Intervista 1

A cura di:

Maestri, Annie Leibovitz at Work

Durante le feste di fine anno, Rai5 ha mandato il documentario su Annie Leibovitz, Life Through a Lens, diretto dalla sorella Barbara nel 2006: un ritratto di 90 minuti di colei che molti ritengono la più grande fotografa del nostro tempo. Con testimonianze come quelle di Arnold Schwarzenegger, Hillary Clinton, Mick Jagger, George Clooney, su di lei, sul dietro le quinte dei suoi set, sulle sue immagini, considerate tra le più memorabili e iconiche degli ultimi 30 anni. Annie Leibovitz è un personaggio, un marchio, ormai non solo più una fotografa. Con uno smisurato talento visivo, capacità di invenzione, di innovazione del genere, immensa maniacalità e consapevolezza di sé. In quei giorni, sugli scaffali delle novità in libreria, si trovava anche lo splendido Annie Leibovitz at Work, edito dall'Istituto Geografico De Agostini (pp. 320, euro 45). In cui lei si racconta, svela i segreti del mestiere e i grandi incontri della sua vita professionale: Hunter S. Thompson, i Rolling Stones, John Lennon e Yoko Ono, Demi Moore, Whoopi Goldberg, i Blues Brothers, Keith Haring, Mikhail Baryshnikov, Patti Smith, George W. Bush, William S. Burroughs, Kate Moss, la regina Elisabetta, ma anche la guerra, la pubblicità, le luci, le macchine fotografiche e le dieci cose che tutti vogliono sapere da lei. 10 domande e risposte che Sguardi pubblica di seguito.

Quale consiglio darebbe a un giovane fotografo alle prime armi?
L'avrò ripetuto almeno un milione di volte: la cosa migliore che un giovane fotografo possa fare è restare vicino a casa. Cominciate con i vostri amici e la vostra famiglia, con le persone disposte a lasciarsi fotografare da voi. Scoprite che cosa significa immergersi in questo lavoro ed entrare in intimità con il soggetto. Misurate la differenza fra questa esperienza e quella di lavorare con qualcuno che non conoscete altrettanto bene. Naturalmente, esistono tanti bravi fotografi che non sono rimasti vicino a casa, ma quel che voglio dire è che dovreste fotografare qualche cosa che abbia per voi un significato. Lavorando a Rolling Stone, quando ero ancora agli inizi, ho imparato che quel che facevo aveva un peso. Forse sarà stato perché le mie foto finivano sul giornale, certo; ma in fondo non importa se i vostri scatti saranno pubblicati oppure no: quel che conta è che teniate al vostro lavoro. Al punto da sembrarne quasi ossessionati.


AtWorkPress, Johnny Depp
© Annie Leibovitz

Qual è la sua fotografia preferita?
Non ho un'unica fotografia preferita. Ciò cui tengo di più è l'intero corpo dei miei lavori. L'accumularsi delle fotografie nel corso degli anni.

Chi è stata la persona più difficile da fotografare?
Generalmente, le difficoltà che s'incontrano non hanno tanto a che fare con il soggetto. A causare i problemi principali sono altre cose, come il maltempo. Troppa luce, troppo buio, il sole che tramonta quando ancora non hai finito di scattare. Se si tratta di una grossa produzione, capita che il soggetto abbia i capelli in disordine o il trucco sbagliato, che il flash non scatti abbastanza velocemente o che non scatti affatto. Queste sono difficoltà. Non nego, tuttavia, che ci siano persone con le quali lavorare è uno strazio. Sarei folle a nominarle: nel mio lavoro non è consentito essere indiscreti. Detto ciò, in base alla mia esperienza, le persone più difficili da fotografare sono quelle che da più tempo lavorano nel mondo dello spettacolo. Soprattutto coloro che ne fanno parte fin da quando erano bambini. Non tutti, naturalmente, ma alcuni di loro si comportano da pazzi. Sono così abituati a essere riveriti che hanno perso il senso della realtà.

Quante immagini scatta?
Sicuramente molte meno di quando ero giovane. Ma non è una cosa di cui mi preoccupo. La quantità può variare. Scatto finché ne sento la necessità.


AtWorkPress, Keira Knightley and Jeff Koons
© Annie Leibovitz

È soddisfatta del passaggio dalla pellicola al digitale?
Ricordo ancora quando, negli anni Settanta, furono gradualmente eliminate dal mercato le Kodachrome II. Molti fotografi se ne procurarono interi scatoloni e le conservarono in frigorifero. Ma il risultato fu comunque che quelle pellicole scomparvero. Il digitale esiste, che lo vogliamo o no. È inutile combatterlo. Inizialmente, ho lasciato che il processo ingranasse. Era tutto incredibilmente complicato. Ogni volta mi toccava spiegare al soggetto che avrei dovuto attraversare la stanza per controllare l'immagine sul monitor, cosa che mi sembrava alquanto maleducata. Ma oggi non tengo quasi mai un monitor sul set e, anche se lo faccio, non ho più l'abitudine di guardarlo così spesso. Utilizzo semplicemente un computer portatile, ma non mi sento obbligata a controllarlo. Osservo di rado anche il display della macchina. Ormai ho quasi raggiunto lo stesso ritmo di lavoro di quando si scattava su pellicola. Con il digitale si può fotografare la notte. L'oscurità. Uso molte meno luci, adesso. Meno flash. La visione è migliore. Lo svantaggio è che le immagini appaiono un po' crude, come se contenessero fin troppe informazioni. Si tratta di un nuovo linguaggio che ha bisogno di essere tradotto, ma credo che non potrà far altro che migliorare. Pensate alle prime fotografie con il flash. All'inizio le cose erano illuminate in modo brusco, ma poi abbiamo imparato a gestire le luci. Il digitale produce immagini che appaiono appropriate a questo momento della nostra storia. Distintive. Il digitale sembra fatto apposta per i reportage. Ti consente di andare in giro con meno attrezzatura, senza borse e senza rullini. E di scattare a velocità incredibili. Un tempo, per evitare la grana, era necessario scattare ad ASA molto bassi. Oggi, le alte velocità rendono le immagini molto migliori rispetto al passato.


AtWorkPress, Queen Elizabeth
© Annie Leibovitz

Che differenza c'è tra fotografare una celebrità e una persona normale?
La differenza fondamentale è che, quando incontri una celebrità, ne hai già un'idea piuttosto definita. I personaggi celebri sono già stati fotografati diverse volte e la loro storia per immagini può insegnarti un sacco di cose. È molto utile, soprattutto perché queste persone sono sempre molto impegnate ed è necessario sfruttare al meglio il tempo che ti concedono. Fotografare una celebrità comporta tutta una serie di inevitabili problemi logistici. Spesso, ci sono diversi altri soggetti coinvolti e interessati alla riuscita del servizio. Ad esempio, cercare di andare incontro alle aspettative di una rivista nei confronti di una star non è sempre il massimo. Non sono le star in prima persona a creare i problemi. Molte di loro sono persone assolutamente normali.


Mikhail Baryshnikov e Rob Besserer, Cumberland Island, Georgia, 1990
© Annie Leibovitz

Da dove prende le sue idee?
Faccio sempre i compiti. Ad esempio, per prepararmi a fotografare Carla Bruni, la nuova moglie del presidente francese Nicolas Sarkozy, all'Eliseo, ho osservato molte foto del palazzo. Mi sono procurata le immagini delle altre persone che ci avevano vissuto. Ho guardato diverse fotografie di coppie innamorate, oltre a tutte quelle di Carla Bruni realizzate dagli altri fotografi. È stata immortalata svariate volte, ma credo che Helmut Newton abbia visto in lei qualcosa che nessun altro ha mai colto. Infine, sapendo che era anche una cantante, ho ascoltato le sue canzoni. Naturalmente, porto sempre con me una grande banca della memoria fatta delle immagini scattate dai fotografi che mi hanno preceduta, una specie di disco rigido che ha sede nella mia testa. Sono un'appassionata di fotografia. O una studiosa, se preferite. Colleziono libri fotografici. Capita che qualche elemento appartenente alla storia della fotografia contribuisca allo stile che scelgo per i miei scatti. E lo stile di un'immagine fa senz'altro parte dell'idea.


Brad Pitt, Las Vegas, 1994
© Annie Leibovitz

Come si accorge di aver scattato una buona fotografia?
Da giovane non sapevo mai quando smettere. Non riuscivo a capire che cos'ero riuscita a ottenere. Avevo sempre paura che, se me ne fossi andata, mi sarei persa qualche cosa d'importante. Ricordo ancora quella volta che il giornalista David Felton, con il quale stavo lavorando a un servizio sui Beach Boys, a un certo punto decise di andarsene. Rimasi sconvolta. Lui disse che aveva raccolto abbastanza materiale, affermazione che mi parve del tutto incomprensibile. Come poteva anche solo pensare una cosa del genere? Accumulando un po' di esperienza, cominciai a capire che chi posa per una fotografia non può continuare a farlo per troppo tempo, e che non è il caso di prolungare eccessivamente la sessione. Se le cose non funzionano, non funzionano. Soltanto di rado succede che una situazione si trasformi completamente. Quel che accade spesso, invece, è che, quando si decide di smettere, il soggetto si senta sollevato e il suo aspetto appaia improvvisamente fantastico. A quel punto, conviene continuare a scattare. E poi ci sono casi in cui ottenere ciò che si vuole è davvero impossibile. A volte ho l'impressione di raggiungere a malapena il dieci per cento di ciò che desidero. Un elemento che può rivelarsi particolarmente frustrante, ad esempio, è la luce naturale. Può capitare che la luce appaia meravigliosa sul volto di un soggetto, ma che non riesca a tradursi in immagine. L'effetto sarà completamente diverso. La fotografia è limitata, è una riproduzione di ciò che accade. In sostanza, non si è mai completamente soddisfatti.


Sontag Quai Des Grandes Augustines, Paris, Dicembre 2003
© Annie Leibovitz

Ha l'abitudine di dare molte indicazioni?
Fornisco quasi tutte le mie indicazioni sullo scatto prima che la persona da fotografare raggiunga il set. È il caso, ad esempio, dei ritratti posati. Quando arriva il soggetto, abbiamo già in mente che cosa suggerirgli. Prepariamo la scena. Una volta arrivato, il fatto di avere qualche indicazione gli sarà di sollievo. Anche se a volte me ne dimentico, chi posa per una fotografia ama molto sentirsi dire che si sta comportando bene. Gran parte del mio lavoro si basa su decisioni già prese. È studiato. Come una sorta di performance artistica. Mi piacerebbe poter essere più spontanea, ma non sempre le circostanze me lo consentono. Spesso ho la necessità di raggiungere determinati obiettivi in una quantità di tempo limitata. Tuttavia, per quanto io possa essermi preparata, spero sempre che succeda qualche cosa di diverso.


Annie Leibovitz e Nick Rogers

Come mette a proprio agio le persone che sta fotografando?
Non
cerco mai di mettere le persone a proprio agio. Ho sempre pensato che fosse un problema loro: potevano sentirsi rilassate oppure no, e questo faceva parte degli aspetti più interessanti di una fotografia. Mettere a proprio agio qualcuno non è richiesto dal mio lavoro. La domanda dà per scontato che lo scopo finale sia quello di scattare una “bella” fotografia, ma un buon ritrattista punta a qualcosa di diverso che potrebbe anche non essere una “bella” immagine. Tuttavia, credo che il mio essere molto diretta favorisca la spontaneità dei soggetti: sono lì semplicemente per scattare una foto, nient'altro.



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