Intervista

A cura di:

Storie, sotto la superficie
Ami Vitale

Ami Vitale è una fotogiornalista indipendente americana. Le sue immagini hanno fatto il giro della stampa internazionale – Time, Newsweek, GEO, National Geographic, New York Times, The Guardian - raccontandoci molte storie dalle zone di crisi del mondo: la guerra nei Balcani, il Kashmir, la seconda Intifada, i più remoti villaggi africani. Per i suoi reportage, empatici, toccanti e incisivi, ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra cui quello del World Press Photo, della National Press Photographers Association (NPPA), il premio Inge Morath della Magnum.
Romina Marani l'ha intervistata per Sguardi.

 
© Ami Vitale
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Una donna va a prendere l'acqua in una pozza inquinata nel villaggio di Dambas,
a 80 km da Wajir, nel nord del Kenya

«La fotografia, ha scritto Kafka, concentra la nostra attenzione sulla superficie. Di conseguenza abbuia la vita nascosta che balugina attraverso i contorni delle cose come un gioco di luci e ombre. E questa non si può coglierla neanche con il più penetrante degli obiettivi. Si può solo cercarla a tastoni». Il tuo lavoro - il tuo restare a lungo nei luoghi per cercare il contatto con le persone prima di fotografare - sembra una specie di lotta contro questa affermazione. Come se volessi dimostrare che la fotografia può bucare la superficie e andare in profondità. Come se cercassi i punti in cui la superficie lascia intravedere quel che sta sotto. Cosa cerchi?
Sì, provo a raccontare una storia con le immagini, una sorta di "verità". Provo ad avvicinarmi a quello che tutti chiamiamo "condizione umana". Sento che l'affermazione di Kafka è realistica, specialmente quando guardo la maggior parte delle immagini e come sono utilizzate ogni giorno. Molto spesso sembra ci sia sensazionalismo, perché il mondo viene dipinto come un posto pericoloso; e non ce n'è ragione. In realtà credo sia vero l'opposto. La maggior parte della gente nel mondo si somiglia. Trovo che non ci sia differenza nei sentimenti, nelle emozioni e nei valori tra le persone, ovunque esse siano. Ovunque le persone vogliono mandare i propri figli a scuola, ovunque vogliono poter camminare senza paura per strada e al parco. Ovunque vogliono potersi guadagnare da vivere. Penso che creare paura e sensazionalismo permetta all'osservatore di disimpegnarsi e dire: «è senza speranza e non c'è niente che io possa fare per risolvere i problemi». Qualcuno potrebbe anche dire: «queste persone sono dei barbari e quindi non voglio guardare, aiutare, capire». Se si presentasse soltanto questo racconto del nostro mondo, la gente smetterebbe di guardare e di interessarsi. Io voglio creare comprensione e legami e dialogo.

 
© Ami Vitale
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Kolhapur, India – 19 marzo: ragazzi indiani si esercitano in uno sport vecchio di trecento anni
conosciuto con il nome di "Kushti", una forma di lotta libera,
all’interno del fight club Gangawesh a Kolhapur, India. 19 marzo 2006.
In epoca feudale gli incontri di lotta erano spesso combattuti fino alla morte,
ma durante i secoli la tradizione è stata gradualmente modificata
fino a divenire uno degli sport più popolari della regione.
I lottatori si esercitano con totale devozione e intensità,
con esercizi, dieta, autocontrollo e celibato.

Kosovo, Kashmir, Palestina, Angola, solo per citarne alcune. Hai viaggiato e lavorato spesso in zone di crisi. Non hai mai avuto paura? Non ti sei mai sentita svantaggiata per il fatto di essere donna?
È stata una mia scelta trovarmi in quei luoghi e saresti sorpresa degli atti di coraggio e compassione a cui ho assistito in alcuni dei posti più improbabili. E quando ho sentito di trovare una porta chiusa per il fatto di essere donna, ho sentito di trovarne un'altra aperta e gente ad attendermi a braccia aperte dall'altra parte. Ci sono sempre seri ostacoli nella vita, ma dipende da come ti confronti con essi. Il mio consiglio per chiunque viaggi, che sia uomo o donna, è di trattare le persone con dignità. So che suona come un cliché, ma è così vero e così semplice.

La situazione in cui è stato più difficile scattare? C'è uno scatto mancato, un'immagine che magari hai ancora stampata in testa ma che non hai potuto (o voluto) scattare?
È divertente. Perdo scatti ogni giorno. Nella maggior parte dei casi è perché sento che non è la cosa giusta da fare in quella situazione. Ho sempre creduto di dovermi comportare prima come essere umano e poi come fotografa. Dunque, con questa sensibilità in testa, ho perso un mucchio di scatti. Ma a fronte di tutti gli scatti persi, si costruisce una grande fiducia per momenti anche migliori che si presenteranno più tardi.

 
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I soldati dell’Indian Border Security Force presiedono il pittoresco lago Dal a Sringar,
la capitale estiva del Kashmir



Susan Sontag scriveva che «le macchine fotografiche trasformano la storia in spettacolo» e che «il loro realismo crea una confusione sul reale che è moralmente analgesica quanto sensonsorialmente stimolante». Quel che è certo è che l'impatto delle immagini, attraverso i media, è potente. Ne senti la responsabilità? Dove credi si trovi il confine tra documentazione e spettacolarizzazione?
Sento una responsabilità. Sono d'accordo e credo che questo avvenga ogni giorno. Come fotografi e giornalisti, credo che dovremmo tutti pensare a mantenere il controllo delle nostre immagini in modo da sapere come il nostro lavoro viene utilizzato. La mia sensazione è che le foto e le storie non rivelino la verità, ma piuttosto espongano delle "non verità". Con una moltitudine di narrative, si mantiene un equilibrio e la verità, che esista o no, è salvaguardata dal fatto di non essere limitata ad una singola visione. In assenza di una moltitudine di narrative, la ragione va in rovina. Io vedo la ragione fatta a pezzi ogni giorno sui giornali e nelle immagini in tv. Uno dei maggiori pericoli al mondo oggi è il pericoloso ritorno ad una narrazione singola – e carica di valore - di ciò che è bene e ciò che è male, assieme al velenoso rilascio di odio che ne consegue. Lingua e immagini vengono usate come un'arma e tutti i popoli sono rappresentati in maniera pericolosa.

 
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Jawani Purty lava e massaggia il suo bambino Laxmi con la curcumina 21 giorni dopo la nascita
nel remoto villaggio di Phuljhar nell’Orissa, India, nel luglio del 2005.
Jawani ha partorito il suo bambino da sola nella sua capanna di fango senza avere accesso
ad assistenza medica professionale. Mezzo milione di donne nei paesi in via di sviluppo
muoiono per conseguenze legate alla gravidanza ogni anno. Una donna ogni minuto.

C'è un lavoro che per te è stato più importante degli altri?
Sono diventata freelance per poter avere libertà intellettuale, quindi quasi tutte le storie su cui ho lavorato sono state importanti per me. C'è un motivo se sono rimasta a lungo in molti luoghi: mi ci sono voluti anni per capire e raccontare storie che sono spesso complesse e intricate. Il Kashmir è certamente una di queste storie.

Quando hai capito di voler fare questo mestiere? Come hai cominciato?
Ho cominciato alle scuole superiori, ma dopo l'università sono diventata editor. Poi, anni dopo, ho mollato per fare la fotografa. Amo fotografare principalmente perché mi permette di incontrare la gente e liberarmi dal mio guscio introverso. Sono sempre stata interessata alle persone e nella comprensione del perché il mondo sia fatto come è fatto. La fotografia per me è un passaporto per incontrare la gente, imparare e capire le altre culture e gli altri paesi.

 
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Alcuni ragazzi giocano a calcio sotto a un enorme albero ad Dembel Jumpora, Guinea BIssau. Nonostante i Fulani siano musulmani credono che questo albero abbia un anima.

C'è qualche fotografo che ti ha influenzata o che ammiri particolarmente?
Ci sono persone che ammiro ma le persone più influenti nella mia vita sono la mia famiglia, gli amici e il mio primo professore di fotografia, Rich Beckman.

Viaggi leggera o con molta attrezzatura?
Viaggio leggera!

Cosa è essenziale nella tua borsa? Il tuo obiettivo preferito?
Il mio cavallo da lavoro è la D3, assieme al 17-35 mm, ma potrei passare presto ad una lente fissa, il 24 mm.

 
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Dopo i combattimenti la obbligarono a lasciare la sua casa di Pristina, una rifugiata albanese
dal Kosovo aspetta di essere mandata in un campo di rifugiati in Macedonia. Maggio, 1999

I tuoi lavori nascono spesso da lunghe permanenze nei luoghi e tra la gente. Negli ultimi anni hai vissuto in India. Ora dove vivi? Ti è capitato anche di fotografare luoghi e persone più di passaggio, con poco tempo a disposizione?
Ora vivo a Washington, DC. Ma continuo a viaggiare al di fuori degli Stati Uniti. È difficile e vorrei ancora poter far base in Asia, dove svolgo la maggior parte dei miei lavori. Ma ho scelto di trovare un equilibrio ed essere più vicina alla mia famiglia. Ho perciò dedicato poco tempo alla maggior parte delle storie. Ho passato l'ultimo anno lavorando ad un progetto per Nature Conservancy per il quale ho visitato undici località sparse nel mondo: Micronesia, Isole Marshall, Costa Rica, Bolivia, Australia, Cina, Messico, Alaska e alcune altre. Ho trovato molto impegnativo poter restare in ciascun luogo, avendo poco tempo per provare a trovare i dettagli e le sfumature che rendono ogni posto speciale. Ma non avrei mai rinunciato a questa opportunità. Ho imparato moltissimo in ognuno di questi viaggi e mi hanno aiutata ad aggiungere un altro tassello alla comprensione di quanto noi tutti siamo fittamente interconnessi nel mondo.

Quanto è importante partire per te?
In realtà preferisco essere in un luogo. Amo sentirmi zingara, ma preferisco restare ferma. Perché quello è il momento in cui inizio a intravedere qualcosa sotto la superficie delle situazioni.


© Ami Vitale

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Bambini costretti ad abbandonare le loro case a Pargwal, India, si rinfrescano con i getti d'acqua di un'autocisterna nei pressi di Ahknoor nello stato indiano di Jammu e Kashmir.

 

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