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Lo sguardo del pittore
Edward Hopper

Dopo Milano, Roma rende omaggio - nelle sale del  Museo Fondazione Roma, fino al 13 giugno - a uno dei più popolari e conosciuti pittori del XX secolo, Edward Hopper. Secondo Carter Foster, curatore della mostra, «Hopper ha dato vita a immagini dell'America e della vita moderna così particolari da rendere la sua estetica una delle più riconoscibili di ogni altro pittore del ventesimo secolo. Comunemente noto per aver saputo esprimere un senso di solitudine e di isolamento, è stato anche uno degli artisti più innovativi nell'esplorare la condizione urbana. Oltre al "realismo" al quale è stato sempre associato, la sua opera è attraversata da una ricerca pittorica e da un forte senso dell'inquietante. La mostra italiana, che espone una selezione della collezione permanente conservata al Whitney Museum, illustra la carriera dell'artista». Lo sguardo del pittore, il suo gusto per l'inquadratura fotografica, il "realismo" di una pittura scarna ed essenziale, la pittura come immagine in rapporto con cinema, fotografia; per parlare di questo abbiamo scelto degli estratti dai saggi in catalogo della mostra di Goffredo Fofi, Vittorio Sgarbi, Sasha Nicholas, Marco Di Capua e Luigi Sampietro.

Second Story Sunlight, 1960
Second Story Sunlight (Secondo piano al sole), 1960
Olio su tela, 101,92 x 127,48 cm
Whitney Museum of American Art, New York; acquisito grazie ai fondi
dei Friends of the Whitney Museum of American Art 60.54
© Whitney Museum of American Art, N.Y.
Fotografia di Steven Sloman

«C'è l'occhio che guarda dall'esterno dentro le stanze i bar gli uffici, come da cinematografiche gru o da carrelli immobilizzati al punto giusto, il punto geometrico che solo l'intuito del regista sa fissare (si vede il regista, dicevano i grandi registi hollywoodiani, da dove piazza la macchina da presa), ed è qui che l'occhio della macchina diventa quello dello spettatore. È quest'occhio a dare il massimo valore al rapporto tra i personaggi e l'ambiente. Il regista Hopper interviene a collocare i personaggi e a decidere il posto della macchina e il suo movimento, ma Hopper è anche il fotografo che ha messo le luci e ne ha deciso l'intensità, è lo scenografo che ha disposto gli oggetti, che ha ordinato i volumi. Il ciak è un'immagine fissa, in cui i personaggi – sempre pochi, quasi sempre silenziosi – da dentro guardano verso il fuori, verso la natura e verso la civiltà e la "cultura"… L'occhio educato e controllato e per loro invisibile li guarda da una rispettosa distanza, molto spesso da fuori (oltre le vetrate e le finestre che li separano dal mondo), e spesso, molto spesso, sono loro a guardar fuori, ma mai "in macchina" come nella ritrattistica classica, nelle foto "in posa". Cosa stanno aspettando, pazienti e in verità poco ansiosi? Forse, anche loro, un Godot? Certamente non un'apocalisse, un evento sorprendente, una novità dirompente, forse, più semplicemente, aspettano pazientemente qualcosa, magari una cosa da nulla, ma chissà, che coroni la loro vita da nulla, e tuttavia una vita. Che dia un senso a una vita [...] Hopper guarda i suoi personaggi e li vede che guardano fuori. La sua è un'impresa oggettiva. E questo ci rimanda ad altri richiami, ad altre influenze. Negli anni sessanta, si parlò assiduamente di nuova soggettività (le nouvelles vagues) ma anche di nuova oggettività. E se ci fu un autore cinematografico che in qualche modo dialogò con Hopper fu proprio il nostro Antonioni, il cui cinema è anzitutto immagine ed è in rapporto fortissimo con la pittura, con la fotografia, più di ogni altro cinema d'allora». (dal saggio di Goffredo Fofi)

Soir Bleu, 1914
Soir Bleu, 1914
Olio su tela, 91,4 x 182,9 cm
Whitney Museum of American Art, New York; lascito Josephine N. Hopper 70.1208
© Heirs of Josephine N. Hopper, licensed by the Whitney Museum of American Art.
Fotografia di Jerry L. Thompson

«Per intenderlo non bastano le categorie della pittura tradizionale, neppure il facile richiamo al realismo. Esso infatti si accompagna piuttosto alla solitudine che a un'analisi sociale. Ma oltre il realismo non c'è il surrealismo alla Magritte e neppure la fascinosa ricerca delle avanguardie con il loro linguaggio sperimentale e trasversale. Per intendere Hopper è necessario riferirsi alla fotografia e al cinema […] Ogni dipinto è come un fotogramma o un trailer di un film che non vedremo, di cui abbiamo situazioni, elementi, protagonisti, senza apparente significato ma a cui dovremmo attribuire significato, immaginando le storie dei personaggi che non le raccontano, ma le lasciano intuire. La vita, le vite». (dal saggio di Vittorio Sgarbi)

Morning Sun, 1952
Morning Sun (Sole del mattino), 1952
Olio su tela, 71,44 x 101,93 cm
Columbus Museum of Art, Ohio; acquisizione dal Howald Fund, 1954.031

«Edward Hopper viene considerato la quintessenza dell'artista americano. I suoi paesaggi rurali e urbani popolati da personaggi isolati danno una visione della vita americana moderna fondamentalmente frammentaria e sfuggente, dove senso di nostalgia, distanza emotiva e quieta solitudine prendono il posto dei moderni paradigmi di slancio e progresso. I suoi dipinti più rappresentativi descrivono scene di vita comune che evocano nello spettatore ricordi e spunti per immaginare molteplici storie, senza però offrire una lettura definitiva o leggibile. La capacità di riuscire a mantenere sempre quella tensione nelle sue opere dipende in parte dal magnifico uso della luce. Come ha osservato il fotografo contemporaneo Robert Adams: "Tra i pittori americani, chi altro riesce a rendere la caduta della luce così importante e centrale per il senso di isolamento americano e per quello che un tempo era il senso della tranquilla vita americana?". Nell'arte di Hopper la luce funge da scintilla sensoriale che fa ricordare cose viste ma dimenticate, che suggerisce e al tempo stesso nega il racconto, ritagliando uno spazio fisico e psicologico fra gli individui». (dal saggio di Sasha Nicholas)

Le Bistro (o The Wine Shop), 1909
Le Bistro (o The Wine Shop, La bottega del vino), 1909
Olio su tela, 61 x 73,5 cm
Whitney Museum of American Art, New York; lascito Josephine N. Hopper 70.1187
© Heirs of Josephine N. Hopper, licensed by the Whitney Museum of American Art.
Fotografia di Geoffrey Clements

«Capiterà che molte scene che attraversiamo nella realtà "imitino" Hopper, e con ogni probabilità la sensazione di vederlo ovunque (cinema, letteratura, fotografia, arte, vita vissuta) è dovuta proprio a quella sua capacità di aver catturato il modello-base dei nostri habitat fisici e mentali di animali metropolitani. Hopper o il trionfo del neutro: la city life si distende nella calma poco frequentata di una grandiosa still life, con il paradosso di far cadere la fatalità di un'ora speciale, il senza tempo che il pittore cercava, proprio su ciò che scorre e si muove per antonomasia: la città, appunto […] L'atmosfera di contemplazione solitaria, la ricerca di porzioni di spazio anomale, di prospettive accolte come muse isolatrici e di posti dove essere lasciati in pace, la liberazione delle zone e masse architettoniche dall'ingorgo descrittivo e narrativo, quello stesso patto stabilito tra banalità e incanto, infine la misura semplice e assoluta di una visione che diventava calco e memoria dei luoghi sintonizzavano consapevolmente Hopper con le fotografie di Eugène Atget e, inconsapevolmente, con i dipinti del "periodo bianco" di Maurice Utrillo […] Fotografi come Bernd & Hilla Becher, Thomas Struth, Gabriele Basilico, Mimmo Jodice, così meticolosi nello svuotare metropoli e snudare pure architetture, confermano, nel convincerci, il nostro imprinting hopperiano, il carattere intensamente contemporaneo del lavoro del pittore americano, non meno che il nostro bisogno di spazi bonificati». (dal saggio di Marco Di Capua)

Apartment Houses, East River, 1930 circa
Apartment Houses, East River, (Case ad appartamenti, East River), 1930 circa
Olio su tela, 88,9 x 152,4 cm
Whitney Museum of American Art, New York; lascito di Josephine Nivison Hopper, 70.1211
© Heirs of Josephine N. Hopper, licensed by the Whitney Museum of American Art.
Fotografia di Robert M. Mates

«Per molti versi questa pittura apparteneva alla tradizione delle "autobiografie spirituali" dei protestanti inglesi e americani del diciassettesimo secolo ed era il risultato di un diuturno colloquio – onesto e concreto – con la propria coscienza. Un giorno Hopper scrisse infatti che se fosse stato capace di servirsi delle parole per esprimere quel che vedeva non avrebbe avuto bisogno di dipingere. Come se questo suo "vedere" andasse oltre l'aspetto percepibile – fotografico – di ciò che attirava la sua attenzione e toccasse profondità che sentiva di voler esplorare. Decennio dopo decennio, a partire dagli anni Venti, Hopper cercò di rappresentare nei suoi quadri ciò che stava tra sé – per così dire – e l'oggetto osservato. Non quello che era apparente e che avrebbe potuto ritrarre come illustratore, bensì ciò che si presentava al suo "occhio interiore"». (dal saggio di Luigi Sampietro)

Edward Hopper New York City, 1 Novembre 1941
Edward Hopper New York City, 1 Novembre 1941
Photo by Arnold Newman/Getty Images

 

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