Intervista

A cura di: Antonio Politano


Andare al cuore delle cose

Letizia Battaglia



Il Maxxi di Roma la celebrerà a novembre con la più grande retrospettiva dedicatale. Famosa per i suoi scatti di cronaca diventati documenti storici e per i ritratti di donne, Letizia Battaglia - passati gli ottant'anni - continua a essere vitalissima e a lottare contro i conformismi. L'abbiamo incontrata in occasione del Premio Kapuściński per il reportage fotografico conferitole dal Festival della Letteratura di Viaggio (la cerimonia di premiazione si svolgerà a Roma il prossimo 24 settembre), anche per augurarle buon lavoro come direttrice del prossimo Centro internazionale per la fotografia che sta per nascere a Palermo.



Hai conosciuto Kapuściński personalmente.

Sì, soltanto che non ricordo se è stato in Norvegia o in Germania o in Danimarca. Perché in quel periodo mi invitavano qua e là. Mi ricordo che fui molto, ma molto emozionata perché c'era lui, Baudrillard e poi io, umile fotografa di tragedie palermitane. Mangiammo insieme, ma non ci fu amicizia vera. Però io ebbi il tempo di adorarlo. Lo conoscevo già come scrittore, come fotografo anche. Non come persona e fui molto contenta di incontrarlo. Ma di lui non ti posso dire niente, se non che era piccolino e gentile. Sensibile, molto sensibile.




1993 Rosaria Schifani © Letizia Battaglia


Quest'anno riceverai il Premio Kapuściński per il reportage. Cos’è per te reportage, cosa ti dice questa parola?

Io sono una che ha fatto reportage rimanendo nella città dove vive. Reportage può significare tante cose, per ognuno cose diverse. Per me significa andare al cuore delle cose, di un luogo, di una città, di un gruppo di persone, cioè scavare con l'immagine. Io lego molto la fotografia al cinema: è come una creazione, anche se poi è la realtà. È una cosa complicata quella che ho appena detto, ma siccome sono vecchia le complicazioni si sono complicate!



Scusa se ti faccio questa domanda, che a volte nella sua essenzialità è un po' riduttiva: ma tu hai una qualche definizione per la tua fotografia?

Non posso averla, però penso che un poco sono legata al nuovo realismo, qualcosa che ha a che fare con un mondo passato. Dal punto di vista dell'ambientazione percepisco che mi piacciono quei luoghi e quei sentimenti molto naïf degli anni del realismo nel cinema italiano. Ma è il cinema, non i fotografi. De Sica, Rossellini ad esempio, questo tipo di cinema che è un poco drammatico, un poco verace. Poi le mie foto prendono la strada che vogliono. Dentro di me credo di avere questo sentimento che mi lega a questo cinema. Infatti, adoro i film di quel periodo. Se tu vedi la mia fotografia non è legata alla fotografia italiana, a un Berengo Gardin, a Mulas, a tutti quelli che sono venuti prima. No, io sono un po' legata come estetica più ai maestri americani che italiani, poi invece il sentimento è il nuovo neorealismo italiano. Mi piace tantissimo Diane Arbus. Poi, vabbè, è arrivato Koudelka e ha sconvolto la mia vita. La cosa è un po' complicata!




1975 Omicidio targato Palermo © Letizia Battaglia


 

Un'etichetta, che si associa spesso a te, è "fotografa della mafia". Come te la senti addosso?

È insopportabile, ridicolo; sono i giornalisti che usano quattro parole e le usano tutte uguali. Io casomai ho raccontato le cose di mafia, ma non soltanto le cose di mafia. Ho moltissime foto della società palermitana, dei poveri, dei poveracci e pure dei ricchi, anche se non mi piaceva fotografarli. La fotografa della mafia, e che vuol dire? Solo perché ho fotografato quattro morti ammazzati, quattro mafiosi, quattro politici corrotti. Non è questo. Era l'impegno, io sono una persona antimafia, sono una che crede nella giustizia non necessariamente quella legale. Credo nella giustizia umana, assolutamente. Divina no, perché non ci credo al divino. Fotografa della mafia è una banalità, una sciocchezza. I giornalisti italiani, come i giornalisti esteri, sono un poco cialtroni. Anche perché vedi come stanno trascinando i giornali, con immagini brutte. Veramente stanno rovinando una generazione e non si sa come si recupererà. È inutile che noi ci arrabattiamo a fare i corsi di fotografia; questi ragazzi diventano meravigliosi, meravigliosi fotografi e poi non li vuole nessuno. Per cui, frustrazioni assolute. Tu sai che pagano una foto, che so, 15 euro. Non tanto per me, perché io manco col cavolo gli darei una foto per 15 euro. Ma dico certi ragazzi, certi giovani, certi fotografi non necessariamente giovani, pur di pubblicare e di avere quel piccolo nome sotto, gliele danno pure gratis. Questo è terribile.



 


1991 Figlia di Mimmo Ortolano Casa professa © Letizia Battaglia


 

Come hai iniziato?

Ho iniziato a dieci anni, da piccola, quando mio padre ci portava i pezzi di parmigiano grossi grandi. Io ne rubavo un pezzetto e lo portavo alla signora con tanti bambini e il marito disoccupato. È nato così. Io fotografo perché devo stare da quella parte e lo devo dimostrare in qualche modo, lo devo testimoniare e lo devo raccontare. Sono a Palermo. E Palermo ho raccontato e racconto. Oggi in un modo diverso, perché avendo le gambe non più forti non posso andare in giro, ma mi dispero perché non posso, perché vedo cose bellissime che nessuno racconta più. È incominciato così. Io sono una persona, non sono una fotografa. Sono una persona che fotografa, che ha fatto volontariato psichiatrico, che ha fatto teatro, che ha avuto l'amore, che l'ha dato, che ha avuto tre figli. Sono bisnonna! La fotografia è una parte di me, ma non è la parte assoluta, anche se mi prende tantissimo tempo. Poi con la mostra del Maxxi, proprio le budella ci sto mettendo! Ci stanno lavorando tante persone, nel mio archivio, di lettere, di giornali, pubblicazioni, fotografie. È un gran lavoro che sta andando avanti.



 


1980 Piersanti Mattarella viene estratto dall'auto morente dal fratello futuro presidente della Repubblica © Letizia Battaglia


 

Quando la farai?

A novembre. Sarà una cosa grande. Non è solo un'esposizione di fotografie, è anche il racconto di me, della mia vita, delle esperienze e degli incontri, dei giornali pubblicati. Credo che sia veramente forse la summa della mia vita. Potrei forse veramente non fare più niente dopo. Ripensando alla domanda che mi hai fatto prima, è vero ho cominciato tardi. Prima ho fatto dei figli, sono stata una moglie infelice, una borghesuccia inquieta, poi finalmente ho cominciato a scrivere per il giornale L'Ora. Sono andata a Milano, città cui devo tantissimo, perché lì ho cominciato a fotografare, trovare spazio per pubblicazioni. È grazie a Milano che poi il giornale L'Ora mi ha richiamato. Quando sono tornata a Palermo avevo quarant'anni. E il vero reportage l'ho fatto lì, nella mia città. Io non so se sarei capace di fotografare una guerra, perché per me è indispensabile l'amore. Certo, avrei un amore umano per il dolore che vedrei. Ma ho adorato Palermo, sono un po' schiava di questa città, anche se non so qual è il motivo per cui mi seduce e mi imprigiona. Pensavo che me ne sarei andata da qualche parte. Avrei potuto farlo, lavorare a New York, ovunque. Però Palermo mi ha sempre riacciuffato.



 


1982 Vicino la Chiesa di Santa Chiara. Il gioco del killer © Letizia Battaglia


 

A proposito di Palermo, com'era essere unica donna reporter per un quotidiano lì negli anni '70?

Lì era abbastanza strampalata la cosa, bizzarra. All'inizio non ero credibile, né per la polizia ma manco per i mafiosi. Poi hanno capito che c'era il talento, più che altro c'era la disciplina, nel cercare e volere sempre una società giusta. Per cui io ero là con la mia macchina fotografica e cercavo di raccontare non solo le défaillance, ma anche le cose belle. Perché io ho pure raccontato belle facce, belle bambine, belle situazioni più che altro al femminile. In quegli anni com'era? Non ero credibile. Quando c'era un fatto di cronaca, un morto ammazzato così, la Rai passava, i fotografi maschi passavano, a me qualche poliziotto mi metteva la mano e mi impediva di passare. Dopodiché ho trovato dei metodi per farmi rispettare: mi sono messa a gridare, quando su un luogo dove è successa una cosa tragica, una persona si mette a gridare, qualcuno si imbarazza e dice vabbè fatela passare. Mi faceva passare, e con grande piacere, Boris Giuliano, il capo della squadra mobile ammazzato poi dalla mafia. Lui mi aiutò molto agli inizi. Non mi accorgevo di essere donna, ero anche carina, non me ne fregava niente. Io dovevo fare il mio lavoro, dovevo innanzitutto rispettare il giornale L'Ora, il suo impegno, la sua tradizione e anche il fatto che mi desse dei soldi. Dovevo soddisfare la mia esigenza di fare le cose bene. O perlomeno provarci, cercare di raccontare con più passione possibile quello che stava avvenendo intorno. Veramente sono stati anni sconvolgenti. Era una guerra civile dentro casa, promossa dai siciliani. Infatti, i corleonesi che arrivarono a Palermo si misero in guerra con la mafia palermitana e lì successero le cose più terribili. Molta gente si corruppe. Sono stati anni molto duri e difficili.



 


Diario, Castelvecchi, pp. 176, € 50,00


 

Spostiamoci verso uno dei tuoi soggetti preferiti, le donne. Continuano a esserlo, lo sono state davvero?

Io sono un po' delusa. Prima credevo fermamente che le donne fossero molto, ma molto, migliori. Ora so che sono soltanto diverse, noi donne siamo diverse dagli uomini. Però bisogna dire la verità: siccome nel mondo i capi sono quasi tutti maschi, le guerre vengono promosse dai maschi. Continuo a pensare che le donne promuoverebbero meno conflitti. Però, fotograficamente, ha funzionato bene. Fino a un certo punto. Oggi ho dei dubbi. Addirittura, non riesco più a essere così pulita, innocente nei confronti di questa mia idea. Insomma sono delusa e per me è un po0 più difficile esaltare il ruolo delle donne. Nell'ultima fase del mio lavoro, cioè fino a tre anni fa, ho rielaborato le foto della cronaca nera, i morti ammazzati, inserendo, come se fossero presenti, delle donne o delle bambine o dei fiori. Io volevo spostare il punctum della violenza su un seno di una donna, non sexy, per niente sexy, sicuramente però donna, femminile, no smorfiosa, una donna donna. Oggi non mi viene più. Forse mi dedicherò al paesaggio, al mio paesaggio interiore, che è un poco drammatico, devo dirti, un poco triste.


 

Sì?

Sì, perché non vanno bene le cose, non vanno bene. Ho questa lunga vita dietro. Ho sognato, ho creduto di combattere per la causa giusta. La mafia è ancora qua, nascosta, anzi visibile ma non condannabile perché difficile, lo sai sì, si fanno pure eleggere. Non solo a Palermo, non solo in Sicilia, nel Sud e spesso contaminano anche il Nord, anzi lo hanno già contaminato. Non so su che cosa dovrei sperare, però non sono credente. Credo nell'archivio di quello che ho raccontato. E anche quest'altro punto interrogativo: che cosa succederà di tutto questo archivio, di tutto questo impegno, che cosa ne sarà quando non ci sarò più? Non lo vorrà nessuno. Per noi fotografi che abbiamo tanto documentato l'Italia è importante. Non sappiamo chi potrà curare questo materiale, divulgarlo. È un periodo di crisi, io però mi accingo a dirigere un centro internazionale di fotografia che sta nascere finalmente a Palermo. Non metterò nessuna mia fotografia in esposizione, voglio tuffarmi in questa nuova avventura. È uno spazio meraviglioso.



 


Anthologia, Drago, pp. 360, € 80,00


 

Parliamo di scelte. Hai fotografato sempre in bianco e nero?

Mi è capitato di fare fotografie a colori, ma poi le ho messe via. Ogni tanto arriva qualcosa. Non c'entra niente con me. Perché forse io sono un poco drammatica. Il colore banalizza, il bianco e nero ti permette di vedere cose che il colore non rivela. Pensa a un fiore, a colori ti sembra di una stupidità enorme e invece in bianco e nero acquista una sua autonomia, una sua autorevolezza che mi commuove di più. Qualche volta faccio dei corsi di fotografia. Ci metto l'anima, adoro la fotografia degli altri. E quando mi presentano il colore faccio fatica per giudicarlo e accettarlo, perché mi piace il bianco e nero.

 

E non usi il teleobiettivo, per essere sempre vicina a ciò che racconti.

Io non uso il teleobiettivo. Forse è anche uno stratagemma, non soltanto una cosa psicologica o di coraggio. Con il teleobiettivo le foto si assomigliano, non creo l'impatto e l'emozione tra me e l'altra persona. Con il teleobiettivo, stando a distanza, mi allontano da ciò che racconto. Io preferisco non usarlo. Ci sono fotografie bellissime fatte con il teleobiettivo, ma io non le faccio. Se io ho una bambina, le dico "guardami", oppure "non mi guardare", ma glielo devo dire! Al mafioso non gli dico niente, però pure i mafiosi li ho fotografati da vicino.



 


Storie di mafia, Postcart, pp.64, € 20


 

Che valore ha per te il viaggio?

Sarei stata una frenetica viaggiatrice. Ho tentato in tutti i modi, specialmente negli anni in cui lavoravo per il giornale L'Ora, ed ero veramente prigioniera per diciannove anni di una cronaca martellante, avrei voluto viaggiare di più. Il luogo dove avrei potuto fotografare con la stessa passione è New York, ma solo da quel lato delle strade complicate dove la vita è un po' più difficile. E poi io sono stata innamorata dei miei viaggi in Africa, fatti con pochi soldi, con pochi mezzi. L'Africa l'ho amata così tanto. Sono stata in Mauritania e lì ho visto la disperazione e la miseria. Poi nello Zaire e in Madagascar, però non quello dei ricchi, io sono stata al sud dove c'erano le tribù nomadi del mare, i Vezo. In Tunisia. Non ho grandissime foto anche se qualcosa metterò nella mostra al Maxxi. Non si può volare, andare in un posto, amarlo e derubarlo. E la Turchia, l'ho amata molto. Allora, venticinque anni fa, la gente era bella, le donne, mi ricordo come ridono le donne turche, una risata di gola, felice. E poi quando sono tra di loro, tutte scosciate, che fumano, meravigliose! Lontane dagli uomini. Non sono un'altra persona quando viaggio, voglio sempre le stesse cose. Se avessi avuto tempo sarei stata sicuramente un'ottima fotografa di viaggio. È un fallimento. I miei viaggi, le mie fotografie… posso considerarlo un piccolo fallimento, però con passione. Ho fatto un fallimento con passione! Sono stata in India poi, perché mia figlia Shoba vive sei mesi in India, ma non mi ha emozionato come l'Africa. L'Africa è incredibile. Bella, bellissima. Li trovo intelligenti, riflessivi, attenti alla politica, quei bambini che non urlano mai, non fanno capricci. E mi dispiace che vengano qua come poveracci e li guardiamo in un certo modo. Ho viaggiato molto, anche con Koudelka siamo partiti in camper. Con Koudelka siamo stati in Turchia, in Grecia, in Sardegna, in Corsica e in Nord Europa. Tanti anni, non tutti in una volta. Viaggiare con Josef, lui sì è un grande viaggiatore. È una persona meravigliosa. Lui è il grande, lo stimo anche come persona. Essenziale, asciutto, ma sa anche scherzare. Quello che è importante è come fotografa, l’impegno. È la sua anima che fotografa. Veniva a dormire a casa nostra per le feste di Pasqua o anche in estate. È venuto, forse per un decennio, forse anche di più. Il camper era mio e di Franco Zecchin. Mentre Franco guidava, perché Josef non guida, io preparavo il sugo per gli spaghetti. Meraviglioso! Tutto in pochi mesi. È stato molto bello viaggiare in camper, non spendere soldi, essere autonomi. In Egitto invece siamo andati da soli. È un'altra storia. Quindi sono stata anche una viaggiatrice, però con fallimento.



 


Chi è Letizia Battaglia


 

Inizia la sua carriera nel 1969 collaborando con il giornale palermitano L'Ora. Nel 1970 si trasferisce a Milano dove incomincia a fotografare collaborando con varie testate. Nel 1974 ritorna a Palermo e crea, con Franco Zecchin, l'agenzia "Informazione fotografica", frequentata da Josef Koudelka e Ferdinando Scianna. Nel 1974 si trova a documentare l'inizio degli anni di piombo della sua città, scattando foto dei delitti di mafia per comunicare alle coscienze la misura di quelle atrocità. Suoi sono gli scatti all'hotel Zagarella che ritraevano gli esattori mafiosi Salvo insieme ad Andreotti e che furono acquisiti agli atti per il processo. Diviene una fotografa di fama internazionale. Ma Letizia Battaglia non è solo "la fotografa della mafia". Le sue foto, spesso in un vivido e nitido bianco e nero, si prefiggono di raccontare soprattutto Palermo nella sua miseria e nel suo splendore, i suoi morti di mafia ma anche le sue tradizioni, gli sguardi di bambini e donne (la Battaglia predilige i soggetti femminili), i quartieri, le strade, le feste e i lutti, la vita quotidiana e i volti del potere di una città contraddittoria. Negli anni '80 crea il "laboratorio d'If", dove si formano fotografi e fotoreporter palermitani: la figlia Shobha, Mike Palazzotto, Salvo Fundarotto. Letizia Battaglia è stata la prima donna europea a ricevere nel 1985, ex aequo con l'americana Donna Ferrato, il Premio Eugene Smith, a New York, riconoscimento internazionale istituito per ricordare il fotografo di Life. Un altro premio, il Mother Johnson Achievement for Life, le è stato tributato nel 1999. Ha esposto in Italia, nei Paesi dell'Est, Francia (Centre Pompidou, Parigi), Gran Bretagna, America, Brasile, Svizzera, Canada. Il suo impegno sociale e la sua passione per gli ideali di libertà e giustizia sono descritti nella monografia delle edizioni Motta: Passione, giustizia e libertà (lo stesso titolo di una sua mostra recente). Dal 2000 al 2003 dirige la rivista bimestrale realizzata da donne Mezzocielo, nata da una sua idea nel 1991. Nonostante le sue radici profondamente siciliane, la Battaglia si era trasferita nel 2003 a Parigi, delusa per il cambiamento del clima sociale e per il senso di emarginazione da cui si sentiva circondata, ma nel 2005 è tornata nella sua Palermo. Nel 2008 appare in un cameo nel film di Wim Wenders Palermo Shooting (visibile al secondo 42 del trailer, ndr).





 

 

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