Giorgio Cosulich de Pecine

Africa Express

Diecimila chilometri in treno attraverso l’Africa. Senza una meta finale. Come meta il viaggio stesso. Passando per giungle, deserti, pianure, montagne e fiumi, seguendo le rotte migratorie di un popolo in perenne movimento, ogni giorno sulle rotte del proprio destino. Questo è Africa Express di Giorgio Cosulich de Pecine, edito da Postcart (pp.136, euro 30), un racconto lontano dagli stereotipi dell’Africa misera e sofferente, che mostra un insolito volto di un continente troppo spesso dimenticato. Di seguito riproduciamo il testo Finestrini scritto per l’occasione da Cristina Ali Farah.


La cover del libro - © Postcart

«Treno. In Africa si dice in modo simile e forse in tutte le lingue. Eppure le strade ferrate sul continente si contano sul palmo della mano, linee isolate di un più ambizioso progetto. La locomotiva attraversa e conquista territori in cui viaggiare è sempre qualcosa di necessario e lungo il percorso mescola gli uomini, gli spazi, cambia l’ordine stesso delle cose. Tuttavia il treno solo non basta a contenere la moltitudine in movimento da una frontiera all’altra, l’interno e il mare, la guerra e la pace, i villaggi e la città. Il viaggio parte dai nostri piedi, dal carico che possono portare le spalle.


Africa Express © Giorgio Cosulich de Pecine

Quando lasciai Mogadiscio, mio figlio era nato da pochi giorni. Avevo un cuscino anti-soffoco arrivato dall’Italia, di quelli che si usano per i neonati, dove distesi il bambino per lungo, un cuscino che era allo stesso tempo lettino e scudo e mi avvolsi in un grande velo nero ricamato di bianco che mia cognata aveva portato dall’Arabia Saudita. Pensai per un istante che forse non sarei più tornata e così presi il mio ultimo diario per infilarlo in una sacca con qualche cambio e provvista. Fuori dal cancello di ferro grigio mi unii al flusso di gente che si riversava nel viottolo di sabbia, come un fiume in piena e sopra al fiume, pentole legate, materassi di gommapiuma, anfore per l’acqua.


Africa Express © Giorgio Cosulich de Pecine

Partire è spesso qualcosa di repentino. Nel viaggio portiamo con noi beni preziosi, un peluche giallo, cesti e secchi di plastica, porzioni di canjeelo, spezzatino di agnello, mazzi di qad, due manghi, una sacca informe, il seno pieno di latte. Le rotaie non cambiano direzione, il treno disegna una linea netta nella distesa verde, tre donne portano sul capo thermos azzurri come fossero anfore, sulle banchine venditori ambulanti e parenti protendono le braccia in avanti. Qualcuno scavalca i binari sotto la pioggia, i bambini, vestiti di bianco e di azzurro, si scambiano aneddoti dopo una giornata di scuola e un ragazzo segue con la bicicletta l’innamorata in partenza.


Africa Express © Giorgio Cosulich de Pecine

Vorresti allargare la prospettiva, vedere oltre i vagoni umidi e le merci accatastate, giù in fondo, fino alla meta. Allora guardi fuori e può capitare che il fango sul finestrino si intrecci magicamente con un albero centenario. Vedi il mondo attraverso un vetro e la macchina che ti porta dentro ha odori e colori diversi dalle valli, dalle montagne, persino dai paesi. Quasi che il finestrino fosse un occhio miope che può vedere solo ciò che è vicino e i contorni rimangono appannati. E hai l’illusione di poter continuare ad agire non visto, quasi che quel velo opaco fosse una protezione o la barriera che separa te viaggiatore dal mondo intorno. A volte capita di leggere messaggi d’amore sui sedili e sui finestrini. Raccontano che un uomo abbia addirittura scritto la sua storia sulla parete di un treno. Ho attraversato molti paesi, diceva, ma uno solo è quello in cui sono nato, se leggerete queste parole e lo visiterete, fate sapere ai miei quello che ne è stato di me.


Africa Express © Giorgio Cosulich de Pecine

Spesso al treno devi arrivare con le tue stesse gambe, per fuggire dalla frantumazione, dall’impossibilità, da un matrimonio fallito. Come mi haraccontato Zahra tanti anni fa in un pomeriggio di pioggia. Era arrivata da pochi mesi e cercava il modo per lasciare una casa in cui non si sentiva più a suo agio. La sento ancora ripercorrere ogni tappa del viaggio come fosse presente. La strada è lunga e i piedi le dolgono perché non ha scarpe adatte, le sue si squarciano lacerandole le caviglie. Non ha niente con cui sostituirle, così si fascia i piedi di stoffa e di cortecce, li fascia stretti, e attraversa terreni umidi, terreni secchi, attraversa tutto. La fasciatura si bagna, allora libera per un poco i piedi, strizza gli stracci, infila i piedi lividi in due sacchetti di plastica, riempiendoli di foglie secche e di stoffa. Arriva a un incrocio e ha questi piedi, e c’è una donna ferma ai lati dei sentieri, una donna entrata nel viaggio come lei. La vede con i piedi gonfi quasi tumefatti avvolti nella plastica e nella stoffa che non si staccano più dalla pelle e apre la sua sacca e tira fuori un paio di scarpe per lei. Sono passati diversi anni da quando è entrata nel viaggio. Eppure, a volte, le capita ancora di sentirsi qualcosa conficcato nella pianta del piede, dentro, giù in fondo. E vorrebbe afferrare una lama, o una pinza, qualcosa di tagliente per estrarre quelle spine e quei vetri che sente conficcati nei piedi. Il viaggio ti segna fin dentro al corpo e non ritorni più come prima».

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