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Mario Giacomelli, dall’archivio Crocenzi

«Io non ritraggo paesaggi, ma i segni e la memoria dell'esistenza», diceva Mario Giacomelli, che per tutta la vita continuò a definirsi un tipografo eppure è considerato il più grande fotografo italiano del Novecento. Fin da quando, nel 1963, il curatore del MoMA di New York acquisì per il Museo la serie Scanno, inserendo anche una fotografia nel prestigioso catalogo Looking at Photographs. Giacomelli sfugge ad ogni scuola o definizione, la sua è un’arte fotografica senza precedenti, in cui le immagini sottolineano l’aspetto emotivo della realtà. Fino al 20 gennaio, il Museo di Roma in Trastevere ospita “Mario Giacomelli. Fotografie dall’archivio di Luigi Crocenzi”, esposizione di 90 immagini e di 13 lettere e documenti del fotografo marchigiano a cura di Walter Liva. Le immagini e i documenti in mostra sono stati selezionati tra i materiali che il CRAF ha acquisito nel 1995 con l’archivio di Luigi Crocenzi costituito da lettere, libri e fotografie che l’uomo di cultura fermano aveva raccolto nel corso degli anni. Tra questi materiali spicca per il suo enorme valore il corpus di oltre 250 vintages realizzati da Mario Giacomelli dagli anni ’50 alla fine degli anni ’70. Nella prima parte della mostra vengono presentate le serie di fotografie degli anni ’50: Prime fotografie, Nudi, Mare, i Paesaggi (che si sono poi riproposti lungo tutta la vita artistica di Giacomelli), Puglia, Gente dei campi, risalenti a quegli anni e quindi Lourdes (1957) e Scanno. Seguono quindi Mattatoio (1961), Io non ho mani che mi accarezzino il viso (1962-63), A Silvia (1964), La buona terra (1964-65), Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Motivo suggerito dal taglio dell’albero (1967-69), Caroline Branson (la serie realizzata tra il 1971 e il 1973), fino a Studenti (del 1977).

 

Graphic Novel: Alain e i Rom

Un reportage che nasce dal matrimonio tra fotografia e fumetto. Un’opera sui Rom, minoranza tra le minoranze. Per dieci anni il fotografo Alain Keler ha girato i campi Rom di mezza Europa. Dal Kosovo alla Serbia, dal sud della Francia alla Repubblica Ceca, fino al grande ghetto a cielo aperto di Lamezia Terme, in Calabria. Dovunque ha fotografato i volti, scattato immagini della vita in roulottes e villaggi di baracche e raccolto le storie e le testimonianze dei nomadi, documentando le loro difficili condizioni di vita, la povertà, la costante minaccia delle espulsioni e il confronto quotidiano con i muri dell’ostilità e dei pregiudizi, uguali sotto ogni cielo. Ma anche narrando con le foto la cultura di un popolo, i mestieri, le feste e la musica. La fatica e la gioia di vivere, nonostante tutto. 
Il suo amico disegnatore Emmanuel Guibert, autore di punta del fumetto francese, ha ascoltato i racconti di Keler e ha usato queste splendide fotografie in bianco e nero e a colori come vignette, riempiendo i vuoti della narrazione tra uno scatto e l’altro con sequenze disegnate. Il risultato? Alain e i Rom (di Emmanuel Guibert, Alain Keler e Frédéric Lemercier, Coconino Press, euro 17,pagine 104). Non “graphic novel” ma “graphic journalism”, sulla scia di autori di successo internazionale come Joe Sacco e Marjane Satrapi, con in più il realismo della fotografia che si intreccia al linguaggio del racconto a fumetti. Un invito, anche, a ribaltare il punto di osservazione: a scoprire i conflitti del presente e la storia d’Europa vista con gli occhi dei Rom, “dai finestrini senza vetri di un caravan senza ruote”. Arricchisce il libro una prefazione di don Luigi Ciotti, fondatore di Libera e Gruppo Abele, da anni in prima fila nella lotta alla povertà, al razzismo e alle mafie per favorire diritti e integrazione sociale delle minoranze.

 

Corpi di moda, Alessandra Olivares

Il Premio Paolo Costantini per la Saggistica sulla Fotografia, istituito nel 2004 dal Museo di Fotografia Contemporanea per ricordare il grande storico della fotografia prematuramente scomparso nel 1997 e lanciato ai giovani studiosi con cadenza biennale, è stato vinto quest’anno da Alessandra Olivares con il saggio Corpi di moda. Deborah Turbeville Bettina Rheims Vanessa Beecroft (edizioni Museo di Fotografia Contemporanea, euro 16). Il Premio, la cui finalità è quella di aiutare la riflessione teorica e la ricerca storica sulla fotografia e di favorire la circolazione di idee necessarie al dibattito e alla crescita della cultura fotografica e artistica in Italia, rappresenta uno dei molti modi che il Museo ha scelto per promuovere la fotografia come disciplina complessa all’interno della cultura contemporanea. Il saggio della giovane studiosa è stato premiato per l’originalità e la coerenza con le quali affronta il tema del corpo femminile dal punto di vista dell’arte contemporanea e dal punto di vista dei modelli comportamentali suggeriti dalla moda. Olivares ha scelto “l’eleganza senza tempo delle modelle di Deborah Turbeville, l’intensità degli scatti di Bettina Rheims e le bellezze algide e asettiche di Vanessa Beecroft” per indagare “i temi dello sguardo, del corpo e del volubile mondo della moda”, secondo le sue stesse parole. Tre artiste molto diverse tra loro, una triade che crea la struttura stessa del saggio. Le questioni che vengono discusse sono molteplici e stimolanti, prima tra tutte se esista un “modo femminile” per indagare il corpo della donna, gli stereotipi a esso legati, la condizione stessa della donna nella società contemporanea basata sull’immagine e la comunicazione. È certo infatti che nella storia dell’arte a definire l’immagine della donna sia stato lo sguardo maschile, ma è anche vero che da quarant’anni a questa parte molte donne artiste, in numero crescente e sempre più autorevolmente, si sono dedicate in modo consapevole proprio al tema del corpo e dell’identità femminile, e molto spesso attraverso la fotografia, che appare strumento privilegiato per questo tipo di indagine.

 

Zenit, Fabrizio Gaggini

Fino al 2 ottobre la Libreria Galleria Il Museo del Louvre in Roma ospita Zenit, esposizione fotografica di Fabrizio Gaggini: una proposta di "design celeste" per ignoranze supine. Dodici immagini scattate a Piazza Mattei, Porta Maggiore, Campo dei Fiori, Piazza San Giovanni, Ponte Cestio, Ponte Quattro Capi, Via Casilina Vecchia, Piazza di Spagna, Ara Pacis, Prima Porta, Villa Pamphili. Cieli che hanno perso la loro cavità: semplice luce zenitale su piani euclidei. La mostra è accompagnata da una mappa con i luoghi in cui sono state realizzate le immagini: punti geografici che fungono da finestre aperte. Anche l'allestimento è significativo: in una stanza sotterranea con soffitto a volta, la luce artificiale e la musica riprodotta ribadiscono l'artificialità degli elementi proposti rinforzando la necessità di ri(uscire) nuovamente a rivedere il cielo. Nel titolo il riferimento all'asse ideale che collega il capo al punto superiore; richiamo ad alzare la testa dovunque, quandunque e oltre ogni punto cardinale. Un’operazione dedicata agli antichi con la testa per aria, a chiunque si sdrai sul prato, all'ultimo sguardo impresso sulla retina di chi è caduto. (www.ilmuseodellouvre.com)

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