutti del ramy. Di questo bastoncino l'aye aye si serve anche per bere: praticando un buco nelle uova o nelle noci di cocco l'animale prima imbeve il dito di liquido e poi lo porta alla bocca. Ma proprio le peculiarità fisiche e comportamentali di questo animale sono la causa della diffidenza dell'uomo nei suoi confronti.

Per lungo tempo infatti le superstizioni di quei luoghi hanno voluto che questo innocuo animaletto fosse visto come il diavolo in persona e per questo letteralmente perseguitato e sterminato. Ancora oggi purtroppo l'aye aye è considerato da alcuni abitanti dell'isola portatore di sventura. Gli indigeni Sakalava credono che l'aye aye, oltre a rappresentare una minaccia per i pollai, sia anche un potenziale pericolo per l'uomo. La leggenda racconta che questi animali, introducendosi di notte nelle case abitate, sarebbero in grado di uccidere nel sonno perforando il cuore delle vittime con il lungo dito medio. È per tale ragione che i Sakalava cacciano gli aye aye, appendendo poi le carcasse ai rami degli alberi. Questi comportamenti sono la causa maggiore del declino e del reale rischio di estinzione di questa specie.



Mutamenti climatici, caccia illegale e soprattutto la perdita degli habitat sono i nemici di questo paese delle meraviglie. Nel corso degli ultimi 2 millenni più dell’80% del patrimonio naturale del Madagascar è andato perduto: oltre ad almeno 17 specie di lemuri (tutti molto più grandi di quelli odierni) si sono estinti anche gli ippopotami pigmei, le tartarughe giganti, tre specie di uccello elefante (tra cui l’Aepyornis maximus di oltre tre metri di altezza) e un parente gigante del fossa (il Cryptoprocta spelea). Dall'arrivo dell'uomo sulla Terra di Mezzo, l’equilibrio fra le esigenze di quest'ultimo e quelle della natura è sempre stato molto precario. La bellezza unica e irripetibile dell’isola va infatti a braccetto con la disperazione quotidiana dei suoi abitanti. Un incremento della popolazione del 3% annuo – uno dei tassi di crescita più alti di tutta l’Africa – rende necessaria la ricerca di nuove terre per la coltivazione del riso la cui produzione, a differenza del passato, oggi non è neppure sufficiente al fabbisogno nazionale. E un impoverimento progressivo della popolazione (il 70% del paese vive sotto il livello di povertà con un reddito procapite giornaliero di 1 dollaro) ha reso necessario l’uso del carbone, invece del cherosene, come combustibile. Da qui una costante e incontenibile opera di disboscamento che impoverisce tutto il paese.

Lo “slash to burn” è la pratica attraverso la quale i malgasci ricavano nuovi terreni per le risaie. In primo luogo si abbattono gli alberi, poi si incendia il sottobosco. Ne deriva una cenere fertilizzante che nutre il terreno dove poi viene piantato il riso. Questo processo tuttavia ha una durata molto limitata nel tempo, generando un processo di disboscamento che non ha mai fine. I danni all’ecosistema sono inestimabili: si distrugge l’intero habitat della foresta pluviale, si accelerano fenomeni erosivi del terreno e si contribuisce alla progressiva riduzione del polmone verde del pianeta. Si calcola che, se le cose non cambieranno, in 25 anni le foreste dell’isola verranno definitivamente e inesorabilmente distrutte. Estremamente dannoso è anche il commercio di legno di rosa, un tipo di palissandro. Benché praticato da anni, l’abbattimento illegale di questi alberi ha subito un’impennata grazie agli scarsi controlli e alla grande richiesta dalla Cina.



Gli effetti di questo comportamento non hanno tardato a farsi sentire: in diverse zone del paese i lemuri sono scomparsi completamente, molte specie a rischio di estinzione sono scese al di sotto dei 500 esemplari. È possibile conciliare le esigenze di conservazione dell’ambiente con le necessità della popolazione? Olivier Behra, presidente della ong “Man and The Environment”, sembra aver individuato una possibile strada promuovendo tra gli abitanti dei villaggi i benefici immediati che si possono trarre da ecosistemi vitali: «C’è un tizio laggiù che sta tagliando gli alberi, – dice – sto cercando di convincerlo a fermarsi». Come intende farlo? «Dandogli lavoro» – risponde con un sorriso.

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