Una luce per gli ultimi

A cura di: Matteo Biatta

Mi chiamo Matteo Biatta e vivo a Brescia dove, dal 2005, lavoro come fotografo, il lavoro più bello del mondo.

Ho lavorato spesso in ambito sociale e a marzo 2014 ho avuto l'opportunità di viaggiare in Africa, fra Togo e Benin, per un lavoro commissionato dall'azienda ospedaliera Fatebenefratelli di Milano.
Ad Afagnan e Tanguiéta, rispettivamente nel sud del Togo e nel nord del Benin, ci sono due ospedali fondati alla fine degli anni sessanta, unica ancora di salvezza per gli abitanti dei due stati, tra i più poveri di un continente flagellato dalla fame e dalle malattie.

Sono atterrato a Lome l'8 marzo e il giorno dopo mi sono trasferito ad Afagnan, dove ho passato la prima settimana: l'impatto con il contesto è stato impegnativo e al di là della questione emotiva, ho dovuto prestare attenzione all'approccio con i soggetti da fotografare.
Infatti i problemi sono stati molteplici: per prima cosa si fotografano persone che soffrono e che non sono ben disposte a mostrare lo stato disperato in cui versano. Il secondo motivo è legato al fatto che non sopportano di essere fotografati per profitto. Non vogliono cioè che la loro sofferenza sia un mezzo da utilizzare per guadagnare soldi una volta tornati in Europa.

Chiaramente in quel contesto è stato spiegato loro che ero lì per realizzare un lavoro che facesse conoscere in Europa la situazione in cui vivono e il grande lavoro svolto dall'U.T.A. Onlus, l'associazione che si occupa di sostenere gli ospedali.

Il lavoro è durato ventisei giorni, nei quali sono stato accompagnato da una robustissima e inarrestabile Nikon D3s, da un AF-S NIKKOR 24-70mm f/2.8G ED e in poche altre occasioni da un AF-S NIKKOR 17-35mm f/2.8 D.

Prediligo le ottiche grandangolari perché costringono ad avvicinarsi al soggetto, a instaurare un dialogo con lui. La fotografia rubata non fa per me. Nei miei lavori ho sempre parlato prima di scattare, ho sempre cercato di investire del tempo conoscendo le persone di cui dovevo raccontare la storia.

Tra di loro, in Africa, ho trovato mamme che avevano perso i figli, bambini con patologie gravissime che non hanno mai pianto, uomini portati in ospedale dai parenti dopo aver percorso più di 300 km a dorso d'asino. Tutti avevano sempre una parola di speranza, tutti vedevano gli ospedali di Afagnan e Tanguiéta come la luce in fondo al tunnel, come l'ultimo lumicino di speranza in mezzo a tanto dolore.

Ho passato molto tempo anche tra i parenti dei pazienti che vivono all'interno dell'ospedale durante il periodo di degenza dei loro cari. Data l'assoluta povertà non hanno infatti la possibilità economica per alloggiare nelle pochissime strutture alberghiere presenti nel raggio di decine di chilometri.

Dal punto di vista professionale, ho portato a casa un bagaglio di 15.000 immagini da cui ne sono state selezionate trenta, diventate una mostra esposta a Brescia e in vista di essere portata altrove in un futuro prossimo.

Proprio per una questione di rispetto nei confronti di chi mi ha accolto come un fratello, e si è messo a nudo di fronte all'obiettivo senza paura, abbiamo stampato il catalogo della mostra che viene venduto dietro offerta minima e grazie al quale possiamo aiutare l'associazione U.T.A. Onlus.

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