Inviati: Accanto, Italia, Europa

Emiliano Mancuso: Stato d’Italia (da Sguardi 81)

Renata Ferri scrive: «Cosa voglio raccontare? Questo si chiede sempre un fotografo quando affronta un nuovo progetto. C’è un tempo perfetto per la fotografia documentaria, è quello del cambiamento: tensioni, stati di crisi, guerre, rivolte, migrazioni, diaspore, emergenze ambientali e umanitarie. I fotografi, li conosco bene, sono aperti, curiosi, guardano sempre molto lontano. Il mondo è sempre a portata di mano, non ci sono confini e ostacoli al desiderio di andare a vedere; solo la censura e la violenza, figlie dei regimi totalitari creati dagli uomini, possono impedire loro il movimento della curiosità. Ho conosciuto Emiliano Mancuso come studente appassionato, poi l’ho visto crescere e diventare un fotografo della buona razza, quella dei viaggiatori. Ho seguito la sua lunga esperienza in Amazzonia e poi il bel lavoro ‘Terre di Sud’ (Postcart, 2008). È tornato a trovarmi per affrontare un nuovo progetto. Cercava una terra da esplorare, un luogo di cui ci si era dimenticati, un corpo ferito di cui parlare. Abbiamo fatto tre o quattro volte il giro del mondo. Quell’anno ci sarebbero state le Olimpiadi di Pechino e in America sarebbe stato eletto il primo Presidente di colore della storia, il Kosovo si proclamava Repubblica indipendente dalla Serbia, in Kenya gli scontri tra governo e opposizione incendiavano il Paese causando morti e migliaia di sfollati e nel Pakistan senza pace Benazir Bhutto veniva uccisa in un attentato in mezzo alla folla.Tutto accadeva sotto i nostri occhi e dovevamo solo scegliere cosa e dove andare a vedere. Eppure più lo studiavamo e cercavamo di comprenderlo e più avevo la sensazione che i grandi eventi internazionali ci stessero allontanando da qualcosa. Il nostro Paese stava scivolando in un’altra grande crisi politica, economica, sociale e culturale che ci avrebbe ancora una volta messo di fronte alle nostre scelte, alle domande sul futuro, alla voglia di fuggire o restare e rimboccarci le maniche. […] Non dobbiamo andare lontano. È tempo di stare qui, di guardare e di capire. E la fotografia può aiutare. Strumento narrativo efficace, sa come farlo: immediata, personale, coinvolta e partecipe. Pone domande, induce al dubbio. Registra i cambiamenti. Punta al cuore, lo sappiamo. Emiliano parla la sua lingua, quella della fotografia documentaria che ama e che segue. Usa il bianco e nero che rafforza la difficoltà di questo tempo. Filtra e sceglie, così come fanno gli autori dei testi. Un lavoro corale che abbiamo svolto diligentemente, un compito necessario, guardando la realtà e scegliendone dei frammenti, selezionando storie che hanno naturalmente dato vita a capitoli del nostro presente. Ci siamo trovati con tre anni di lavoro in mano, ridurli in un libro ci ha portato notti insonni e discussioni su come e cosa rappresentare. Scremando abbiamo abbandonato singole immagini. Scelte necessarie e dolorose rinunce. Il risultato è un viaggio nell’Italia di oggi che sembra tanto quella di ieri. Una fotografia capace di commuovere e di comprendere, quella che autenticamente cerca di raccontare il mondo, scevra dai vizi commerciali, lontana dalle sirene del mondo dell’arte, si potrebbe definirla impegnata ed è ancora un aggettivo che mi piace usare. Questo lungo viaggio non rinuncia mai allo sguardo sulla condizione umana, sul lato vulnerabile degli individui. È questa l’unica sincerità possibile.
 


Lampedusa, Agrigento. Un gruppo di migranti attende di essere trasferito con un ponte aereo in un centro di accoglienza sulla terraferma. © Emiliano Mancuso

 

Massimo Vitali, City Coasts (da Sguardi 91)

City Coasts di Massimo Vitali presenta una selezione di punti di vista su spiagge, supermercati, parchi, viali, dove si muovono moltitudini di persone, riconoscibili, anonime. Come scrive Whitney Davis in Natural Habitats, «nelle comunità umane fotografate da Massimo Vitali ci sono tipi specifici (addirittura definibili mediterranei o americani) di consuetudini sociali da osservare in alcune delle loro configurazioni caratteristiche. Vitali incornicia le sue fotografie di questi riflessi con domande ironiche e alla fine piene di ansia: è solo nel "prenderla alla leggera", nell’"andare in vacanza", o nell’"essere un turista" che gli esseri umani riescono a raggrupparsi pacificamente con i loro simili? Che serenamente si espongono alla carezza della natura? È solo così che riescono o lo vogliono? Che il loro mondo ha posto per questo? Che può essere veramente sano e sicuro come sembra? A prescindere dalla sua acuta osservazione sociologica, uno di risultati più sorprendenti della zoologia di Vitali è la sua scoperta visuale delle conformità istintive dell’essere umano indipendentemente dal luogo o dalla lingua, per lo meno nei luoghi speciali – a volte anche singolari, che ha scelto di studiare. Se questa è antropologia, ci rivela un’ecologia umana. E se si tratta di critica sociale, non è ostile alla società – Vitali sembra provare grande affetto per le comunità che ritrae – ma piuttosto intesa a chiarire che tipo di società siamo, o meglio, potremmo essere. Gli istinti che Vitali vede nei suoi soggetti potrebbero essere la nostra più grande risorsa e capacità di recupero; potrebbero anche però essere la vera ragione della mancanza e della perdita di oggi. Perché uniformarsi al mondo significa anche permettere al mondo di uniformarci».
 


Pic nic Senate, 2000 © Massimo Vitali

 

Franco Carlisi: Iàvàivòi (da Sguardi 48)

Una masseria, qualche animale, una storia d’amore, una coppia digiovani siciliani, due immigrati (un marocchino, un albanese), la campagna agrigentina, il ritorno dai campi, gli interni della casa, la sera e la notte. Questi sono gli elementi diIàvàivòi, il lavoro più recente di Franco Carlisi attualmente in mostra presso le Officine Fotografiche di Roma, che così lo presenta sinteticamente: "Iàvàivòi è un reportage su una piccola comunità multietnica che vive a Grancifuni, nell’entroterra siciliano. La globalizzazione ha indebolito la percezione del senso di appartenenza portando l’uomo a riconoscere la propria identità in una mera affiliazione etnica o religiosa. Negando una società fatta da individui in cui si sono stratificate diverse identità simultanee. A Grancifuni il bisogno di identità si estrinseca nella naturale necessità di relazione all’interno della comunità e porta a comuni appartenenze ad identità collettive. Individui diversi, dalle diverse origini, a Grancifuni, in una terra di nessuno si riconoscono in una sola identità: quella universalmente umana". Dal testo "Fotografie in versi" che Gigliola Foschi ha scritto perIàvàivòi: "Fare una fotografia è un modo di toccare qualcuno, è una carezza, è accettazione…", ha sempre sostenuto la fotografa americana Nan Goldin. In sintonia con il lavoro di questa autrice, il siciliano Franco Carlisi crea immagini che sono a loro volta un viaggio di avvicinamento verso gli altri, verso la loro vita, le loro emozioni. Fatto di frammenti carichi di momenti intimi e intensi, di sguardi e carezze, il suo modo di narrare è come una poesia in cui ogni immagine diviene un verso capace di dar vita a un piccolo mondo aperto verso l’immaginazione di chi osserva. Protagonisti delle sue immagini sono Anna eDavide e la fatiscente masseria in cui vivono assieme a un marocchino e a unalbanese. Isolati in campagna, nei pressi di Agrigento, coltivano la terra e allevano qualche cavallo, qualche gallina, un gallo, due cani, alcune pecore. Se il lavoro di Ferdinando Scianna sui riti popolari è stato – come egli stesso racconta – un modo "per salvare qualche cosa che si stava perdendo (…) un grande sventolio di fazzoletti già nostalgico nei confronti di un certo mondo che era poi quello contadino", nell’opera di Carlisi tale bisogno di salvaguardare la memoria della sua terra non trova più soggetti "forti" e neppure i profumi di un tempo. Anna e Davide conducono una vita certamente dignitosa, fatta di gesti che conoscono ancora il sapore delle cose e della natura, ma è come se su di loro, sulla loro vita di contadini radicati alla terra, fosse caduto una sorta di velo che li abbandona alla marginalità e li rende socialmente invisibili, ininfluenti. […] I viaggi di Carlisi, verso la masseria in cui loro abitano, nascono quindi dal bisogno di ridare voce, visibilità, a chi vive nell’ombra. E’ come se l’autore avvertisse che la loro vita, forse proprio perché marginale, può ricordarci e far riemergere un mondo di valori, emozioni e sentimenti che ci appartiene intimamente, ma che stiamo dimenticando. […] Carlisi non fotografa infatti per descrivere, ma per superare la barriera che lo divide da quanto sta guardando, per infrangere la superficie della realtà ed entrarci dentro. Il suo è una sorta di sentire vedente che mette in discussione la visione logocentrica e la distanza dello sguardo, rivelando le possibilità tattili edemozionali del fotografare.
 


© Franco Carlisi - Iàvàivòi

 

TerraProject & Wu Ming, 4 (da Sguardi 92)

Dalla collaborazione tra i fotografi del collettivo TerraProject e lo scrittore Wu Ming 2 è nato il progetto 4. 4 è una mostra itinerante, curata da Daria Filardo, che ha visto la prima tappa a Firenze lo scorso novembre. 4 è un libro autoprodotto, è un dialogo tra il linguaggio della scrittura e quello della fotografia, curato da Renata Ferri e con il design di Ramon Pez. «Abbiamo fatto un vero lavoro di sottrazione per arrivare al risultato attuale: quello necessario per suggerire, porre domande e introdurre alla lettura più emotiva», spiega Renata Ferri. «L’incontro con Wu Ming che, con la scrittura, tesse la trama di quello che sarà l’oggetto finale, restituisce oggi un racconto per immagini e parole che attraverso i quattro elementi - aria, acqua, terra e fuoco - percorre l’Italia. La sfida di realizzare un’opera sincretica, dove la realtà del documento fotografico invita la scrittura a possibilità narrative libere e fantastiche per consentire molteplici letture». «4 è nato nel 2006, ma noi all’epoca non lo sapevamo. Avevamo in mente di raccontare il nostro Paese seguendo la mappa di un’Italia minore», argomenta Rocco Rorandelli di TerraProject. «E volevamo farlo sperimentando con le possibilità creative offerte da una scrittura collettiva omogenea, dove la pratica fotografica è realizzata da quattro fotografi, ma percepita come unica. In sintesi, sapevamo da dove iniziare, ma non dove saremmo arrivati. Vari anni dopo, quello stesso esperimento stilistico sarebbe divenuto l’originale simbolo espressivo del collettivo e, dalle centinaia di provini a contatto, sarebbe emerso un ampio archivio di testimonianze umane e geografiche in cui la nostra visione dell’Italia si poteva organizzare facendo appello ai quattro elementi classici. In Terra abbiamo ripercorso sismi antichi e recenti. Con Acqua abbiamo raccontato l’antropizzazione delle nostre coste. Fuoco ha esplorato visivamente i vulcani attivi italiani e infine in Aria ci siamo soffermati sull’inquinamento delle aree urbane industrializzate».
 


Isola di Stromboli, novembre 2008. Il faro del porto al tramonto. © TerraProject

 

Marco Bulgarelli: Danubius (da Sguardi 93)

Il mio primo viaggio nell’Europa dell’Est, in Ungheria, risale all’alba degli anni ‘90 e si è impresso nella mia memoria come un marchio a fuoco. Arrivai con il treno alla stazione di Budapest e fin da subito realizzai che quella era la mia terra: mi sentivo a casa e tutto mi sembrava, come negli anni della mia infanzia, più semplice e puro, aveva il sapore dei valori perduti. Vagabondavo per l’Ungheria quasi prigioniero di una dimensione che coincideva con il mio mondo interiore, quasi una sua irreale estensione. Unico filo d’Arianna, il corso placido e maestoso del Danubius, Dio dei fiumi per gli antichi romani, motore immobile di tutti i miei pensieri. Sono stato sempre attratto e sedotto dai fiumi, come un bambino nei confronti del mare, perché mi trasmettono pace, armonia e mi permettono di viaggiare con loro per monti e per pianure, ma anche nelle viscere della terra e nell’arco del cielo, ad abbracciare il cosmo. L’amore per l’Est e per i fiumi ha per me la stessa natura, la natura di un abbraccio interminabile, e questo progetto scaturisce da questa consapevolezza. Si è trattato di un viaggio alla ricerca dell’identità europea dopo l’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale ma anche alla ricerca della mia identità dopo che "karmici" terremoti interiori mi avevano sollevato molti interrogativi, lasciandomi la necessità di ricongiungermi con il mondo. Le frontiere che attraversavo, più che una separazione tra paesi, rivelavano la presenza di una soglia critica, nella quale i conflitti interiori e il confronto con se stessi diventano sempre più acuti. […] Il Danubio è l’unico fiume al mondo che passa per dieci stati della vecchia e nuova Europa. Da una parte è il simbolo dell’unità, come una lunga cicatrice che lentamente guarisce e presto diventerà invisibile. Dall’altra parte divide il continente a causa delle differenze storico-culturali. Certamente l’identità europea è in movimento e in lenta trasformazione. La frontiera che un tempo vanificava la ricerca dell’altrove, del territorio dell’utopia, oggi è diventata un’opportunità per chi non ha trovato posto nella sua terra.
 


© Marco Bulgarelli - Belgrado, affollata spiaggia sul lago Sava nei pressi dell'’isola Ada Ciganlija

 

Luca Nizzoli Toetti: Almost Europe (da Sguardi 95)

Il progetto Almost Europe è un lavoro di fotografia documentaria alla ricerca dell’Europa, degli europei, attraverso i gesti e i percorsi della quotidianità, che si sviluppa nell’eterogeneo tessuto sociale, culturale e urbano del vecchio continente. Un approfondimento sull’Europa, lungo percorsi che ne attraversano o ne tangono il territorio. Un progetto che vuole stimolare un confronto, una riflessione sull’evoluzione dei luoghi e dei loro abitanti, dei nostri luoghi e di noi stessi. Documentare l’attualità e le dinamiche dei paesi europei e degli stati a essi vicini, può servire a meglio comprendere i meccanismi che regolano i delicati rapporti tra le genti che popolano la terra dall’ampio sguardo, ovvero l’Europa, nel suo significato etimologico. Così il viaggio, il cammino e l’incontro, la partecipazione, si fanno testimonianza, colmando quel bisogno di riconoscimento di cui l’uomo non è mai pago. Una testimonianza libera da committenze preventive che persegue l’accettazione e il rispetto tramite l’osservazione e il confronto. Almost Europe è un vero e proprio work in progress, che a ogni viaggio si arricchisce di nuovi contenuti, nuove fotografie. Il primo prodotto tangibile del progetto, oltre al virtuale sito www.almosteurope.org, è il libro Almost Europe (pp. 128, euro 25, edito da Postcart, da cui sono tratte le fotografie della gallery), un’esplorazione oltre la "cortina blu" dell’UE, il nuovo confine disegnato a est dopo l’ultimo allargamento della comunità. Un viaggio da Kaliningrad a Istanbul, attraverso Minsk, Kiev, Chisinau, Odessa, Tiraspol. Non solo uno sguardo al di là di un confine geografico ma anche temporale, varcato il quale si torna indietro nel tempo, verso un passato dimenticato.
Il lavoro di documentazione mi ha poi portato a viaggiare, in treno, di città in città, attraverso l’Europa lungo le direttrici nord/sud da Narvik Pozzallo, ovest/est da Lisbona San Pietroburgo. L’anno prossimo sarò impegnato nell’ultima tappa, da Reykjavik Nicosia. Cercando di trovare una risposta alla domanda che mi sono posto prima di iniziare: cos’è l’Europa? […] Una mia visione di Europa, il teatro che ho scelto per la mia ricerca.
[…]
La città, la folla, sono gli elementi che pungolano la mia necessità di sovvertire un destino di solitudine, indifferenza, estraneità a cui mi abbandono per farne virtù: sfrutto l’anonimato per immergermi nella massa frettolosa con lentezza, senza far nulla ma inseguendo ogni cosa. Fermo a un crocevia, attento solo a ciò che accade in quell’istante, mentre tutto intorno vive l’equilibrio caotico degli attimi, delle coincidenze, degli incontri, ne divento l’unico spettatore volontario. Nessuno si accorge che sto guardando, nessuno immagina che io stia rubando, per non disperderlo, ciò che abbiamo di più fugace: il patrimonio della quotidianità, la ricchezza dei suoi gesti in via d’estinzione, le sue meraviglie effimere e potenti, il significato dei nostri percorsi, il senso delle nostre abitudini. Oltre la durezza delle città, lo spettacolo urbano offre uno scenario poetico.
 


© Luca Nizzoli Toetti

 

Massimiliano Palumbo: Contemporary Calabria (da Sguardi 73)

Old Calabria, il libro che lo scrittore inglese Norman Douglas scrisse dopo i suoi viaggi nel sud Italia tra il 1907 e il 1911, è diventato contemporary nel viaggio che Massimiliano Palumbo, fotografo e giornalista calabrese, ha intrapreso cento anni dopo sulle sue tracce. Lungo le strade della regione più meridionale della penisola, un andare spesso non semplice, a causa del tempo a disposizione quasi mai sufficiente, con l’obiettivo di pubblicare due volte a settimana un lungo reportage su Il Quotidiano della Calabria la scorsa estate. Tanti chilometri percorsi in un solo giorno e permanenze di poche ore: ispirazioni fulminee e scatti colti al volo, anche quando a fine viaggio la foto giusta sembrava mancare. Un secolo dopo il tour di Douglas, la Calabria appare trasformata, eppure con dei tratti talvolta immutati. Di seguito pubblichiamo gli incipit di due puntate, dedicate a Rossano e Spezzano Albanese. […] Rossano. 
Roccia rossa e alberi verdi. Dalla pianura bagnata dal Mar Jonio, fino in collina, «en plein Byzance». L’itinerario tra i vicoli di Rossano comincia da un corso definito «una delle vedute più belle d’Europa». Era il 1935 quando il Touring parlò di quella «passeggiata» in via Santo Stefano. Alla fine della strada sorgeva una balconata da cui poter ammirare costa e centro storico. Bastava solo voltare lo sguardo a destra e poi a sinistra. Di fronte, invece, uno strapiombo apriva la visuale su coltivazioni d’ulivo, rocce e fichi d’India. Quella veduta ora non c’è più. A rovinare il panorama ci pensano dei giganteschi tralicci dell’alta tensione, mentre lungo il corso è stata realizzata una serie molto colorata di case popolari. «Colpa del lavoro che non c’era – racconta il preside Giovanni Sapia, all’epoca sindaco della città -. Erano gli anni 50 e gli operai chiedevano con forza di poter lavorare». […] Spezzano Albanese. 
Il paese rivoluzionario riposa, accarezzato dalla brezza e dal sole tiepido. Un uomo in canottiera, calzini e ciabatte attraversa la strada lentamente, mentre un bimbo si aggira in bici tra i vicoli, zigzagando con velocità. Anche via Roma riposa, qui Douglas fu ospite di una locanda, ora chiusa. Al suo posto c’è una casa. La signora che vi abita è la nipote degli sposi che accolsero lo scrittore inglese. «Ricordo poco di mia nonna - racconta la signora Esterina Pace -, ero piccolina, comunque parlare di queste cose è bello, i ricordi ci danno più vita». La signora Esterina è gentile, ha gli occhi vispi e un sorriso sincero. E se non fosse per la «messa imminente, vi avrei fatto accomodare offrendovi qualcosa». Quelle battute, scambiate sull’uscio di casa, dimostrano un aspetto importante delle vecchie generazioni, un aspetto che non sfuggì allo stesso Douglas: «La cordialità naturale a tutte queste donne». «Sì, è vero, quelle della mia generazione sono tutte così, ma ora le cose sono cambiate: si sono imbastardite», spiega ancora la signora Esterina. Il tempo che avanza ricorda l’approssimarsi della funzione religiosa e l’anziana donna saluta, ma non prima d’aver ricordato che a breve riceverà la visita di uno scrittore americano: «Ma non ricordo il nome, so solo che anche lui è interessato alle vicende di Old Calabria».
 


Capo Colonna © Massimiliano Palumbo

 

Sandro Santioli: I colori dell’Islanda (da Sguardi 77)

L’Islanda dall’alto è un paese straordinario. Spero che le immagini pubblicate lo possano testimoniare. Questo è anche un luogo dove la natura apporta cambiamenti continui alla morfologia del paesaggio. Ho rifotografato a luglio 2010 l’area vicina al vulcano Eyjafjallajkull dopo l’eruzione di aprile che aveva bloccato il traffico aereo in mezzo continente. Le grandi quantità di ceneri, lapilli, minerali eruttate avevano cambiato l’aspetto delle aree circostanti e i colori dei ghiacciai, dei fiumi, delle ampie distese non erano più gli stessi. Magicamente trasformati e meravigliosamente ridipinti. Questa dell’Islanda aerea è una visione dei luoghi e della loro essenza, proiettata verso l’immaginario, quasi a ricercare un confine tra realtà e astrazione. In questo tipo di sintesi non mi interessa la realtà pura e semplice, ma la sua trasformazione in un punto di vista soggettivo, così da renderla un mio processo ri-creativo. Un paesaggio fisico, che esiste ma che fa sognare allo stesso tempo. Con quest’approccio focalizzo l’attenzione sulla luce, sulle forme, sul colore, sulla composizione. Il mio interesse in fotografia è concentrato soprattutto nella ricerca e nella trasmissione di un senso di armonia e di bellezza: valori che percepisco ovunque nel mondo, da tutte le cose, persone o luoghi che mi circondano. Bellezza e armonia sono essenziali per vivere. Queste immagini portano con sé un messaggio: coloro infatti che percepiscono la bellezza, imparano a riconoscerla e a rispettarla. Che sia nel viso in una persona, nel corpo di una donna o di un uomo, nella fierezza di un animale, nella forma di un oggetto, nella maestosità di un paesaggio.
 


© Sandro Santioli

 

Nicola Gronchi: L’inferno dentro, l’ex Manicomio di Volterra (da Sguardi 76)

Dal regolamento interno: "Gli infermieri non devono tenere relazioni con le famiglie dei malati, darne notizie, portar fuori senz’ordine lettere, oggetti, ambasciate, saluti; né possono recare agli ammalati alcuna notizia dal di fuori, né oggetti, né stampe, né scritti...". 10% di deceduti per percosse magnetico-catodiche; 40% per malattie trasmesse; 50% per odio, mancanza di amore e affetto. Attualmente la struttura è in un profondo, tragico e inquietante processo di totale abbandono e il camminare in quei luoghi trasmette un infinito senso di rabbia e impotenza, sentimenti che insieme alla solitudine venivano sicuramente percepiti dai pazienti rinchiusi in un inferno senza tempo.L’Ospedale, dopo la sua chiusura, è diventato tristemente famoso per i graffiti di Nannetti Oreste Fernando, 180 metri di muro esterno in cui NOF4, come lui stesso si firmava, ha inciso nei lunghi anni di degenza un’opera enciclopedica di sentimenti, biografie e crimini subiti e testimoniati. Parole, poesie, disegni scavati nella pietra gialla con la fibbietta del gilet della divisa dei matti reclusi. L’Ospedale ha ispirato il cantautore Simone Cristicchi nella sua "Ti regalerò una rosa", immaginaria lettera di Antonio, chiuso in manicomio da quando era bambino. Le mie immagini vogliono essere una cruda testimonianza e uno spunto di riflessione per dare ancora più pregnanza agli sforzi profusi da Franco Basaglia, psichiatra e neurologo italiano che si è battuto con tutte le proprie forze per la chiusura, nel 1978, di questi Konzentrationslager autorizzati. I manicomi erano veri e propri luoghi di contenimento fisico in cui si praticavano terapie farmacologiche molto invasive, spesso unite a veri e propri maltrattamenti. La loro chiusura ha permesso di far progredire una nuova possibilità di assistenza medica, non mirante al quasi annientamento del malato mentale, ma al suo nuovo coinvolgimento all’interno della società, sostenuto dall’ambiente familiare e dall’aiuto terapeutico, perché la persona con disturbi &egra

Metodi di pagamento: