Uno still-life creativo iniziato tra i campi di radicchio e successivamente esteso ad altri ortaggi e verdure, fino ad arrivare in cucina.
Che uomo e fotocamera vedano in maniera diversa è un dato di fatto. Tante sono le situazioni in cui ho sofferto per l’impossibilità di fotografare un soggetto, altrettante per non riuscire a fotografarlo esattamente così come lo stavo vedendo.
Limitata profondità di campo, prospettiva, capacità di congelamento del movimento, riprese con scarsa illuminazione, sono solo alcuni degli aspetti in cui le differenze tra vista umana e riprese fotografiche si amplificano e i risultati divergono in maniera sostanziale.
La tecnologia ha fatto molti progressi e qualche distanza è stata ridotta, ma certe caratteristiche e specificità rimangono inalterate. E per fortuna, aggiungo.
Nel tempo, infatti, ho imparato che queste diversità potevano essere utilizzate per le loro potenziali possibilità creative. Non più limiti, ma peculiarità proprie della fotografia che ancora oggi continuano ad affascinarmi e stimolarmi in svariati processi di sperimentazione e che hanno contribuito, e non poco, a caratterizzare il mio personale percorso.
“Che cavolo è” titolava Focus nel 2006, emblematica presentazione dei miei scatti di radicchio, carciofi, zucchine, rape rosse, perfino di un soffritto di verdure… Foto delle quali si svelava l’identità solo alla fine dell’articolo. Cibo, cibo per gli occhi e per la mente. Immagini che lasciano libertà… d’immaginare!
Uno still-life creativo iniziato tra i campi di radicchio e successivamente esteso ad altri ortaggi e verdure, fino ad arrivare in cucina.
Soggetti nella cui essenza ho cercato il valore aggiunto di una bellezza pura e assoluta, di un equilibrio e di un’armonia che solo la natura è in grado di dipingere. Improbabili paesaggi, pittoriche tavolozze realizzate grazie ad accurati controlli di luci e illuminazioni, ricerca quasi maniacale del colore, grafica e minimalismo formale.
Ho provato ad affrancare i soggetti dal concetto di alimento per trasformarli in preziosi, ma quotidiani, astrattismi naturali.
Tra i miei ricordi più belli il ringraziamento di un agricoltore e di sua moglie, in lacrime dopo una proiezione, lacrime di orgoglio per un lavoro che sempre avevano creduto tra i più umili, ma che quella sera e per la prima volta vedevano con occhi diversi. E lacrime di nuova consapevolezza, consapevolezza di coltivare un prodotto che sapevano buono e naturale, ma che a loro dire mai avevano visto né mai immaginato anche così bello.
Ricordo che la prima volta ne sono rimasto sorpreso e oltremodo lusingato. Riscontri che negli anni si sono susseguiti e di cui vado particolarmente fiero. Testimonianze e ringraziamenti di persone che affermavano di non mangiare più le verdure come le consumavano prima: “Paolo, ogni volta che troviamo del radicchio nel piatto vediamo le tue foto, e ora non gustiamo più solo un radicchio buonissimo, ma anche qualcosa di prezioso, artistico e incredibilmente bello…”.
Credo, e più che mai di questi tempi ne sono convinto, che il mondo abbia bisogno anche di bellezza.
E la bellezza ce l’abbiamo davanti agli occhi tutti i giorni, sulle nostre tavole. Basta saperla vedere.
Vedere e apprezzare, come una buona bottiglia di vino, che in tavola raramente viene a mancare.
L’incontro col signor GB, produttore di Prosecco al quale avevo proposto il mio portfolio, ha segnato un’interessante e significativa ulteriore svolta nel mio modo di fotografare e di utilizzare la fotografia. Di tutto il mio lavoro a GB interessavano solo gli scatti macro: innovativi ed emozionali. Stuzzicato da questo selettivo interesse e dalla possibilità di avviare un’interessante collaborazione, ho cominciato a concepire l’idea di raccontare la storia del Prosecco, uva e vino, nella sua interezza.
Un racconto che si sarebbe dovuto sviluppare completamente con uno stile non documentaristico, pittorico e astratto.
Una storia che raccontasse il territorio, le stagionalità, le lavorazioni in vigneto e in cantina, gli aspetti sensoriali del vino e quelli anche molto tecnici della vinificazione senza mai far “troppo vedere”. Suggerire piuttosto che documentare. Doveva essere una storia narrata a fior di labbra, sussurrata. Emozionale e tecnica allo stesso tempo… Una bella sfida!
Ho impiegato un paio d’anni per realizzare il mio racconto. Un periodo affascinante e molto impegnativo di sperimentazione fotografica, ma non solo.
La fotografia così mirata diviene anche un potente volano di approfondimento. Per raccontare devi prima documentarti, devi conoscere, devi programmare, devi individuare tutti gli aspetti fondamentali e quelli imperdibili. E tutti significa tutti. Ti ritrovi perciò “costretto” a fotografare anche ciò che in apparenza ti pare meno fotogenico, situazioni che, con valutazione superficiale prettamente estetica, avresti scartato a priori, forse nemmeno viste.
Da tempo ho imparato che sono proprio le situazioni più difficili quelle che ti costringono a meditare e che t’impongono un grande sforzo creativo. Ma sono anche quelle che alla fine spesso ti riservano i risultati più inaspettati e le sorprese più appaganti, quelle da cui nascono immagini fuori da schemi e stereotipi.
“Tutto” significa anche ritornare più e più volte sulle stesse situazioni, quelle più difficili, fino a coglierne le condizioni migliori. Significa quindi anche diversificare. Caratteristica, la diversificazione, sempre più raramente riscontrabile tra i tanti reportage realizzati spesso troppo in fretta. Infatti, diversificare significa anche seguire i tempi e i ritmi delle varie stagioni, degli orari di una giornata, delle mutevoli condizioni climatiche. E per fortuna il sole non c’è sempre.
Se fossi stato scrittore avrei voluto essere poeta e non narratore, se fossi stato pittore avrei voluto stendere il colore con pennellate morbide e diluite, credo che avrei usato gli acquerelli.
Ma io sono fotografo e in fotografia applicare questo linguaggio presuppone l’uso di strumenti a volte poco convenzionali, altrettanto complessi da controllare e conoscere a fondo.
Tra i miei “pennelli”, quello che uso più frequentemente, è il diaframma. Diaframma a tutta apertura, a mio avviso il più pittorico e creativo.
Guardare il mondo e fotografarlo attraverso un obiettivo a diaframma completamente aperto, in particolare se l’obiettivo è macro, significa vederlo in modo del tutto inconsueto e spesso sconosciuto. Un mondo flou, evanescente, dove tutto ciò che è fuori fuoco diviene “sfocato”, bokeh, termini e concetti che in fotografia assumono rilevante importanza, e che risultano strategici e fondamentali per i miei scatti. La ricerca del fuori fuoco spesso m’impegna quanto e a volte più di quella per la parte a fuoco del soggetto.
Ma sono anche altri i “pennelli” di cui mi servo, dal controllo del mosso al panning, esposizioni multiple, sovra e sotto esposizioni. Talora ricorro addirittura a espedienti empirici di vario genere che sperimento non sempre con esiti accettabili.
La macro-storia del prosecco non solo ha entusiasmato GB, ma mi ha creato delle inaspettate opportunità.
Fino a quel momento, pur avendo avuto una sola approssimativa seppur affascinante esperienza come autore, la multivisione mi aveva sempre intrigato ed entusiasmato, fin dalla prima installazione vista al Pompidou di Parigi a inizio anni 80.
Ma è stato quando il mio reportage visionario si è incrociato con il percorso di un professionista “multivisionario” che ho incominciato a esplorare e assaporare pienamente le possibilità di questo mezzo. Ne è nata una collaborazione molto interessante nella quale Francesco con sapiente regia ha rimescolato e miscelato il mio lavoro integrandolo ed enfatizzandolo con la potente suggestione del suono.
Da questo impegno comune è nato “Dreamy Prosecco”, il primo di una serie di racconti multimediali che intendono spingersi ulteriormente nella sfera emozionale e sensoriale della comunicazione.
Un nuovo capitolo si era aperto, una nuova entusiasmante esperienza, un nuovo modo di utilizzare le mie immagini, un nuovo e importante passo lungo il percorso nel “Paese delle Meraviglie”. Il primo in quello che diventerà “L’orto dei sensi”.
La mia anima sognatrice e creativa era stata in buona parte appagata, ma l’altra parte di me, quell’altrettanto profondo bisogno di reale, tattile e materico continuava a tormentarmi.
Nel prossimo racconto intitolato “Terre di fotografia”, vi parlerò di terra e di stampe fotografiche su terra.