Intervista

A cura di:

Storie con l'anima
Sergio Ramazzotti

Da giornalista, scrittore e fotografo, Sergio Ramazzotti è uno che racconta storie per molti importanti periodici italiani. Usando, come un musicista, un cineasta, un narratore-evocatore, i diversi strumenti di cui dispone e a cui ricorre per esprimere la propria sensibilità, il proprio gusto, la propria visione del mondo. Eleggendo di volta in volta il colore o il bianco e nero, l'analogico o il digitale, ma in fondo che importa?, l'essenziale è l'oggetto/soggetto, più le presenze umane che i paesaggi o i monumenti, e - punto di vista stimolante - non tanto come si racconta (questo dipende, alla fine di tutto, dal talento) ma quel che si è scelto di raccontare, la storia che si è cercata, che se ben scelta è premessa in sé di buon esito.

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© Sergio Ramazzotti
Benin City (Nigeria), una donna in trance danza durante una cerimonia voodoo

Come si è evoluta la tua idea (e pratica) di fotografia? Se non sbaglio nasci come giornalista e fotografo specializzato in reportage di viaggio, ma da qualche tempo ti dedichi anche ad altro. C'è un cosiddetto genere, o più di uno, in cui ti riconosci?
In realtà ho cominciato con il reportage di attualità, lavorando per le testate della Rizzoli intorno alla fine degli anni 80. Ai viaggi mi sono dedicato in seguito e per lungo tempo (sono stato per otto anni inviato di Gulliver, esperienza notevolmente formativa), ma anche in quel periodo non ho mai abbandonato l'attualità, e a essa sono ritornato quasi a tempo pieno da qualche anno a questa parte. Le classificazioni e il conseguente, quasi automatico incasellamento in categorie, in genere, mi trovano piuttosto diffidente. Mi reputo un fotografo che scatta fotografie, tutto qui.

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© Sergio Ramazzotti
Lahore (Pakistan), la moschea del
venerdì in una notte di tempesta

Luoghi, paesaggi, culture, gente. Contemplazione ed energia. Natura, architetture e vita. Quanto è presente il fattore umano nelle tue foto? E il movimento? Nel comporre un'immagine cosa cerchi di catturare? Quali ritieni siano i principali elementi del tuo stile?
Il fattore umano è fondamentale. Non amo scattare fotografie in cui non vi siano persone. L'uomo è la chiave per capire il mondo. Un paese si comprende parlando con la sua gente, non ammirandone i monumenti. Una guerra si comprende parlando con chi la combatte o ne è vittima, non leggendo i bollettini militari. Un oggetto si comprende parlando con chi lo ha fabbricato, non comprandolo. Il viaggio più formativo che si possa intraprendere è quello attraverso l'uomo. Nelle fotografie cerco sempre, per quanto possibile, di lasciare spazio a occhi, mani, corpi, una presenza umana. Un solo sguardo vale mille paesaggi. Penso all'eccezionale sguardo della giovane profuga afgana colto da Steve McCurry e apparso sulla copertina del National Geographic.
Il movimento è un'altra cosa che mi affascina in fotografia. Le foto mosse sono energia cinetica cristallizzata, imprigionano un concentrato di forza che sembra sempre sul punto di esplodere, trasmettono le stesse sensazioni travolgenti dei dipinti futuristi. Ho passato parecchi anni a cercare di perfezionare l'arte della foto mossa, spesso sorprendendomi a usare la macchina fotografica come se fosse una telecamera.
Riguardo alla composizione e allo stile, se possiamo chiamarlo tale, sono ossessionato in modo patologico dalla pulizia e dal parallelismo delle linee, dalla purezza cromatica dell'insieme, dalla ricerca di immagini che siano il più possibile semplici e prive di fronzoli: il modello che ho sempre in testa, e che mi perseguita come un fantasma, sono i quadri di Edward Hopper. Sono anche alla continua ricerca di situazioni e accostamenti che risultino ironici o sarcastici o, se necessario, cinici, e che stimolino dunque un sorriso più o meno amaro in chi guarda la fotografia.

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© Sergio Ramazzotti
Port Louis (Mauritius), ritratto di una giovane mauriziana in sari

Hai qualche maestro, qualche modello di riferimento che stimola la tua ricerca, il tuo stile?
Potrei citarne molti, per i quali nutro un'ammirazione sconfinata e un'invidia tale da provocarmi il mal di stomaco. Cosciente della mia inferiorità, per non complicarmi la vita mi sono scelto un modello in un campo non concorrenziale: Caravaggio. Se riuscissi a usare la luce come lui, sarei un uomo felice.

Qualche mese fa, Raghu Rai, il grande fotografo indiano della Magnum, intervistato da "Sguardi", ha affermato di non poter viaggiare tanto, ha parlato del suo bisogno di sentirsi dentro un luogo, di appartenere a quel mondo (l'India, per lui) per poter provare a catturarne qualche verità, emozione umana. Che ne pensi?
Trovo che sia una grande verità. Il nostro mestiere ci costringe spesso a un rapporto mordi-e-fuggi con le realtà che ci rechiamo a documentare. Il giornalismo ha bisogno di tempi sempre più rapidi, e di conseguenza diviene sempre più superficiale. Impossibile penetrare lo spirito di un paese in un assignment di una settimana, anche se la necessità di conformarsi a tali tempistiche olimpioniche aiuta a sviluppare grosse doti di valutazione e un discreto senso critico. Per catturare, come dice Rai, "qualche verità o emozione umana" attraverso l'obiettivo di una fotocamera bisogna che questa scompaia, e con essa il fotografo che la impugna, affinché le emozioni e le verità siano libere di fluire, spontanee e inalterate. Quando si introduce una fotocamera in un ambiente - sia esso un appartamento, una comunità di persone, una città o il deserto del Sahara - affinché essa scompaia sono necessarie settimane, mesi, talvolta anni. Un fotografo scompare quando è in grado di danzare in armonia con l'anima dell'ambiente dove si trova, senza pestarle i piedi. Non si impara un ballo nuovo in una settimana.

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© Sergio Ramazzotti
Galle (Sri Lanka), un neonato morto in seguito allo tsunami
in un obitorio di fortuna della cittadina

Tu fotografi e scrivi, racconti storie, luoghi, incontri attraverso lo strumento della parola e quello dell'immagine. Molti pensano che sia difficile, se non controproducente, fare le due cose assieme; che bisogna in sostanza dedicarsi a una sola tra le due attività, e riversarvi tutta l'energia, la creatività e la concentrazione di cui si è capaci. Alcuni puristi, soprattutto fotografi, vedono la doppia attività come un'invasione di campo da parte di gente che nasce (e secondo loro rimane) soprattutto giornalista. Qual è la tua posizione?
Torniamo alla suddivisione in categorie di cui diffido. Quella fra giornalisti scriventi e fotografi mi infastidisce particolarmente: uno psicanalista junghiano e uno freudiano sono entrambi psicanalisti. Un concertista della Scala e il batterista di Alice Cooper sono entrambi musicisti. La distinzione, se proprio vogliamo lambiccarci il cervello, è fra buoni e cattivi musicisti, o fra buoni e cattivi psicanalisti. Fra l'altro, mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse le ragioni per le quali sul mercato editoriale la stessa storia - che so, un reportage sulle elezioni irachene - vale dieci se raccontata per iscritto e cinquantacinque se raccontata per immagini, mentre, nello stesso ambiente, giornalisti e fotografi sono percepiti in modo esattamente opposto: gli uni sono i depositari della cultura appartenenti a un'èlite, gli altri semplici manovali della macchina fotografica. A parte questo, credo che un giornalista o un fotogiornalista siano semplicemente esseri umani più curiosi della media che hanno scelto il mestiere di raccontare storie. Ora, il fondamento del mestiere di raccontare storie non sta tanto nel saperle raccontare, quanto nel saperle cercare (e, spesso, avere il fegato e le competenze per raggiungerle). Una volta trovate, il mezzo con cui si raccontano è indifferente, e nulla vieta a un giornalista di usare tutti gli strumenti a sua disposizione per farlo. Un musicista che abbia la musica nel sangue può suonare altrettanto bene la batteria, il sassofono e un organo da chiesa. Per quanto mi riguarda, ho imparato a usare la macchina fotografica da bambino, ma la mia formazione è puramente giornalistica. Che significa questo? Che qualcuno all'università mi ha insegnato a scrivere bene? Macché. Mi hanno piuttosto insegnato come si cercano le storie. Il resto - saperle raccontare nel modo migliore per iscritto o per immagini - è dentro di te.

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© Sergio Ramazzotti
Kirkuk (Iraq), giovani curdi festeggiano la caduta del regime di Saddam
nella primavera del 2003

Un freelance è spesso un one-man-show, nel senso che - tranne se non ha rapporti privilegiati con alcune riviste che gli commissionano dei servizi - ha le idee, le propone, le realizza, le vende. Fa un po' di tutto, insomma, dal manager di se stesso al creativo fino al contabile. Tu come ti organizzi? Che rapporto hai con le testate sulle quali pubblichi? Il più delle volte sono loro a cercarti o sei piuttosto tu a far delle proposte, magari tramite l'agenzia che ti rappresenta?
Quando ho cominciato a fare questo mestiere, quasi vent'anni fa, il mondo del giornalismo era uno straordinario laboratorio di idee. Gli spunti per i reportage originavano quasi sempre dall'interno delle redazioni, e venivano affinati nel corso di un confronto con i collaboratori. Ho avuto il privilegio di vivere questa età d'oro tanto da libero professionista quanto da inviato inserito nell'organico di un giornale. Negli ultimi anni, il lavoro giornalistico nelle redazioni si è involuto in modo preoccupante, trasformandosi in un'attività di tipo semi-impiegatizio in cui il giornalista, afflitto da una partenogenesi delle mansioni redazionali apparentemente inarrestabile, da un cronico assottigliarsi dell'organico, dal progressivo ridursi (o in molti casi della completa sparizione) della mazzetta dei giornali e del tempo a disposizione per informarsi su ciò che accade al di fuori delle mura del proprio ufficio, non è quasi più in grado di pensare a nuovi servizi da realizzare. La figura del collaboratore esterno, anche quando avventizio, è divenuta quindi cruciale per sopperire a questa asfissia creativa. Ciò è senz'altro stimolante per chi esercita la libera professione, ma è al tempo stesso frustrante per chi, come me, ha fatto in tempo a vivere un'epoca in cui i giornali si pensavano all'interno dei giornali. In questa nuova dinamica lavorativa, la presenza dell'agenzia è cruciale per i rapporti con i giornali, presso i quali è necessario mantenere una presenza costante, che, in virtù delle numerose trasferte, il fotografo fatica a garantire. Sovente, infatti, è l'agenzia a incaricarsi di consegnare i servizi realizzati e di illustrarli agli interlocutori giusti (e a tenersi costantemente informata sulle loro migrazioni professionali, oggi molto più frequenti di un tempo), anche se appare chiaro che la gran parte di tali interlocutori - art director, photo editor, direttori - prediligono il rapporto diretto con l'autore.

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© Sergio Ramazzotti
Cotonou, Benin, mercato dei feticci magici di Dantokpa.
Un bimbo con una testa-feticcio di avvoltoio

Hai, in generale, una preferenza tra il b/n e il colore o dipende sempre dal tipo di lavoro?
La scelta è spesso demandata a chi commissiona il lavoro, e in genere, quando si tratta dell'editoria, la preferenza va al colore: il bianco e nero tende a essere considerato obsoleto o eccessivamente connotato (in almeno due occasioni recenti mi sono sentito dire che "fa troppo sociale"), oltre a creare maggiori problemi in fase di stampa. Tuttavia mi è capitato di riuscire a orientare alla scelta del bianco e nero grossi committenti in partenza convinti della maggiore efficacia comunicativa del colore: due casi significativi sono stati la campagna nazionale 2004 di Alleanza Assicurazioni e il magazine Cartier Art della Fondation Cartier. Adoro il bianco e nero, la sua potenza, la sua eleganza, la sua solennità. Inoltre scattare in bianco e nero mi aiuta a mettere da parte una delle mie ossessioni, ovvero quella della purezza e dell'armonia cromatica della foto. Tuttavia, in ragione di questa stessa ossessione, amo il colore, e lo vedo come una continua sfida a realizzare immagini che coniughino felicemente la forza della situazione con l'efficacia dell'accostamento cromatico.

L'altro dilemma è tra digitale e pellicola. Finora come ti sei regolato e che idee hai sull'avvenire a breve-medio termine?
Fin quando ho potuto, ho cercato di scattare in analogico, pensando soprattutto al riutilizzo del materiale per mostre o prodotti di grande qualità come i libri fotografici. Tuttavia le esigenze del mercato mi hanno portato a passare, per alcuni lavori, al digitale, cosa di cui non mi pento. Lo scarto qualitativo, quando la foto è destinata ai giornali, è impercettibile, e per la postproduzione mi avvalgo di un hardware che mi preserva dalle amare sorprese che, nel caso dell'analogico, sono talvolta causate da una frettolosa lavorazione dell'immagine in fotolito. In definitiva il bilancio della fotografia digitale è positivo, fatto salvo il regime di dipendenza cui si accetta di sottoporsi investendo in tecnologie digitali, le quali, come sappiamo, hanno costi elevati, rapido declino ed esigui margini di recupero dell'investimento nel caso di una rivendita.

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© Sergio Ramazzotti
Kano (Nigeria settentrionale),
una bambina al mercato
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© Sergio Ramazzotti
Silves, amazzonia brasiliana.
Un bimbo sulla sua piroga

Che tipo di attrezzatura utilizzi?
Per l'analogico, ho sempre con me le mie fide Nikon F3, con mirino HP e motore. I miei obiettivi preferiti sono il 50 f 1.2, il 105 f 1.8 e il 24 f 2. Spesso uso anche una Hasselblad XPan abbinata a una Leica M6. Talvolta una Hasselblad 500 medio formato. La digitale è una Nikon D1.

Infine, quali sono i lavori che stai sviluppando in questo periodo?
Da molti anni sto lavorando a tre progetti distinti, che porto avanti nel corso di ogni viaggio. Uno è sull'iconografia della morte nel mondo, l'altro è sull'estetica africana, e infine uno sull'immagine della Vergine Maria nelle culture popolari di tutto il pianeta.

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© Sergio Ramazzotti
Regione di Kiir-Kouk (Sudan meridionale), soldato delle forze ribelli dell’Spla
di John Garang in un villaggio


Chi sono
Ho scritto e fotografato oltre 150 reportage in altrettanti paesi per i più importanti periodici italiani.
Ho esposto in mostre personali a Roma, Torino, Milano, Bari, Arona e Biella.
Con l'editore Feltrinelli ho pubblicato "Vado verso il capo" (1996), la cronaca di un percorso di 15 mila chilometri compiuto in Africa, da Algeri a Città del Capo, a bordo di mezzi pubblici. Il libro è attualmente usato come libro di testo al corso di Sociologia del Turismo dell'Università IULM di Milano.
Nel 1999 ho pubblicato "Carne verde" (Feltrinelli), un romanzo storico sulle origini del culto del peyote nel Texas meridionale del XIX secolo.
Nel 2002 è uscito "La birra di Shaoshan" (Feltrinelli), un romanzo ambientato nel villaggio di Shaoshan, il paese natale di Mao Tse Tung.
Nel 2003 è uscito "Liberi di morire" (Piemme, www.edizpiemme.it), un romanzo-reportage sulla seconda guerra del Golfo in Iraq.
Nel novembre 2005 è uscito per DeAgostini il romanzo "Tre ore all'alba", ambientato fra l'Italia e l'Iraq e ispirato a una storia vera.
Nell'estate del 2006 Feltrinelli pubblicherà "AfroZapping", una raccolta di racconti africani.
Nel 2005 ho vinto il premio Enzo Baldoni per il giornalismo, istituito dalla Provincia di Milano, e l'International Photography Award, assegnato a Los Angeles (www.photoawards.com).

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© Sergio Ramazzotti
Bani (Burkina Faso), un bimbo gioca di fronte a una moschea di fango

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