Dalla ricerca scientifica alla fotografia

A cura di: Simone Sbaraglia

Sono trascorsi 10 anni da quando ho iniziato la mia seconda vita, e vorrei raccontarvi qualcosa di questo tempo facendomi aiutare dalle immagini e dalle loro didascalie.

Boophis viridis, Madagascar, 2011.
Una piccola e psichedelica rana del Madagascar, vincitrice del Primo Premio di categoria
nel Concorso Internazionale Nature’s Best Photography 2012 e immagine simbolo della mostra allo Smithsonian Natural History Museum, Washington D.C.

“Dieci anni fa, di questi tempi, sarei stato seduto dietro una scrivania in uno studio senza finestre all’interno di un immenso palazzo a vetri a forma di semicerchio. Il palazzo in questione era il prestigioso centro di ricerca IBM di Yorktown, New York, che ospitava, e ospita, oltre duemila ricercatori provenienti da tutto il mondo.
Tra loro, una discreta quantità di premi Nobel. Di fronte a me avrei avuto un monitor in cui si inseguivano numeri e simboli. Alle spalle, una lavagna piena di formule matematiche.

Dieci anni fa non sapevo nulla di fotografia, di animali o di natura. Le mie conoscenze sull’argomento erano desunte da qualche documentario del National Geographic e i leoni e le scimmie erano importanti nella mia vita come un congelatore nella vita di un eschimese.

Oggi invece scrivo queste righe mentre sono in fase di decompressione dopo due settimane trascorse nella giungla tra Gabon e Congo a inseguire scimmie e scacciare, senza successo, zanzare. Le braccia gonfie per le punture ma la mente piena di emozioni e ricordi. Sono su un treno che mi porterà a Trieste, dove parlerò all’inaugurazione della mia mostra “Immagini dal Pianeta Terra”, che mi sta dando grandi soddisfazioni in giro per l’Italia. La fotografia ha invaso ormai ogni aspetto della mia vita e quando non sono in viaggio per fotografare, sono in studio a lavorare alle foto o a preparare mostre, proiezioni, lezioni e workshop fotografici.
Ho 41 anni, ma se mi guardo indietro mi pare di averne almeno il doppio. Ho avuto il privilegio di vivere ogni giorno della mia vita come se fosse un anno.

La Wave, formazioni di sabbia solidificata tra Utah e Arizona.
La mia prima foto nel 2003.

Sono oggi 10 anni da quando ho iniziato la mia seconda vita, e vorrei raccontarvi qualcosa di questo tempo facendomi aiutare nel racconto dalle immagini e dalle didascalie che trovate allegate.

Nella mia prima vita ero un matematico, con laurea e dottorato all’università di Roma “La Sapienza”, emigrato negli USA in cerca di un posto migliore dove fare ricerca. Il posto migliore l’ho trovato in uno dei centri più prestigiosi al mondo e senza pensarci due volte mi ci sono trasferito nel 2000.
Nel 2003 si è verificato il cosiddetto “incidente di percorso” che ha cambiato la mia vita.

Ero in viaggio di piacere nel sud-ovest degli USA e ho pensato di prendere la macchina fotografica e scattare qualche foto a quel luogo meraviglioso che è la Wave, formazioni di sabbia solidificata e roccia modellata dai venti e dall’acqua nel corso dei secoli.

È stato come scoprire un mondo sommerso dentro di me, sotto metri cubi di razionalità: la scoperta delle emozioni della natura e la possibilità di condividerle con la fotografia. È stato come abbattere con un bulldozer le pareti dello studio senza finestre che occupavo in IBM. La macchina fotografica non l’ho più lasciata. Ho lasciato invece il mio lavoro e mi sono avviato verso la mia seconda vita.

White-Face Capuchin, Costa Rica 2004.
Questa foto, scattata in un viaggio di piacere quando ancora la fotografia era solo una speranza, divenne poi la mia prima copertina, sul numero 172 di Oasis.
Cascata a Maui, Hawaii, 2012.
Una splendida cascata fotografata nel corso di un reportage realizzato interamente dall’elicottero.
Immagine premiata al GDT European Photographer of the Year 2013.

Se mi guardo indietro so che era tutto già scritto in quella prima foto. È come se avessi avuto una bomba inesplosa da qualche parte dentro di me, all’improvviso ìsaltata in aria. Un istante dopo la deflagrazione era tutto diverso. Il mio lavoro, cui pure un istante prima dedicavo tante energie, non significava più nulla per me.

La fotografia e la natura occupavano ogni mio pensiero. Il resto? Sono stati passi obbligati.

In questi 10 anni ho imparato che la fotografia è per me innanzitutto un mezzo di comprensione: uno strumento che mi fornisce la scusa per esplorare il mondo e uno specchio attraverso il quale comprenderlo.

Fotografo per comprendere meglio i sentimenti che provo dinanzi a determinati soggetti, paesaggi, animali e per trasferire questi sentimenti all’osservatore.

È stato un percorso abbastanza lungo quello che mi ha portato al tipo di fotografia che faccio ora: a stretto contatto con i soggetti, cercando di stabilire con loro un rapporto di fiducia, usando focali molto corte e prendendo alla lettera il precetto di Robert Capa: “se le tue foto non sono abbastanza buone è perché non sei abbastanza vicino”.
All’inizio della mia carriera di fotografo le mie immagini erano puramente documentative, scattate da lontano e con l’aiuto di potenti teleobiettivi.

Lotta tra orici, Namibia, 2008.
Questa immagine segna l’inizio della mia collaborazione, che dura ancora oggi, con Nikon USA ed è stata acquisita da Nikon per essere esposta in mostra permanente nell’atrio del Quartier Generale Nikon di New York.

Finché un giorno, un editor illuminato di un’agenzia londinese cui avevo inviato il mio portfolio, mi rispose che le mie immagini erano tecnicamente valide ma, essendo una mera documentazione del mondo naturale, avrebbe potuto scattarle chiunque in possesso di una decente attrezzatura e di un minimo di competenza tecnica. Sarò sempre infinitamente grato a questa persona per la rivelazione e per avermi, in un certo senso, liberato: da allora mi sono preoccupato molto meno della fedele rappresentazione della natura e molto più della fedele rappresentazione dei miei sentimenti ed emozioni.

Lemure Catta, Madagascar, 2012.
Un “autoritratto” di un curioso lemure in Madagascar. Immagine vincitrice di diversi premi. Non si è mai abbastanza vicini.

Il risultato è uno stile che con il passare del tempo si è andato definendo rendendosi riconoscibile. E che mi ha consentito di trovare la mia nicchia comunicativa all’interno del mondo della fotografia.

Il mio stile fotografico oggi si basa fortemente sul cercare un rapporto con il soggetto. Non amo i potenti teleobiettivi e cerco di evitarli per quanto possibile.

Con il tempo ho scoperto che la mia capacità di coinvolgere l’osservatore dipende dalla capacità di essere molto vicino agli animali e di essere accettato dagli stessi.
Naturalmente questo richiede molta fatica e tempi mediamente lunghi prima che gli animali accettino di essere avvicinati ma è l’unico modo per poter creare immagini che mostrino l’intimità tra il fotografo e il soggetto. Quello che voglio ritrarre è l’anima degli animali. Da lontano è difficile vederla.

Con il passare del tempo è cresciuta anche la mia sensibilità nei confronti dell’ambiente e della necessità di proteggerlo. Dieci anni fa, quando scattai la mia prima foto, dissi a me stesso che forse sarei potuto diventare un fotografo di natura.

Non è esattamente quello che sono diventato: sono piuttosto un fotografo di specie e ambienti a immediato rischio di estinzione. Non è stata una scelta consapevole, è stata una scelta obbligata.

Coyote nella valle della morte, California, 2005.
La mia prima esperienza a stretto contatto con un animale selvatico, di cui conservo
ancora l’emozione. Questa foto, scattata nel 2005, risultò poi vincitrice della prima edizione del concorso Asferico, nel 2007.

Ogni animale che fotografavo scoprivo poi che forse non sarebbe sopravvissuto a lungo dopo la mia foto. A volte ho paura che le mie immagini servano solo come testimonianza di un mondo che è destinato a scomparire, un po’ come la foto sulla lapide che serve a dire: “non è più tra noi, ma vogliamo ricordarlo così”.
Nei momenti di maggiore ottimismo invece, spero che possano servire a qualcosa di più: a diffondere la bellezza, l’armonia e l’unicità del nostro pianeta, nella speranza che un numero maggiore di persone vorrà proteggerlo.
Sono fermamente convinto che se c’è una speranza di salvaguardia per il mondo naturale, la stessa sia legata al coinvolgimento estetico.

George Orwell scrisse che “Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”.

Personalmente ritengo che, nel tempo dell’orrore universale, diffondere la bellezza sia un atto rivoluzionario. Nel mio piccolo vorrei contribuire a una nuova rivoluzione della bellezza.

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