Derees, la doppia anima della Mongolia

A cura di: Diletta Bianco , Luca Privitera

video realizzato con Nikon D300S, regia Pierre Ponchione, D.o.P. Daniele Ferrero
 

Filmakingfarm e il suo film tra steppa e deserto

Una vecchissima moto russa ci sfreccia davanti agli occhi mentre procede lungo la sua rotta ma faccio in tempo ad osservare qualche dettaglio e a sorridere: non tanto per il marmittone che devono aver raddrizzato a suon di martellate o per il solito ritaglio di tappeto che copre il sellino, nemmeno perché sopra viaggiano in due e da queste parti l'idea del casco non è minimamente contemplata. No, quello che mi ha colpita è il grosso fagotto di lana di pecora che la signora regge con una sola mano, perché anche se non è la pecora in carne ed ossa potrebbe benissimo esserlo e viaggiare sulla motocicletta assieme a loro: in Mongolia non c'è da stupirsi di nulla.

Luca Privitera

Da quando siamo sbarcati qui ho visto immagini e situazioni che sembrano appartenere non ad un altro paese ma ad un altro pianeta. Direi però che l'impressione è reciproca, perché anche i nomadi mongoli ci studiano con intensa curiosità, soprattutto quando cominciamo a tirare fuori dai borsoni tutta la nostra attrezzatura per le foto, per le riprese e, naturalmente, per il volo in paramotore; appena ci fermiamo in un villaggio, o in un accampamento di pastori, Pierre e Daniele reclutano, senza dover nemmeno fare lo sforzo di chiamare, uno stuolo di assistenti al di sotto dei dieci, dodici anni, che si affollano attorno al cavalletto per sbirciare dentro al monitor. Se rivolgi l'obiettivo verso di loro, in genere partecipano a quello che probabilmente ritengono un gioco e sono in pochi quelli che si ritraggono per timidezza, perlopiù scappano da Luca che con il suo tele risulta forse un po' troppo invadente.

Luca Privitera

Per una volta nella vita mi fa piacere pensare che il fenomeno da baraccone siamo noi occidentali che, in dieci, ci muoviamo con due enormi Toyota Land Cruiser, carrelli appendici carichi al seguito e bagagli fin sopra al portapacchi, mentre da loro una famiglia di tre generazioni condivide per tutta la vita una gher di venticinque metri quadri, poco più o poco meno, in cui c'è tutto e in cui ci stanno tutti. Se è una famiglia, come dire, “benestante”, allora c'è una seconda gher accanto alla prima, che serve da magazzino e da dormitorio per i più giovani.

Luca Privitera

Sono ospitali i nomadi, davvero ospitali, e il fatto di lasciar loro qualche dollaro per compenso dopo che te ne sei andato, non modifica affatto la realtà delle cose, né la percezione che hai di loro. Sarà perchè è un valore sacro come in tutte le culture ancestrali, sarà perché hanno chiaro il concetto che rifiutare l'aiuto e la condivisione delle risorse ad un viaggiatore in panne può significare grossi guai, nel caso peggiore anche la morte, ma tutte le gher sono sempre aperte ad ogni ora del giorno e della notte, per chiunque. Ed è strabiliante, quasi inconcepibile. Tanto per chiarire, voglio provare ad immaginare come reagirebbe una signora che abita in una casa privata, e un tantino isolata, nelle nostre campagne, se verso le due del pomeriggio arrivassero alla sua porta dieci stranieri, che nemmeno parlano la sua lingua, chiedendole di poter mangiare nella sua cucina.
In Mongolia questo è accaduto più di una volta e la signora in questione semplicemente ha tirato fuori le sue scodelle non troppo pulite, le ha strofinate con uno straccio quantomeno discutibile e poi si è fatta da parte lasciandoci a disposizione tutta la sua gher, ovvero tutta la sua casa.

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Meglio ancora, nell'estremo sud del Gobi, dove davvero non c'è quasi nessuno –è la zona più scarsamente abitata del pianeta- siamo piombati che era già praticamente buio e con una mezza tempesta di sabbia in corso, presso una famiglia che possedeva tre gher e un gabbiotto di latta, chiedendo di poterci fermare a dormire da loro, perché era impensabile mettersi a montare le nostre tende da campeggio. In un attimo sono spariti tutti, e ancora oggi mi chiedo dove e come abbiano trascorso la notte: nella baracca di latta? Nella decrepita Uaz parcheggiata dietro? Da qualche parente un po' di dune più in là? Eppure, per chilometri e chilometri, in tutte le direzioni, non si scorgeva anima viva a parte noi.

I due piloti di paramotore che hanno affrontato assieme a noi il viaggio, e che hanno volato sopra la steppa e sopra al deserto, sopra ai branchi di cavalli selvatici in corsa e sopra alle falesie fiammeggianti, potranno raccontare quale immenso e inesprimibile senso di libertà abbiano provato sollevandosi in aria in quegli spazi illimitati e senza ostacoli, senza barriere, senza punti di riferimento. Per me invece la libertà è stata il non trovare nemmeno una sola abitazione dotata di una serratura con cui barricarsi all'interno, giusto un cricchetto o un cordino per tenere chiuso, affinchè il vento imperversante non spalancasse le porte durante la notte. Libertà di sentirsi al sicuro.

Luca Privitera

Eppure non è facile da digerire perché si può divenire facili prede di solitudine, monotonia, silenzio, desolazione; la Mongolia è un paese che ti entra nell'anima se sei disposto a mettere alla prova i tuoi limiti o, meglio ancora, se riesci a lasciarli all'aeroporto; la Mongolia ti chiede di spogliarti di tutta la zavorra, di rinunciare al superfluo, di riscoprire l'essenzialità dell'esistenza. Allora, per tre settimane almeno, ho potuto gettare alle ortiche le buone maniere –ma non l'educazione e il rispetto- e quella pellicola di schizzinosità che noi figli dell'igiene e dei disinfettanti ci portiamo appresso: mi sono sentita pienamente appagata della parte più arcaica di me, quella parte selvatica e quasi rudimentale che ha a che fare con la sopravvivenza, con le forze naturali, con gli albori della vita sociale. Dopo qualche giorno, smette di aver importanza l'essersi lavati le mani prima di mangiare o l'avere condiviso la toilette con le capre. Salvo poi accorgersi di viaggiare con l'aria condizionata, perché il deserto ti accoglie con i suoi quaranta gradi, e con il giubbotto hi-tech, ridimensionando così tutto il romanticismo e sperimentando il senso del contrasto.

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In Mongolia i contrasti sono davvero tanti, imbarazzanti, feroci, al limite dell'assurdo. Come vedere nel più sperduto angolo del deserto una ragazza con i collant neri e i tacchi a spillo nel primo pomeriggio, o una bellissima ventenne mongola vestita come una velina della tv che, accovacciata in mezzo alla polvere, lava a mano i panni dei turisti in una bacinella di plastica e ti racconta che sogna di andare a studiare in Corea per scappare da lì e fare una vita migliore. Ma dove li ha visti quegli shorts e quella cintura? Dove li ha comprati? Capisce un po' d'inglese, sua madre invece studiava il russo a scuola e, forse, sta allacciandosi il del prima di venirci incontro. Le distanze generazionali sembrano amplificate all'ennesima potenza rispetto a quanto accade da noi ma pare che non ne provino fastidio, la convivenza della diversità e l'accettazione di essa sembra essere molto più semplice, sia che si parli di costume come di religione. Lo stupore è tutto nostro ma è anche irreale, da finti ingenui, perché le parabole montate dietro alle tende ci dicono che non sanno cosa farsene del forno o del frigorifero ma che la televisione piace anche a loro. E che ci guardano.

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Nella capitale invece il contrasto maggiore, quello che salta subito all'occhio, è basato su meri fattori economici, sul reddito. Devi essere più che rapido ad attraversare la strada e a scansarti per non essere investito da suv enormi, di ultima generazione e superlusso ma poi ti volti di soprassalto a causa di un botto che sembra l'esplosione di una bomba, invece è il cofano di un'automobile del dopoguerra che fuma e tossisce ma, chissà in quale modo, dopo due calci riparte.
Se ti senti afferrare per un polso o per un ginocchio, puoi essere certo che si tratta di un orfano o di un bambino fuggito di casa che vive nei tombini dove transitano i grossi condotti del riscaldamento cittadino; sporco come un sorcio, con cui condivide risorse e stile di vita, vorrebbe solo trovare qualcuno da seguire fino a casa, per riempirsi la pancia e per restarci.

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A dire il vero questa piaga non sarebbe nemmeno così purulenta se affrontata, dato che questi bambini non sono così tanti e, da quello che abbiamo visto viaggiando, immagino che per le famiglie nomadi avere una bocca in più da sfamare non sarebbe una grande differenza: sempre due braccia in più per mungere il gregge. Di sicuro è più facile sigillare i tombini, così è proprio quello che sta accadendo. D'altra parte, bisognerebbe essere senza peccato per scagliare la prima pietra e non sono affatto convinta che gli europei -e noi turisti- possano vantare una coscienza immacolata.
Al di là di questo, il contrasto più forte di tutti, quello che ti porti via e che contiene indubbiamente tutti gli altri, quello che dal finestrino dell'aereo che decolla vedi talmente bene da non potere ignorare, è l'immane estraneità della capitale, grigia e anonima, rispetto a tutto il resto della nazione, come uno squarcio netto e preciso su una tela di Fontana. Ulaan Baator, così priva di personalità perché decisa a scopiazzare le metropoli internazionali, non essendo dotata di lunga storia propria ma al contempo incapace di abbandonare il retaggio nomadico, così fredda e poco invitante perché troppo velocemente in crescita attorno ad un'unica piazza centrale e con uno stuolo di malconci palazzi soviet da contraltare…

Luca Privitera

Però, dove termina l'ultimo blocco di cemento e dove si perde l'ultima gher resa grigia dai fiumi nocivi delle ciminiere, comincia immediatamente la steppa senza alcuna soluzione di continuità con la città e, guardando verso quell'infinito verde che tutto attorno, sono sicura che non c'è mongolo alcuno che non si senta davvero a casa.

 

Per info:
info@filmakingfarm.it | www.iperboreus.it
 

Luca Privitera
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