La figura femminile nella storia e nella cultura sarda è assolutamente centrale. Dai ritrovamenti archeologici ai nostri giorni, la donna è sempre stata depositaria di capacità, conoscenze e antiche regole morali
Le tradizioni sarde con le loro leggende, i culti religiosi, le vicissitudini politiche e popolari, sono strettamente legate a radici matriarcali. Diverse civiltà etniche, dai tempi più remoti, si sono confrontate e combinate successivamente, con la cultura del “popolo del mare” più discusso del Mediterraneo, quello sardo. Da questa miscela etnica si sviluppò sempre più una civiltà dinamica e intelligente. Tutti i ritrovamenti archeologici e non solo, indicano una istituzione sociale sicuramente matrilineare, in cui sacrale era il principio femminile, conservato sino ai giorni nostri. Si è costruito così nei secoli addietro, tra varie persecuzioni e molteplici riconoscimenti, l’emblema antropologico del matriarcato sardo. Sin dai tempi neolitici esisteva lo sciamanesimo femminile e antichissimi culti proposero la donna come mediatrice, fattucchiera, essenza di una società dai lineamenti primordiali; in cui essa era l’unica a poter generare o distruggere l’equilibrio naturale della vita stessa.
Nella Patria delle Janas, la donna era depositaria quindi di capacità, conoscenze e antiche regole morali sulla conduzione della casa, famiglia e di tutte le realtà derivanti. Aldilà dei racconti leggendari esistono testimonianze scritte, accreditate come veritiere, che descrivono la donna come figura polivalente all’interno della collettività.
Dalla grande Madre che tutto genera a quella della “accabadòra” chiamata a porre fine all’agonia dei moribondi. Presenti perciò sia nella comunità pagana, sia in quella fortemente cattolica, le donne sarde hanno sempre assunto ruoli e doveri sicuramente importanti.
Nell’isola vi è uno spaccato fermamente rilevante e originale inerente all’evoluzione sociale della donna, in cui la si tratteggia quasi sempre come protagonista. Dalla giudicessa Eleonora D’Arborea, divulgatrice del primo corpo di leggi scritte, al mitico e leggendario personaggio de “sa Reina”. Donne di legge e donne bandite insomma, che sfamano, curano e accudiscono talvolta banditi talvolta sequestrati.
La Sardegna è da tempo sinonimo di qualità di vita e costumanze autentiche; un “micro-continente”, così metaforicamente definito da alcuni storici, in cui è possibile imbattersi tra gli sguardi più duri degli uomini e i sorrisi velati delle donne, che insieme trasportano la fierezza della propria eredità spirituale e culturale tra le vestigia dei nuraghi, i fitti boschi e i prepotenti profili geografici disegnati su montagne ardue e scoscesi torrenti, che tanto furono faticosi e problematici per la Roma imperiale e colonizzatrice del II secolo a.C.
Tutto ciò si riflette in una cultura altrettanto spigolosa e intensa, domata e mitigata però dalla costante presenza femminile, detentrice di preziose e silenziose “virtù per guida e fortuna per compagnia” come scriveva Cicerone.
La donna era altresì creatrice e promulgatrice di simboli universali, e i suoi ricami, tessuti tra i fili del telaio, erano dei veri e propri ideogrammi. Le arti in Sardegna sono maggiormente gestite dalle donne le quali viaggiano con ceste di pane “pintau”, prodotti dell’orto appena raccolti o anfore d’acqua posate sulla testa, mantenendo costantemente un armonioso portamento, il quale è senza indugio una chiara ed efficace narrazione della grande dignità e grazia che le distingue.
Maestre artigiane tra i telai, i forni del pane, le decorazioni pasticcere e la creazione dei loro preziosissimi abiti; una cura premurosa dei dettagli che le ha rese celebri in tutto il mondo per la forgiatura dei pregiati che indossano durante le autorevoli occasioni della propria comunità. L’elemento femminile è presente in quasi tutti gli aspetti della vita quotidiana sarda, ma anche durante le celebrazioni di rituali propiziatori antichi e pagani, come una sorta di amuleto che deve tener lontana la sfortuna dai campi, dalle case, dalla famiglia.
Il matriarcato sardo non è però l’idea speculare del patriarcato, come invece vuole il pregiudizio comune. La donna non domina sull’uomo, ma è la società a mettere al centro le madri, nel loro significato primario, perciò un’”organizzazione familiare” che si basa sui valori prettamente materni, indirizzati ai bisogni di ciascuno, principio fondamentale di ogni società civile.
Questa concezione matriarcale della vita, che solo in parte contrasta con la famosa irsuta virilità degli uomini sardi, è a dimostrazione delle naturali differenze di genere in cui le due parti coesistono. Eppure, per motivazioni innate, a conservare gli itinerari affettivi e psicologici sono il più delle volte le donne. La grande assenza dell’uomo dalla casa, per abitudini preconcette o per lavoro, ha comportato la necessità di rivolgere verso la donna tutte le responsabilità che sono insite nella famiglia: la crescita dei figli, la loro formazione scolastica ed educativa, la cura delle mura domestiche, la gestione del patrimonio. Ma altra caratteristica esplicita è l’umiltà, nella quale spesso si cela un’insofferenza emotiva, causata il più delle volte da scelte che comprendono rinunce e numerosi sacrifici; un tacito compromesso esistenziale.
Donne dallo sguardo costretto, che come descriveva Grazia Deledda, avvolgevano i loro volti in fazzoletti, abbellendo così la loro già nota femminilità.
Una Sardegna crogiolo di intrecci storici e culturali, dalla lingua in cui sono intessuti i molteplici dialetti isolani, in cui la Donna è madre, figlia e moglie di una terra che mai ha tradito, ma sempre compreso. In questa figura della Mater che tutto sopporta e supporta, vi è costudita l’armonia ciclica della vita in Sardegna.