Occhi sul mondo

A cura di: Michele Dalla Palma

Prospettive, movimenti, luci, rumori, ritmi, consuetudini e odori di una qualsiasi delle nostre città, in un qualsiasi angolo del nostro mondo “civilizzato”, costituiscono un insieme di schemi e scenografie che riconosciamo, sappiamo decifrare e codificare, perché fanno parte dei nostri pensieri e delle nostre certezze.
Divinità e feticci quotidiani attirano, abbagliano e rassicurano dalle vetrine dei megastore, dei centri commerciali, delle “shopping street”. Sono rappresentazioni di un benessere condizionato da immagini e modelli imposti, da quell’obbligo a consumare che caratterizza, sostiene e delimita la nostra realtà.
Circondati di una gigantesca muraglia di prodotti, la sosteniamo attraverso l’ideologia di una modernità e di un progresso senza fine, arrivando fino a concepire il mondo come “virtuale”. Un’immensa bolla che alimenta, mantiene e protegge la nostra civiltà, che abbiamo creduto impermeabile a qualsiasi altro modo di intendere la vita.

Ma crepe sempre più evidenti incrinano questo scudo a difesa della nostra realtà dalle altre molte realtà che animano il resto del mondo. Lenti ma inesorabili, virus culturali provenienti da orizzonti alieni sono penetrati nella perfezione illusoria della nostra quotidianità. Alcuni di questi virus si sono serviti di straordinarie e sconosciute alchimie, appartenenti a epoche primordiali, e sono capaci di contaminare l’immaginario e la fantasia. Basta allora prendere un aereo, fantastica macchina del tempo e dello spazio, per ritrovarsi in altre realtà, capaci di scuotere le nostre sicurezze preconfezionate.

Per me, uomo di montagna, cacciare sogni tra rocce e ghiaccio delle grandi vette è stata la giustificazione più facile. Poche cose in uno zaino e la voglia di inseguire un’avventura, alla ricerca di conferme, nel mondo reale, di storie già vissute nella fantasia.

Ho scoperto la vertigine di conquistare lo spazio, un centimetro alla volta, sulle pareti strapiombanti delle Dolomiti, accarezzando le rughe della roccia fino a quando le dita, senza più energia, si rifiutavano di stringere ancora. Ho imparato ad ascoltare il respiro del vento, la voce della notte e dei boschi accarezzati dalla neve. Ho capito l'insensatezza di sfidare le rocce e i temporali, la valanga o la corrente di un fiume... ma anche del credere di poter condizionare le stagioni, forzare la natura rubando spazi al mare, costruire città nei letti dei fiumi o sulle falde dei vulcani.


Illusione di onnipotenza, delirante tentativo di sconfiggere con l'apparenza il tempo, i mostri e le angosce che perseguitano l'uomo. Straordinario concentrato di sogni e fantasie rinchiuso in un corpo troppo fragile ed effimero.
Nei miei vagabondaggi spesso mi riconosco, nel sorriso di un bimbo, negli occhi di una donna, nelle rughe di un vecchio, o nell’immobile verità di un orizzonte.

Allora scoppia nei pensieri il desiderio di impossessarmi di quell’attimo, farlo mio, per sempre, congelandolo in un’immagine, rubandolo al tempo... perché la memoria e i ricordi troppo spesso sono bugie.
In questo pensiero, costruito e chiarito in infiniti sguardi, è raccolta e descritta la mia passione per la fotografia. Intesa, sempre, come mezzo per catturare la realtà, mai per manipolarla.
La fotocamera un magazzino dove stivare idee, emozioni, istantanee già immaginate nei pensieri.
Mai nulla accade per caso e fortuna.
L'ho imparato dal nonno cacciatore quand'ero bambino. Devi conoscere l'essenza delle cose e praticare l'arte dell'attesa. Per prendere il cervo o il lupo devi imparare tutto del suo essere. Devi diventare come lui. Sapere come e dove vive, tempi e ritmi della sua vita, carattere, abitudini, emozioni, certezze e paure. Solo allora potrai sperare di sorprenderlo, nel punto esatto dov'è puntato il tuo mirino.

Ho imparato ad usare così la macchina fotografica.
E detesto, profondamente, quei “colleghi” capaci di andare a sistemare un bambino mentre succhia il latte dalla madre, per renderlo “fotogenico”, o mettere in posa vecchie incapaci di comprendere l'intrusione violenta di uno straniero nella propria realtà, altri ancora usare la macchina fotografica come un mitragliatore che tanto, tra tante, “quella buona c'è”.
Magari si, ma non apparterrà mai a chi l'ha rubata.

Sono cresciuto misurando ogni scatto, fedele alla regola “ogni colpo un centro”. Aspettando e respirando lentamente, dopo aver trovato la postazione, per rallentare anche la realtà e attendere un protagonista dentro la scena costruita.
I colori sono il filo logico che unisce i pensieri, guardando il mondo, e ai colori ho dedicato questo breve viaggio negli occhi del mondo.

SCHEDA DEL LIBRO
OCCHI SUL MONDO - SULLE TRACCE DEI GRANDI ESPLORATORI ITALIANI
volume fotografico di grande formato (34x24), 256pp a colori, ed. Hoepli novembre 2012 – Euro 49

Trent’anni di vagabondaggi nei luoghi più sperduti del pianeta sono raccolti in questo volume che segue un filo conduttore insolito: ripercorrere le tracce di esploratori e avventurieri italiani, di ogni epoca, famosi o sconosciuti, che hanno però lasciato una traccia indelebile nella storia delle scoperte geografiche del pianeta.
Ammalati di esterofilia, e affascinati dai racconti dei grandi esploratori anglosassoni e francesi, semplicemente e soltanto più “bravi” nel vendere le proprie imprese, ignoriamo che molta parte delle scoperte geografiche che hanno cambiato la storia del nostro pianeta si devono a uomini partiti da borghi grandi o piccoli del nostro paese, in epoche lontane, che sono riusciti ad arrivare ai confini del mondo conosciuto, aprendo nuove frontiere e fissando nuovi confini.

Tutti conoscono Marco Polo o Cristoforo Colombo, ma chi ha mai sentito parlare di Niccolò De Conti, anch’egli veneziano, che nel XV secolo, in un viaggio durato trent’anni, arrivò fino alle coste del Borneo, tracciando carte e mappe che sarebbero poi servite ai grandi navigatori dei secoli successivi – da Colombo stesso a Magellano – per ridisegnare la geografia del Mondo?
E che dire dell’umile sacerdote Ippolito Desideri, che nel 1700 percorse le valli himalayane arrivando a Lhasa, divenendo un profondo conoscitore del popolo tibetano – scrisse anche alcuni libri in quella lingua – e preconizzando, con tre secoli di anticipo, il dominio cinese su quell’area?

Il ruolo di Venezia, dal XIV al XVII secolo, fu invece di autentico fulcro del mondo, riuscendo a catalizzare sulla città lagunare ogni genere di rotta commerciale. Ancora alla metà dell’800, il veneziano era la lingua franca in tutta l’area del Mediterraneo e del Medio Oriente.
Le grandi scoperte del Romanticismo, nel XIX secolo, hanno avuto come protagonista l’Africa e gli impeccabili gentleman inglesi, che grazie alla potenza economica e divulgativa della Royal Geographical Society hanno potuto divulgare le entusiasmanti avventure nel Continente Nero, che hanno suggestionato molte generazioni di sognatori.
Ma quanti sanno che ogni percorso “scoperto” da personaggi del calibro di Livingstone, Stanley, Clark, era già stato in qualche modo tracciato da sconosciuti avventurieri italiani, e piemontesi in particolare?


Mentre la nostra nazione incominciava a definirsi come la conosciamo, uomini in cerca di avventura, ma non solo, lasciarono le certezze per affrontare l’ignoto di un continente ancora in gran parte sconosciuto. Non per caso il mondo ci invidia un personaggio come Emilio Salgari, secondo solo a Jules Verne nell’immaginare mondi che solo molto tempo dopo sarebbero stati svelati. Ma per inventare e costruire le sue avventure letterarie, lo scrittore veneto/piemontese – che mai viaggiò al di fuori della pianura padana - dovette necessariamente attingere ai racconti di personaggi quali Franzoj, Bòttego, Gessi e molti altri.
Tra il 1840 e il 1860, gli italiani sono gli unici europei a viaggiare sistematicamente nelle regioni del Centroafrica, innanzitutto con l’obiettivo di evengelizzare popolazioni tribali che, all’epoca, ma in qualche caso ancora oggi, vivono ancora ferme nel Neolitico.

Nel 1842 i primi missionari italiani inviati dal papa Gregorio XVI si spinsero in territori sconosciuti, inaugurando l’epopea delle “esplorazioni evangeliche” italiane, entrando in contatto con le popolazioni Dinka, Shilluk e Bari, nell’attuale Sudan. Nel 1854 padre Giovanni Beltrame risale il Nilo Azzurro; dal 1857 il grande missionario-esploratore Daniele Comboni esplorò i territori del Golfan e del Kardofan, fino ai Monti Nuba, realizzando anche la cartografia di queste regioni. Nel 1856 – due anni prima della spedizione dell’inglese Speke che viene considerato lo scopritore del Lago Vittoria da cui nasce il Nilo – Carlo Piaggia superò le immense paludi di Gondokoro e Rejaf, e nel 1876 sarà il primo occidentale, insieme a Romolo Gessi, ad ammirare il massiccio innevato del Ruwenzori, come verrà battezzato solo dodici anni dopo, nel 1888, da Stanley che ne rivendicò la scoperta, disconoscendo l’opera degli esploratori italiani.

L’ultima frontiera delle scoperte geografiche, agli inizi del secolo scorso, sono state le solitudini australi, e un altro italiano, dal nome altisonante, colui che le ha raccontate in modo scientifico e pragmatico: Alberto Maria Deagostini, a cui si deve l’esplorazione sistematica dell’estremo sud dell’America meridionale.
Ancora oggi, in molte di queste zone la quotidianità, gli orizzonti, i panorami, le persone sono le stesse incontrate e descritte da questi grandi esploratori e viaggiatori, basta saper guardare oltre lo specchio dell’apparenza.

Questo vuole essere l’obiettivo di OCCHI SUL MONDO, corredato, oltre che dalle immagini, dal racconto sintetico di grandi e piccole imprese del passato e da spunti e osservazioni dell’autore.

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