Maestri

A cura di: Antonio Politano

Henri Cartier-Bresson, lezione (continua) di fotografia

Per una volta, di Henri Cartier-Bresson, non sono le celebri immagini ma le stesse parole a guidarci all’interno del suo mondo, al cui centro - come lui stesso ha affermato - c’è l’uomo con la sua vita «così breve, così fragile, così minacciata». Il libro Vedere è tutto, nuovo titolo della serie Logos Lezioni di fotografia (Contrasto, pp. 178, euro 19,90), presenta una selezione delle migliori interviste rilasciate dal maestro dal 1951 al 1998. Di seguito, Sguardi riproduce l’introduzione di Clément Chéroux e Julie Jones e alcuni estratti dall’intervista di Daniel Masclet del 1951 e dalla conversazione con Alain Desvergnes del 1979. Le immagini, invece, saranno di nuovo protagoniste, a partire dal 26 settembre fino al 6 gennaio, al  Museo dell’Ara Pacis di Roma con la grande retrospettiva Henri Cartier-Bresson  a cura di Clément Chéroux, proveniente dal Centre Pompidou di Parigi, presentata a dieci anni esatti dalla morte del maestro. In esposizione oltre 500 tra fotografie, disegni, dipinti, film e documenti. Una nuova lettura dell’immenso corpus di immagini che Cartier-Bresson ci ha lasciato, le icone più importanti e le immagini meno conosciute. Non uno, ma diversi Cartier-Bresson: il fotografo, vicino al movimento Surrealista intorno agli anni Trenta, il militante documentarista della Guerra civile spagnola e della Seconda guerra mondiale, il reporter degli anni Cinquanta e Sessanta e infine, dagli anni Settanta, l’artista più intimista.
 


 

«Henri Cartier-Bresson diceva spesso di essere una persona visiva», scrivono Chéroux e Jones. «“Osservo, osservo, osservo. Sono uno che comprende attraverso gli occhi” scriveva nel 1963. Per tutto l’arco della sua vita, l’immagine è stata il suo linguaggio privilegiato. Anche se nel corso dei suoi reportage prendeva molti appunti, e ha sempre mantenuto un’assidua corrispondenza con le persone care, nel complesso ha scritto poco sulla sua pratica fotografica. Tra le opere pubblicate durante la sua vita, si contano appena quattro o cinque testi di suo pugno. Preferiva lasciare agli amici scrittori il compito di aggiungere parole alle sue immagini. L’Imaginaire d’après nature, raccolta delle sue prefazioni e articoli pubblicata nel 1996 dalle Éditions Fata Morgana, è uno smilzo volumetto che riunisce una ventina di brevi testi. Molto più che in questa manciata di scritti, è nelle interviste che si può oggi rintracciare in maniera più vivida il pensiero di Cartier-Bresson. Se c’è un ambito in cui il fotografo non è stato avaro di parole, è proprio questo. Da quando gli fu dedicata la personale al MoMA di New York nel 1947, e dopo che per tutta la seconda metà del XX secolo ha occupato una posizione di primo piano nel mondo della fotografia, rappresentando in Francia un vero portabandiera del riconoscimento artistico del medium, Cartier-Bresson è stato spesso sollecitato da giornalisti e studiosi. Quest’opera riunisce dodici interviste e conversazioni realizzate tra il 1951 e il 1998, periodo in cui il fotografo ha goduto della massima attenzione da parte dei media. Per la maggior parte, queste interviste non sono state più rieditate dopo la pubblicazione e di conseguenza sono difficili da reperire. Rivelano un Cartier-Bresson appassionante e appassionato, impegnato a parlare della sua fotografia, commentare lo stato del mondo e ricostruire il proprio percorso. Distribuiti nell’arco di quasi mezzo secolo, questi momenti discorsivi permettono anche di osservare l’evoluzione del pensiero del fotografo, che torna sulle sue affermazioni, cambia opinione, di tanto in tanto si contraddice. Offrono di lui un’immagine non cristallizzata nella leggenda, ma al contrario viva e mobile.
 


 

Da Un reporter... (intervista di Daniel Masclet, 1951)

Henri Cartier-Bresson: Certo, la fotografia è un mezzo di espressione, al pari della musica e della poesia. È il mio mezzo di espressione, e per me anche un mestiere. Ma al di là di questo, è il mezzo che ci consente, attraverso le immagini, di portare testimonianza... I fotoreporter...

Daniel Masclet: I grandi fotoreporter...

Se preferisce... Noi reporter non ci attacchiamo tanto alla prova estetica fine a se stessa: qualità, toni, ricchezza, materia, ecc. quanto al fatto che dall’immagine, prima di qualsiasi criterio estetico, emerga la Vita. La nostra immagine finale è quella che viene diffusa a mezzo stampa. Anche se i provini sono riusciti e mostrano una composizione impeccabile (e devono farlo per forza), non sono fotografie da esporre. Innanzitutto una immagine da esposizione non ha bisogno di parole, solo di un titolo, mentre le nostre hanno una didascalia, una legenda che non rappresenta un testo esplicativo, ma piuttosto un contesto verbale dell’immagine, che la incornicia... E siamo noi a scriverla, perché ci sia omogeneità di senso tra l’immagine e questo breve testo. Produciamo il testo per l’immagine, e non l’immagine per il testo. Questo vale per Robert Capa, per me, per Weegee, e altri...

Siamo d’accordo. Mi dica, qual è per lei il soggetto più importante?

L’uomo. L’uomo e la sua vita, così breve, così fragile, così minacciata. Grandi artisti come il mio amico [Edward] Weston, o come Paul Strand o [Ansel] Adams, che hanno un enorme talento, si dedicano soprattutto all’elemento naturale, geologico, il paesaggio, i monumenti. Io, invece, mi occupo quasi esclusivamente dell’uomo. I paesaggi sono eterni, io vado di fretta. Certo, ciò non vuol dire che separo in maniera arbitraria l’essere umano dal suo ambiente, che lo strappo dal suo habitat: sono un reporter e non un ritrattista di studio. Ma l’esterno (o “l’interno”) in cui quest’uomo, il mio soggetto, vive e agisce mi serve solo, diciamo così, come scenario significativo. Mi servo di questo scenario per collocarvi i miei attori, per dar loro risalto, trattarli con il rispetto che meritano. E il mio modo di agire è basato su questo rispetto, che è anche un rispetto della realtà: non fare rumore, evitare qualsiasi ostentazione personale, essere, per quanto mi riesce, invisibile, evitare di “predisporre” o “mettere in scena”, limitarsi a esserci, avvicinarsi pian piano, a passo felpato, per non smuovere le acque... 

Dunque, niente flash!

Ah, sì, questo è fondamentale. Non è quella l’illuminazione della vita. Non lo uso mai, non ho la minima voglia di usarlo. Atteniamoci al reale, atteniamoci all’autentico! L’autenticità è senza dubbio la più grande virtù della Fotografia.
 


Hyères. Francia, 1932. © Henri Cartier-Bresson/Magnum Photos-Courtesy Fondation HCB
 

Da Quello che conta è lo sguardo (conversazione con Alain Desvergnes, 1979)

Alain Desvergnes: Valéry diceva che bisognava scusarlo se parlava di pittura. Forse potremmo dire lo stesso della fotografia. È una cosa di cui bisognerebbe scusarsi di parlare. La cosa migliore è guardarla. Eppure non è così scontato.

Henri Cartier-Bresson: Infatti, non c’è niente da dire. Bisogna guardare, e guardare è così difficile. Noi siamo abituati a pensare. Riflettiamo tutto il tempo, in modo più o meno felice, ma nessuno ci insegna a guardare. È un processo lungo. Richiede parecchio tempo, imparare a guardare. Uno sguardo che pesa, che interroga.

Secondo lei questo sguardo, che non si riesce a puntare nel modo giusto, è deformato dalla vita che conduciamo oggi, dall’educazione che abbiamo ricevuto?

Senza dubbio! Siamo plasmati dal mondo in cui viviamo. È un mondo in cui le tensioni sono sempre più forti, in cui l’individuo conta sempre meno. Per me è un mondo suicida. Che si tratti del plutonio di sinistra o del plutonio di destra, è il plutonio quello che si trova davanti la vita, per il modo in cui vanno le cose. Esistono altri mondi possibili, ma come fare marcia indietro? Non ne ho idea. A me interessa un unico aspetto della fotografia. Ce ne sono tantissimi altri, ma ciò che mi commuove, che mi appassiona, è lo sguardo sulla vita, una specie di interrogazione perpetua e una risposta immediata. Quello che ha scritto Breton nei suoi Entretiens sul caso oggettivo mi sembra applicarsi bene a ciò che le persone chiamano fotogiornalismo, reportage, Dio sa quanti nomi gli si possono dare! Questo tipo di fotografia è qualcosa di intuitivo, che aderisce alla realtà e sgorga dal profondo di se stessi; non si tratta di imporsi. [René] Char da qualche parte ha scritto, a proposito della poesia, che ci sono quelli che inventano e quelli che scoprono. Sono mondi del tutto diversi. Anche in fotografia ci sono questi due aspetti. Io mi interesso soltanto a quelli che scoprono; mi sento solidale con quelli che vanno alla scoperta; questo comporta molti più rischi che cercare di creare le immagini dal niente; in fondo la realtà è già così ricca!

Pensa che si possano considerare le sue fotografie, attraverso gli anni, come altrettante domande che ha rivolto al mondo, all’ambiente, agli esseri umani, alle cose?

Non ho spiegazioni da dare. Le mie foto sono lì, io non le commento, non ho niente da dire. Si parla fin troppo, si “pensa” troppo. Ci sono scuole per qualsiasi cosa, dove si impara di tutto e alla fine non si sa niente, non si sa niente di niente. Non esiste una scuola per la sensibilità. Non esiste, è impensabile. Ci vuole un certo bagaglio intellettuale. Non parlerei di “cultura”... ma di arricchirsi lo spirito e di vivere. La cosa meravigliosa nella fotografia intuitiva, la fotografia dal vero, è la reazione personale, questa reazione vitale, per cui sei fino in fondo te stesso e allo stesso tempo ti dimentichi di te stesso per interrogare la realtà o per cercare di comprendere. 

Quindi queste foto sono state per lei, come si dice stupidamente, fonti di cultura. Sono qualcosa che l’ha formata.

La cultura, l’arte... non so. Ho vissuto. La cosa davvero importante è vivere intensamente, è l’intensità della vita. In questo momento c’è una segregazione spaventosa, si dice: “i giovani”, “i vecchi”, perché non anche “i fotografi ciechi”! È un mondo alla rovescia! E questo si riflette più o meno su qualsiasi cosa. Nessuno è puro, siamo tutti coinvolti in questo mondo, anche se lo rifiutiamo.
 


Dietro la stazione Saint-Lazare, Parigi, 1932.
© Henri Cartier-Bresson/Magnum Photos-Courtesy Fondation HCB
 

Pensa che lo sguardo sia una forma di riscoperta?

La vita. È la vita, lo sguardo, sì. Ormai fanno fare dei calcoli a chiunque, credono che la scienza sia al di sopra di tutto; persino un conservatore di museo deve essere un matematico. Ma esistono altri mezzi di conoscenza. La pittura è un mezzo di conoscenza, la poesia è un mezzo di conoscenza, la fotografia è un mezzo di conoscenza, non esiste solo la scienza. Al momento, le applicazioni della poesia non provocano danni all’uomo, mentre certe applicazioni della scienza... Guardi il pantano in cui ci siamo infilati...

Mi sembra che il ritmo svolga un ruolo importante nelle sue immagini.

Il ritmo è in sostanza un certo ordine plastico. Io amo la pittura al di sopra di tutto. Ho studiato presso un ottimo pittore amico di uno zio che era stato ucciso nella guerra del 1914, e ho iniziato a dipingere a quindici anni. La mia ossessione è sempre stata la pittura, e oggi pratico il disegno e la fotografia. Sono mezzi di espressione visiva come altri. Un tempo, nel Medioevo, un tamburino poteva fare il cantante o suonare la viola, mentre adesso siamo tutti specializzati. È un mondo di specialisti, di tecnici.

Il disegno mi sembra aiutarla molto, a lei piace praticare il disegno.

Ora sì, da sette anni disegno molto, mi sto concentrando su questo. Non c’è alcun rapporto tra il disegno, la pittura e la fotografia, a parte lo sguardo; per me quel che conta è lo sguardo, ma il fatto che ci si serva di uno strumento piuttosto che di un altro ha delle conseguenze. Niente di quello che si fa è indifferente, e questo nervosismo, che è necessario per fotografare dal vivo, nel disegno mi disturba. Il disegno è una pratica lenta. Bisogna saper andare molto piano per poter andare veloce.

È un buon contrappasso per lei questa lentezza del disegno rispetto alla rapidità della fotografia?

Sì, certo, permette di rimettermi in gioco e non fare sempre la stessa cosa. Ognuno ha la sua sfida. La mia è andare più lontano di quanto ho già fatto. 

Le sue fotografie sono un suo contributo al mondo moderno, alla visione che ne ha lei.

Non saprei. È come quando si corre, quando si suda. Vivo e faccio questa cosa. Non lavoro nel settore immobiliare, non sono un agricoltore. Non so fare niente. 

Ma rispetto ai suoi esordi negli anni Trenta, oggi molti fotografi, e senza dubbio grazie a lei, hanno iniziato a fotografare il mondo.

Anch’io ho diversi padri. [Martin] Munkacsi, [André] Kertész, Brassaï mi hanno preceduto. Sono stato segnato anche dall’atteggiamento del surrealismo rispetto alla vita - non dall’aspetto plastico del surrealismo, ma dalla concezione di vita dei surrealisti, la concezione di Breton.

Cosa pensa oggi quando vede queste migliaia di fotografi? Credo che ogni anno nel mondo vengano sviluppate dodici miliardi di fotografie.

C’è sempre più gente al mondo, e sappiamo il numero di centimetri quadrati che ognuno avrà a disposizione fra un secolo; è un problema di quantità. Sono cose che si sentono a livello intuitivo. Ma lascio questo tema ai sociologi, il mio sguardo mi porta altrove. Eppure in fondo credo che siamo tutti sociologi dilettanti o psicanalisti dilettanti, perché tutti siamo coinvolti in questi problemi. 

Ma questi dodici miliardi di fotografie sono una cosa positiva?

Io non penso alla fotografia. Non ci penso mai. Non ci penso, scatto, è diverso. Penso alla vita, penso alla forma, penso a quello che mi diverte, quello che mi sconvolge.

 

Chi è

Henri Cartier-Bresson nasce nel 1908 in Francia. Dopo il liceo si avvicina al surrealismo e studia pittura con André Lhote. Parte nel 1930 per la Costa d’Avorio e al ritorno comincia a fotografare. Nel 1934 è in Messico e nel 1935 negli USA, dove si occupa di cinema. Torna in Francia nel 1936-39 come assistente di Jean Renoir. Nel 1940 viene imprigionato dai tedeschi e nel 1943 evade. Partecipa alla Resistenza. Nel 1946 è negli USA per la mostra postuma che il MoMA gli aveva dedicato credendolo disperso. Nel 1947 fonda la Magnum. Parte per India, Cina e Indonesia. Nel 1954 è il primo fotografo ammesso in URSS. Viaggia in Cina, Cuba, Messico, Canada, Giappone. Nel 2000, con la moglie e la figlia crea la fondazione Henri Cartier-Bresson. Muore nel 2004.
 

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