Intervista

A cura di:

Francesco Zizola

Francesco Zizola è un grande fotoreporter. Lo dicono le sue immagini, che raccontano con asciuttezza e intensità, passione da cronista e sensibilità da antropologo, il mondo in chiaroscuro di oggi. Lo evidenziano le sue note biografiche da fotografo di fama. Da vent'anni le sue fotografie sono pubblicate dalle maggiori testate nazionali e internazionali. È stato l'unico italiano insignito del premio Foto dell'anno al World Press Photo (nel 1996, con l'immagine di una bambina angolana che stringe nelle braccia una bambola). Ha ottenuto altri sei riconoscimenti nell'ambito della stessa competizione ed è stato premiato quattro volte al Picture of the year. Sguardi lo ha incontrato in occasione della pubblicazione del suo "Iraq" (Ega Editore, 96 pp., colori, formato 21x27cm, € 26), il secondo volume della collana Un fotografo per i diritti umani, realizzata meritoriamente da EGA in collaborazione con Amnesty International.

Scrive Pietro Veronese nella prefazione del tuo "Iraq": «Qualunque sarà l'esito della guerra, il disastro è stato compiuto e non abbiamo saputo impedirlo. Ai testimoni una cosa sola è rimasta da fare: documentarlo». È questo obbligo che ti spinge a fotografare?
La fotografia per me è stata sempre una passione e anche una necessità; fin dall'adolescenza sono rimasto attratto dalla possibilità di esprimermi attraverso la luce catturata dalla macchina fotograficae dalla camera oscura, questa alchimia capace di tradurre la realtà in visione ha segnato la mia vita come anche il bisogno di dare senso a questo linguaggio utilizzandolo in una prospettiva storica. Nell'affermazione di Veronese è indicata non solo la necessità sempre più urgente in questi giorni di tenere una traccia del vissuto e del reale nella memoria storica, ma anche lo sconforto per il fallimento di uno degli scopi precipui del giornalismo (e quindi anche del fotogiornalismo); quello della testimonianza trasformatrice, capace attraverso le verità scoperte e disvelate, dicondizionare il corso degli eventi agendo sulle menti e sulle coscienze dei lettori. Ecco, il fotogiornalismo, a mio parere, potrebbe anelare a questo piccolo ma importante ruolo nelle complesse società contemporanee. La mia ostinazione quindi a "coprire" eventi spesso oscurati dal mercato dei media, trova la maggiore spinta in questa convinzione della necessità della testimonianza che il fotogiornalismo contemporaneo è chiamato ad espletare.



© Francesco Zizola - Baghdad, 26.04.2003

La stessa necessità di testimoniare ti ha portato per tredici anni a documentare le condizioni dell'infanzia nel mondo, raccontate poi in "Born somewhere" (nato da qualche parte) dove mostri le vite dei bambini di 27 paesi, dai figli delle guerre in Iraq ai piccoli lavoratori dell'Indonesia fino ai ricchi e alienati ragazzi di Los Angeles.
Infatti il progetto sulla condizione dell'infanzia nel mondo ha visto la luce proprio per rispondere a questa necessità di racconto, di testimonianza, nella speranza che qualche coscienza possa prendere atto dell'urgenza di una visione diversa, diciamo pure critica , della nostra società e del nostro prossimo futuro. D'altronde i bambini e gli adolescenti protagonisti dei reportage che ho effettuato, ci raccontano non solo delle loro specifiche esistenze, ma ci pongono anche una domanda, una domanda che rimane senza risposta nel libro e nella realtà di tutti i giorni, ma che pesa forse più delle loro singole esistenze, una domanda che urla il bisogno di un presente diverso dall'orrore di cui non si sentonoresponsabili, ma soprattutto la domanda rivolta agli adulti per un futuro migliore.



© Francesco Zizola - Al-Mahawil, 16.05.2003.
Ritrovamento di migliaia di corpi in fosse comuni, giustiziati dal governo di Saddam Hussein tra la fine degli anni '70 e gli anni '80 e durante la Guerra del Golfo nel 1991.

Giri il mondo e racconti guerre, fame, miseria, situazioni critiche, drammatiche. Come fai i conti con il dolore che vedi? E con la morte?
Sin dall'inizio mi sono reso conto che dovevo scegliere tra lo sviluppare una difesa personale basata solo sui valori della professione (il diritto di cronaca, l'opportunità giornalistica, il successo della missione) e una strada diversa, più difficile e rischiosa, quella dell'accettazione dell'altro, dell'esistenza dell'altro. Questa accettazione è rischiosa perchè l'altro è più importante della propria missione, e se questo altro di cui stiamo parlando è un altro che soffre, dobbiamo continuamente trovare il motivo per essergli vicino, un motivo che trascenda il nostro mestiere. Se non si trova il motivo non ha più senso essere lì, perde di forza la testimonianza, il valore della nostra testimonianza. Sotto questa lente ecco che gli esseri umani che incontreremo lungo la strada accenderanno in noi una luce ben diversa da quella fioca alimentata solo dal mestiere. Ecco quindi che nelle mie fotografie c'è il tentativo di comunicare questa empatia, questo sentire di far parte dello stesso mondo, questa consapevolezza della ricchezza della diversità, questo dolore per le offese subite da un altro che potrei essere io.



© Francesco Zizola - Baghdad, 14.05.2003.
Soldato americano dopo l'arresto di vari criminali.

A proposito di contesti difficili, ti sarai trovato in circostanze pericolose. Come fai i conti con la paura?
Il mio parere è che la paura è un sentimento preziosissimo per chi fa il mio mestiere. La paura, se domata, si trasforma nella nostra migliore consigliera. Io personalmente rifuggo il mito del reporter coraggioso "senza paura" che si tuffa nelle situazioni di grande pericolo senza riflettere e calcolare i rischi. È vero che noi non siamo padroni del nostro destino, ma rimane altrettanto vero che la paura ci obbliga ad una doppia dose di prudenza, spesso quella che serve a portare "a casa" non solo la foto ma anche la pelle.



© Francesco Zizola - Karbala, 20.04.2003.
Moschea dell'Imam Hussein.

Uno dei problemi centrali del fotogiornalismo è la relazione con il soggetto. Troppo veloce, furtiva, spesso invasiva. Fotografare è, a volte, un atto predatorio, soprattutto in situazioni drammatiche. Eppure hanno detto di te che nelle tue immagini le persone non sono mai in preda dell'obiettivo, che i soggetti fotografati si fidano di te, che si sente solidarietà, rispetto. Come entri, da fotoreporter, in rapporto con l'ambiente?
La fotografia, rispetto a tutti gli altri linguaggi, ha l'obbligo intrinseco di raccontare la realtà che è fuori di noi. Infatti l'etimologia stessa ci dice che fotografia è scrittura di luce, e la luce illumina un mondo che è esterno alla nostra immaginazione. Il valore massimo di vincolo con la realtà si ha con il fotogiornalismo perché vincola con un patto etico l'operatore fotografo, che è giornalista, al suo pubblico; ciò che racconto è colto nella sua evidenza reale senza manipolazione. Il fotoreporter, a differenza del fotografo, stipula un patto con il lettore, il patto di non modificabilità della realtà in cui si trova con l'obiettivo di raccontarla. Sappiamo che ogni visione della realtà è soggettiva ma il fotoreporter si deve limitare ad aggiungere la sua interpretazione operando solo delle scelte linguistiche. Mentre il fotografo dispone, crea, modifica, insomma fa di tutto affinché la luce risponda in pieno al suo disegno (foto-grafia), il reporter deve sviluppare l'arte dell'istinto, della disciplina visiva, dell'attimo significativo, della psicologia degli esseri umani e, come dicevo prima, provare a far sì che in quella porzione di fotogramma rimanga traccia di ciò che per un istante è stato un essere umano con le sue gioie e i suoi dolori. Se poi si riesce a provare empatia, se ci si sente parte di quella realtà, è molto probabile che l'altro si fidi di te, che ti accolga nella sua, a volte difficile, realtà.



© Francesco Zizola - Baghdad, 01.04.2003.
La popolazione irachena abbatte la statua di Ahmed Hassan Al-Baker,
il fondatore del partito Baath.

La tua è una visione etica.
La mia visione personale del fotogiornalismo è inizialmente etica. Il fotogiornalismo è un linguaggio che ha a che fare con gli uomini e il mondo in cui vivono; racconta gli uomini e il loro agire e può essere legittimato come racconto solo se il fotografo ne rispetta l'esistenza e la dignità. La fotografia oltre ad essere uno specchio della realtà è anche uno specchio dell'interiorità del fotografo stesso; nell'immagine fotografata vediamo la realtà rappresentata e leggiamo allo stesso tempo la scelta interpretativa del fotografo, e con essa il suo proprio universo culturale ed etico. Una buona fotografia giornalistica ha a che fare molto con il rispetto che il fotogiornalista ha del mondo e dei suoi abitanti.



© Francesco Zizola - Iraq, 27.03.2003.
Profughi iracheni.

Tra gli obiettivi, prediligi il grandangolo. Perché?
Diciamo che il mio obiettivo preferito è il 28mm, ma ogni tanto mi prendo delle vacanze forzate da questa lente a scopo terapeutico. Così ogni volta si conferma l'obiettivo che più si avvicina alla mia visione di ciò che mi circonda. Infatti credo che ognuno di noi possieda un modo di pensare, una complessa rete di codici culturali e visivi che si sovrappongono e che fanno in modo di produrre un certo modo di vedere e non un altro. In più credo che il proprio modo non sia statico, ma soggetto a continui cambiamenti dovuti alle molteplici sollecitazioni e nuove conoscenze. È per questo credo che si possa parlare di uno "stile" espresso da un determinato fotografo piuttosto che da un altro. Il 28 mm è la lente che mi costringe ad avvicinarmi fino a "sentire gli odori", dentro le situazioni, solo così riesco a sentirmi parte di quella realtà.

Tecnicamente sei un autodidatta? Hai messo a punto delle tue tecniche specifiche?
Ho iniziato come autodidatta, poi ho cercato di colmare le mie lacune tecniche con un corso. Ho fotografato per molto tempo cercando di imitare lo stile degli altri, e ricordo di quel periodo grandi frustrazioni. Poi ho preso il coraggio di tentare una mia strada e i risultati sono sotto i vostri occhi.



© Francesco Zizola - Iraq, Giugno 1997.
Sulaimaniya, Kurdistan Iracheno. In un carcere dove sono rinchiusi molti dei prigionieri accusati di essere informatori del PDK (Partito Democratico Kurdo).

La scelta di linguaggio attraverso il bianco&nero è quella che preferisci?
Ho fotografato molto in b/n e ancora oggi lo uso. Facilita quella lettura "altra", al secondo grado, della realtà rappresentata. Il bianco e nero è stata una scelta linguistica precisa per l'inchiesta sulla condizione dell'infanzia. Con le mie fotografie cerco diraccontare la realtà, che è il primo grado della rappresentazione, e poi cerco di fare in modo che questo primo grado ne contenga un secondo, il senso, più simbolico. Il b/n è una scelta conseguente perché aiuta il lettore a cercare questo secondo grado; è già esso stesso un'astrazione dalla realtà (che è colorata) percepita comunemente. Negli ultimi anni, quelli hanno segnato il salto di qualità della tecnologia digitale, ho trovato il piacere e scoperto le potenzialità del colore. Colore che cerco di usare come il b/n, cioè esaltando i contrasti o lavorando sulle saturazioni in modo da ottenere quella lettura "altra".

Facciamo, se sei d'accordo, un passo indietro per capire come è nato il tuo rapporto con la fotografia. Hai fatto studi di antropologia, ti sei affacciato alla fotografia occupandoti di moda e pubblicità e sei poi arrivato al reportage, all'inchiesta fotografica basata sull'attualità internazionale. Ci racconti questo percorso?
Quando cerco di indagare sull'origine del mio interesse per il linguaggio fotografico individuo sempre lo stesso ricordo che risale alla mia infanzia: mio padre che mi racconta della Seconda Guerra Mondiale e dei suoi ricordi di bambino impaurito sotto le bombe, del racconto del genocidio degli ebrei testimoniato da immagini che valgono più di mille parole, dalle fotografie scattate dentro i campi di sterminio appena liberati. Nel tempo quelle terribili immagini in bianco e nero hanno lavorato nel mio inconscio su diversi piani, fino a rendere palese che il trauma della visione si è trasformato in scelta di linguaggio e di testimonianza, in scelta di vita.



© Francesco Zizola - Baghdad, 21.04.2003

Hai collaborato con l'Agenzia Contrasto e successivamente sei entrato nell'Agenzia Magnum. Cosa ha significato per te entrare nel mito (e poi uscirne)?
Nel 2000 ho ricevuto l'invito a presentare il mio lavoro alla Magnum ed ero felice perchè molti dei fotografi che ammiravo e che avevano formato la mia passione per la fotografia erano passati dalla Magnum o vi lavoravano ancora. Il percorso con cui si diventa fotografi soci dell'agenzia è lungo. Durante la mia permanenza si sono verificate delle chiare idiosincrasie con una nuova generazione di fotografi che ha la pretesa di rinnovare Magnum a scapito della storia e dei valori espressi dai fondatori. Per questo, o più banalmente perchè le mie fotografie non si adeguavano al rinnovamento auspicato, non faccio più parte della Magnum.

Qual è, secondo te, la situazione del fotogiornalismo in Italia oggi? Come viene percepito? È informazione o altro?
In Italia l'editoria giornalistica ha sempre più abdicato alla funzione informativa a favore di una sempre maggiore dipendenza dall'informazione pubblicitaria e di propaganda. Questo ha penalizzato il giornalismo, specie nelle sue forme più legate al racconto della realtà, che è antitetica ai valori edulcorati e virtuali del messaggio pubblicitario. Come tollerare una pagina di pubblicità del nuovo modello de-luxe della spider 4000 di cilindrata accanto ad una foto proveniente dal paese dove questa automobile è prodotta e che mostra un bambino ridotto alla fame? Tra le due pagine oggi è censurata quella prodotta dal fotogiornalista. Oggi, alcuni di questi, considerando la battaglia persa si sono adeguati all'esigenza dei photoeditor di rendere meno difficile questo confronto; sono sempre maggiori le fotografie scattate in realtà difficili che fanno solo intravedere, che accennano alla realtà con abili fuori fuoco o dei mossi. Insomma la premessa della fine del fotogiornalismo o se preferiamo un comodo compromesso con la dittatura della pubblicità e della propaganda.



© Francesco Zizola - Karbala, 20.04.2003

Come è il tuo rapporto con i giornali? Lo gestisci da solo, per una scelta di autonomia, o lavori con agenzie? Un'idea di reportage viene da te e/o da altri?
Personalmente credo che non esista una regola ottimale di gestione dei rapporti con i giornali, gli editori, insomma con il mercato. Dipende di quale o quali paesi stiamo parlando e da tanti altri fattori. Nel mio caso specifico mi muovo utilizzando le mie conoscenze presso alcuni giornali, proponendo storie e a volte accettando proposte, collaborando con agenzie o promuovendo progetti collettivi. Diversificando il più possibile i paesi e le utenze di destinazione delle fotografie sempre con lo scopo di rendere la comunicazione più efficace possibile.

Cosa pensi della competizione tra media – tv, magazine, web - nella copertura degli eventi? Pensi che la fotografia conservi un suo spazio specifico?
Credo che grazie al digitale e alla tecnologia satellitare la fotografia giornalistica ha acquisito nuovamente un ruolo di primo piano nel mondo dell'informazione prima dominato dai networks televisivi capaci di dare una copertura "in presa diretta" degli avvenimenti. Ora una fotografia può essere trasmessa qualche decimo di secondo dopo lo scatto e resa disponibile per la stampa dei giornali. Ma la trasformazione in atto nel mondo dei media è solo all'inizio, e stiamo assistendo a interessanti aperture "orizzontali" e non più verticistiche dell'informazione. Mi riferisco in particolare all'ineludibile diffusione della rete internet che tra poco sarà rafforzata dalla tecnologia wifi diffusa. Tra l'altro all'orizzonte si intravede finalmente un allargamento della platea dei fruitori di informazione ma anche di nuovi soggetti produttori di informazioni; con l'inevitabile abbassamento dei costi dihardware (costruzione di una retegrazie al wifi e riduzione drastica del costo dei computers) si affacciano infatti nel mondo dell'informazione continenti e popoli che ad oggi ne erano stati esclusi: il continente africano in primo luogo, ma anche paesi come la Cina non tarderanno a far sentire il loro peso.



© Francesco Zizola - Baghdad, 14.04.2003

Se puoi parlarne, qual è il lavoro che stai sviluppando in questo periodo? Hai dei progetti più a lunga distanza?
È un periodo particolarmente intenso, sono impegnato con un mio progetto sull'Africa,e nello stesso tempo sto ricevendo proposte interessanti da magazine a cui rispondo positivamente. In più sto lavorando insieme ad altri colleghi ad un nuovo progetto, di cui però non posso anticiparvi ancora nulla. Per chi non riesce a frenare la curiosità suggerisco una visita a settembre alla prossima edizione del festival internazionale di fotogiornalismo che si terrà a Perpignan, nel sud della Francia.

A proposito di curiosità, ne ho una finale, sui tuoi eventuali maestri: vi sono fotografi che hanno rappresentato un punto di riferimento per il tuo percorso?
Ci sono stati fotografi, ma soprattutto direi che ci sono state fotografie. Scolpita nella mia coscienza ho la fotografia della bambina ustionata che scappa nuda e a braccia aperte da un bombardamento di un villaggio in Vietnam. Un'immagine che viene dalla mia infanzia è quella del bambino scheletrico in braccio alla madre che porge la mano chiedendo cibo, relativa alla carestia in Biafra. Poi, crescendo, ho scoperto le fotografie di Cartier-Bresson, di William Klein, di Joseph Koudelka, di Robert Capa. Di fotografi che ammiro ce ne sono tanti ed ognuno mi ha donato una visione. Ogni giorno riceviamo immagini da ogni parte del mondo e di ogni tipo. Io cerco di far tesoro della capacità di alcuni di vedere, di applicare alla realtà fuggevole della vitala disciplina che ne consente la sintesi emotiva e reale in una frazione di secondo. Questa è la magia della fotografia e questa visione è ciò che ancora oggi mi emoziona.

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