Miti

Marco Polo, la Via della Seta

Michael Yamashita

È il 1271 quando Marco Polo lascia Venezia per accompagnare il padre e lo zio in un viaggio di migliaia di chilometri lungo l’antica rotta della Via della Seta, per raggiungere l’Oriente attraverso la Terrasanta, la Turchia, la Persia, l’Afghanistan, il deserto del Gobi, sino al Catai nella Cina del Nord, alla corte del Gran Khan dei Mongoli. Una rotta attraverso la quale carovane di mercanti e di viaggiatori si muovevano dall’Asia verso l’impero di Roma da oltre un millennio, in uno scambio commerciale continuo. Con quelle carovane, oltre a merci preziose o ancora sconosciute, viaggiavano culture, usi e religioni di popoli diversi in continua contaminazione tra loro.
 


Yunnan, China. © Michael Yamashita
 

Michael Yamashita, fotografo americano di origine giapponese, tra gli autori di punta di National Geographic, si è messo sulle tracce del grande veneziano ripercorrendone il viaggio. Il risultato è un ricco reportage realizzato in quattro anni (in mostra fino al 12 aprile al MAO Museo d’Arte Orientale di Torino) diviso in tre sezioni geografiche: da Venezia fino alla Cina, la permanenza in Oriente e il ritorno via mare. Accanto alle 76 immagini di grande formato, alcuni video documentari, inclusi nella lista dei 20 migliori documentari di National Geographic Channel degli ultimi dieci anni, raccontano l’esperienza di Yamashita lungo la Via della Seta.
 


Children's games beneath the magnificent spiral minaret in Samarra, 1100 years old. © Michael Yamashita
 

Di seguito, l’introduzione del curatore della mostra, e direttore di National Geographic Italia, Marco Cattaneo: «Diciassette anni di viaggio, migliaia di chilometri percorsi a piedi, a cavallo, a dorso d’asino o di cammello, e un milione di storie da raccontare. Tante erano le meraviglie che Marco Polo – partito ragazzo con il padre Niccolò e lo zio Matteo, intraprendenti mercanti veneziani – aveva visto, o anche solo sentito, nella sua avventurosa traversata verso le terre di Kublai Khan, dove sarebbe diventato ambasciatore dell’imperatore. In verità, quando Marco e i suoi familiari si avventurarono lungo quell’intreccio di strade che portava da Venezia fino all’Estremo Oriente attraversando tutta l’Asia, la Via della Seta era già da più di un millennio la via carovaniera più famosa, e trafficata, del mondo. Era il 53 a.C., precisamente, quando i soldati della Repubblica romana guidati da Marco Licinio Crasso furono abbagliati dalla luce riflessa dai vessilli sventolati dai Parti, che li avrebbero poi sbaragliati nell’imminente battaglia di Carre. Crasso vi perse la vita, ma il fascino della seta divenne immortale arrivando alle orecchie dell’aristocrazia romana, e dando origine a una fitta rete di scambi commerciali tra Roma e la Cina.

 


One of Hangzhou's 12,000 bridges. This one spanning West Lake was noted by Marco Polo in his description of the city.
© Michael Yamashita
 

Da allora, per più di duemila anni, lungo la Via della Seta si sono scambiati tessuti, oro, metalli, pietre preziose, avorio, ceramiche e spezie. Ma non solo. Di lì passarono nell’antichità ricette e tradizioni della cucina, come il pane e gli spaghetti. E i ferventi fedeli che portavano a popoli lontani il messaggio delle grandi religioni, dal cristianesimo al buddhismo, dall’induismo all’islam. Marco Polo è il tributo di uno dei grandi fotografi di National Geographic al grande viaggiatore veneziano che con Il Milione ispirò Cristoforo Colombo e innumerevoli altre imprese di esploratori e viaggiatori. Seguendo le tracce delle monumentali memorie di Marco Polo, Michael Yamashita ha ritrovato molte tradizioni e molti luoghi narrati dal mercante veneziano, rendendo giustizia alla sua testimonianza diretta di quelle terre remote. E, soprattutto, facendoci assaporare piccoli scorci di mondo che sembrano rimasti congelati a settecento anni fa. Resuscitando così l’epica del viaggio lungo la Via della Seta».
 


A sadhu in Mumbai. The hair of these holy men sometimes grows to 12 feet or even longer. © Michael Yamashita
 

Così Michael Yamashita ha raccontato il suo reportage: «Tutto ebbe inizio con la domanda: “Marco Polo andò in Cina?”. La dottoressa Frances Wood, a capo del Dipartimento di Sinologia del British Museum, nel suo libro del 1996 - intitolato appunto Did Marco Polo go to China? - lo negò. Espresse dubbi circa la sua credibilità, basando in buona misura la propria argomentazione non tanto su ciò che aveva narrato nel suo epico resoconto di viaggio, composto nel XIII secolo, quanto piuttosto su ciò che aveva omesso. La Wood si chiedeva perché non avesse incluso nella narrazione conquiste, realizzazioni e usanze cinesi rilevanti come l’arte della stampa, il costume della fasciatura dei piedi, la calligrafia, la pesca con i cormorani, l’abitudine di bere il tè, l’uso delle bacchette per mangiare e la Grande Muraglia. In qualità di viaggiatore professionista specializzato nei territori legati a Marco Polo, avvertii l’urgenza di difendere questo instancabile viaggiatore italiano, il cui itinerario avevo incrociato spesso durante il mio lavoro nell’Estremo Oriente.
 


Back to the stable. The Mekong river has chiseled gorges as deep as 9900 feet. ©Michael Yamashita
 

Sono stato nel Marco Polo Hotel di Singapore, ho mangiato nel ristorante di Venezia che porta il suo nome, a Hong Kong sono partito in crociera a bordo di una nave a lui intitolata, ho aspirato il fumo delle sigarette Marco Polo in Indonesia, omonime del negozio di abbigliamento di Pechino in cui mi sono recato a fare acquisti. Era forse possibile che un libro così ampiamente letto e che un uomo il cui nome ha ispirato centinaia di imprese commerciali, entrando persino nel linguaggio di tutti i bambini che giocano a uno dei più diffusi passatempi da piscina in America, ebbene era possibile che fossero dei falsi? E se avessimo organizzato una spedizione per rintracciare la pista seguita dal grande esploratore servendoci del suo diario di viaggio come guida, chiudendo la questione una volta per tutte? Avremmo visitato nuovamente ogni singolo luogo descritto da Marco, fotografando le testimonianze di ciò che ne era rimasto almeno 700 anni dopo che lui stesso ne aveva parlato.
 


Sunset inflames the crescent symbol atop the dome of the Jame Masjid. © Michael Yamashita
 

Mentre cercavo di mettere in atto il mio proposito trovai che, a dispetto di Frances Wood, Marco ha una notevole cerchia di difensori alquanto rispettabili e famosi. Costoro sono pronti a far notare come egli abbia vissuto tra i mongoli e al servizio dello stesso Kublai Khan, ragion per cui non avrebbe avuto molto a che fare con i cinesi e con le loro usanze. Più probabilmente aveva mangiato con le mani e aveva bevuto latte di giumenta, anziché essersi servito di bacchette o aver bevuto tè. Gli stessi sostenitori sottolineano il fatto che egli alluse alla stampa e alla fasciatura dei piedi nel descrivere la carta moneta e la caratteristica, lenta andatura delle donne cinesi. Inoltre, per quanto concerne l’assenza di menzioni della Grande Muraglia, il fatto è che ai tempi di Marco non era poi tanto “grande”. Le immense fortificazioni circostanti Pechino che conosciamo oggi furono edificate solo tre secoli dopo che Polo ebbe lasciato la Cina. Mi rivolsi allora a Bill Allen, direttore di National Geographic, rivista per la quale avevo lavorato come fotografo freelance nei vent’anni precedenti. L’ultimo servizio dedicato a Marco dal Geographic, intitolato The World’s Greatest Overland Explorer, era stato pubblicato nel 1928. Allen fu allettato dall’idea, e diede il suo benestare.
 


Minab woman in he jab. Iran. © Michael Yamashita
 

Armato di quattro macchine fotografiche, di una dozzina di obiettivi, di un migliaio di rullini e di una traduzione commentata del Milione, The Travels of Marco Polo, mi misi alla ricerca di Marco Polo, spesso in compagnia Mark Edwards, giornalista dello staff di National Geographic,che ha scritto la storia del nostro viaggio. Quello che era iniziato come il classico incarico quadrimestrale della rivista, però, divenne presto un’ossessione: era la “febbre di Marco Polo”, come la definisce il famoso studioso della Cina Johnathan Spence: “È una strana malattia. Può colpire in qualsiasi momento. La sintomatologia è abbastanza chiara: si avverte un fascino travolgente per tutto ciò che Marco ha detto e descritto. La cura è ignota”. Io l’ho contratta in forma seria. Per la maggior parte degli ultimi quattro anni ho vissuto insieme a Marco come un caro amico. È stato la guida e il compagno di viaggio più affidabile, portandomi a migliaia di chilometri di distanza dalla sua città natale, Venezia (oppure Korčula, come sostengono i croati), attraverso le montagne e i deserti dell’Iran, la zona di guerra dell’Afghanistan e al di là del Pamir, “il tetto del mondo”, come Marco li chiamò, e infine attraverso la Cina stessa.
 


© Michael Yamashita
 

Il momento culminante dei miei viaggi con Marco si presentò poche settimane più tardi, quando mi fermai alla Biblioteca Colombiana di Siviglia, in Spagna, per fotografare la consunta copia del libro di Marco appartenuta a Cristoforo Colombo, completa degli scarabocchi accumulatisi in cinque secoli. Sfogliai le pagine in cerca dei migliori appunti che fossi riuscito a trovare a margine, sopprimendo l’impulso di inumidirmi un dito per voltare i fogli di quel volume del XV secolo. Scelsi una pagina in cui era descritta una scena veduta in India, lungo la stessa costa dove avevo fotografato i pescatori e le loro reti.
Colombo aveva evidenziato un passaggio disegnando una mano con dito puntato. La cosa mi colpì. Colombo, come me, doveva aver contratto una brutta forma di “febbre di Polo”, sognando le terre descritte da Marco e prendendo nota dei luoghi che sperava di scoprire. Proprio come ce ne sono oggi, i detrattori dovevano esistere nella stessa proporzione anche ai tempi di Marco, così come in quelli di Colombo.
 


The 'Sands that Sing' form immense dunes. © Michael Yamashita
 

Il mio vecchio amico, però, aveva ispirato un numero molto maggiore di fedeli, un elenco di esploratori che tornavano indietro nei secoli, dai simili di Colombo, sognatori di nuovi mondi da scoprire, fino a me, esploratore di mondi antichi da riscoprire, tutti mondi che il signor Polo descrisse con tanta cura e meraviglia. Mi sentivo orgoglioso di averlo potuto conoscere così bene. Si dice che Marco, sul letto di morte, abbia detto: “Non ho raccontato la metà di quanto ho visto”. Marco, vorrei che tu fossi vivo oggi per dirci di più, perché ti seguirei con gioia in un altro viaggio».
 


Grand Princess appears in the setting of St. Mark's Square. © Michael Yamashita

 

Chi è
Michael Yamashita collabora con National Geographic da più di trent'anni. Dopo essersi laureato in studi asiatici alla Wesleyan University, nel Connecticut, ha trascorso sette anni in Asia. Ha vissuto in Giappone, a Bangkok e a Singapore. Per il suo lavoro ha ricevuto numerosi riconoscimenti, è celebre per i suoi reportage sui paesaggi e le leggende dell'Asia. I suoi incarichi per National Geographic hanno riguardato viaggi sulle tracce di grandi esploratori come Marco Polo e l'ammiraglio cinese Zheng He, come pure l'opera di Basho, maestro giapponese di haiku. Oltre alla fotografia, Yamashita è anche un regista pluripremiato. Il suo documentario su Zheng He, The ghost Fleet (La flotta fantasma) è stato premiato come miglior documentario storico al New York Independent Film Festival; il suo documentario su Marco Polo per National Geographic Channel ha ricevuto due Asian Television and Film Awards ed è stato inserito nella lista dei venti documentari più popolari di National Geographic Channel nell'ultimo decennio. Yamashita ha pubblicato dieci libri, tra cui  Shangri-La. Suggestioni tibetane lungo la via del té (White Star, 2012), Zheng He: sulle tracce degli epici viaggi del più grande esploratore cinese (White Star, 2006); Marco Polo (White Star, 2011). Yamashita tiene anche lezioni e conferenze, e nel 2012 è stato nominato professore di fotografia allo Shanghai Institute of Visual Arts. Quando non è in viaggio, vive con la famiglia in campagna nel New Jersey, dove presta anche servizio come vigile del fuoco.

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