Intervento

A cura di:

Collezionare fotografia in Italia
Denis Curti e Sara Dolfi Agostini

Orientarsi nel mondo nel mercato delle immagini, tra fotografia e arte contemporanea? In Italia e all'estero? Alcune risposte sono contenute di certo nel primo vademecum sul collezionismo fotografico, Collezionare fotografia, a cura di Denis Curti e Sara Dolfi Agostini, un manuale di rapida consultazione e pieno di consigli pratici edito da Contrasto (pp. 317, 40 fotografie a colori e in bianco e nero, formato 15x21 cm, euro 21,90).

Il libro fa il punto della situazione sul mercato delle opere fotografiche - in espansione e crescita - a partire dall'Italia. «Un punto di vista non particolarmente agiato data la scarsa esperienza maturata in Italia in questo specifico settore» - come afferma Denis Curti nell'introduzione - «e proprio per questo, terreno fertile per un libro dedicato a chi cova l'ambizione e la voglia di iniziare a collezionare e vorrebbe conoscere meglio le regole di un mercato che giorno dopo giorno trova una sua precisa definizione».

Collezionare fotografia di Dennis Curti e Sara Dolfi Agostini

Senza perdere di vista «il desiderio da parte dei produttori di opere fotografiche di "guardare a tutti i canali possibili per far vedere il proprio lavoro, gallerie d'arte, di fotografia, riviste, giornali e soprattutto libri", come dichiarato dal fotografo Martin Parr».


Walker Evans, nei pressi di Birmingham, 1936 © Walker Evans/Courtesy of Library of Congress
Walker Evans, nei pressi di Birmingham, 1936
© Walker Evans/Courtesy of Library of Congress

 

Collezionare fotografia si sviluppa su diversi livelli e attraverso una breve storia del collezionismo fotografico cerca di rintracciare le ragioni storiche ed estetiche della presenza, all'interno del mercato dell'arte contemporanea, della fotografia vissuta come parte integrante dell'offerta e quindi del mercato dell'arte. Un'ampia parte è dedicata al tema quanto mai controverso, del "valore della fotografia": cosa lo determini e da cosa dipenda. Questioni come la tiratura di un'opera, l'importanza del percorso artistico dell'autore, il valore e il ruolo sul mercato delle opere "vintage" e delle stampe contemporanee, sono affrontate con chiarezza e precisione.

Eugene Smith, The walk to paradise garden, 1946 © Eugene Smith/Magnum Photos
Eugene Smith, The walk to paradise garden, 1946
© Eugene Smith/Magnum Photos

Il volume contiene indicazioni pratiche per districarsi all'interno di questo mercato e imparare a individuare le gallerie di riferimento, le pubblicazioni da consultare, le fiere e i "saloni" irrinunciabili, i musei e le collezioni private da tenere d'occhio, i critici di riferimento da seguire. Collezionare fotografia offre al lettore anche una serie di interessanti "schede tecniche", a cura di Eugenia Bertelé, Roberta Piantavigna e Lorenza Fenzi, dedicate ad alcuni casi del mercato della fotografia e approfondimenti sui problemi di conservazione e manutenzione delle opere fotografiche.

Alec Soth, Charles, Vasa, Minnesota, 2002 © Alec Soth/Magnum Photos
Alec Soth, Charles, Vasa, Minnesota, 2002
© Alec Soth/Magnum Photos

Di seguito, pubblichiamo un estratto, dal capitolo Primi passi, boom e assestamento.

«Oggi, per certi versi, il mercato della fotografia è parte integrante del sistema dell'arte, per altri continua a rifuggerlo e a rivolgersi a soggetti specializzati – come le agenzie fotografiche – il cui ruolo è al confine tra arte e realtà, estetica e funzione. I primi contatti tra i due mondi risalgono all'inizio degli anni Settanta, un periodo di "estrema confusione" dal momento che "tutti gli artisti apparentemente lavorano con la foto", come scrive Giancarlo Politi nel 1975, introducendo un numero di Flash Art International interamente dedicato all'opera fotografica. Ma come e perché fotografia e arte si sono avvicinate? Negli anni Settanta si crea una dualità di ruolo e di destinazione per la fotografia. Da una parte, la fotografia si rivela il linguaggio più adatto a testimoniare la vitalità di una società in fermento, la cui dinamicità e le cui repentine trasformazioni socio-culturali hanno bisogno di essere raccontate con dettaglio nelle riviste e nei quotidiani. Le immagini delle contestazioni studentesche in Europa e in America, la guerra del Vietnam e i primi concerti di massa dei Beatles possiedono ancora oggi un'aura unica, e sono il risultato di un momento storico di discussione, rinascita e cambiamento sociale dopo gli anni duri della Seconda guerra mondiale. D'altra parte, la fotografia inizia a essere utilizzata da artisti come Andy Warhol e Robert Rauschenberg nell'ambito della Pop Art americana e diventa strumento di indagine degli artisti concettuali, eredi di Marcel Duchamp che già nel secondo decennio del Novecento dava forma alla sua ricerca artistica attraverso le immagini del fotografo americano Alfred Stieglitz e del polacco Man Ray. Proprio di Stieglitz è la fotografia dell'opera "Fountain", un orinatoio standard appoggiato orizzontale sul retro, firmato dall'artista con lo pseudonimo "R. Mutt" e datato 1917. Nelle parole della critica Rosalind Krauss, la fotografia per Marcel Duchamp, "cattura un pezzo di mondo, lo fa in blocco e rinvia così il processo dell'elaborazione del senso verso il supplemento costitutivo della didascalia scritta". È dunque una perfetta declinazione del ready made, termine coniato dallo stesso Duchamp per indicare il semplice spostamento di oggetti del quotidiano in un contesto artistico.

La fotografia entra nel mondo dell'arte anche come unico mezzo in grado di garantire una materialità e una documentazione ragionata alle forme di espressione artistica di fine anni Sessanta, che tentano l'eliminazione della distanza tra arte e vita seguendo modalità quanto mai varie come l'Happening e la Performance, la Body Art e la Land Art. La fotografia è così testimone di un'arte che si mimetizza nello spazio pubblico e crea momenti di incontro dai risvolti umani inaspettati all'interno dello spazio artistico. Il confronto con un pubblico nuovo, che cerca nell'immagine fotografica la rivelazione di un intento e il senso di un gesto specifico, avvicina il fotografo a un codice visivo estetico meno immediato rispetto alla fotografia di cronaca e al tempo stesso estremamente stimolante e vitale.

Nella Land Art, ad esempio, le potenzialità del linguaggio fotografico sono attentamente utilizzate per veicolare forma e contenuto del progetto ambientale: nelle file di pietre di Richard Long è l'inquadratura scelta dall'artista a determinare il senso dell'incursione nel paesaggio, che appare all'osservatore come un'asse precisa, in totale armonia con le strutture naturali che la circondano. La "Spiral Jetty" (1970) di Robert Smithson è stata fotografata da un'angolatura che ne accentua le caratteristiche di ampio respiro, in totale consonanza, in termini di dimensioni e forma, con il paesaggio circostante. Nella Body Art, la fotografia entra subito come testimone privilegiato incorporato nella pratica artistica: è questo il caso dell'artista francese Gina Pane, che svolge i propri rituali al cospetto di un pubblico e di una macchina fotografica. "La fotografia è il mio pennello" dice l'artista, dimostrando una grande consapevolezza del ruolo di questo linguaggio. Le medesime considerazioni sono rese proprie anche da altri esponenti della Body Art, come Vito Acconci, che nella serie "Trade Marks" (1969) fornisce un rapporto fotografico dettagliato delle tracce di morsi che si auto infligge, e Dennis Oppenheim, nella cui opera "Reading Position for 2nd Degree Burn" (1970) lascia a una fotografia il compito di raccontare gli effetti di una bruciatura sui generis, data dall'esposizione prolungata al sole del suo corpo con un libro aperto sul petto.

Sono di questi anni anche i primi lavori fotografici di John Baldessari, l'artista cui si riconosce un ruolo primario nel creare un senso di accettazione della fotografia come forma d'arte al pari delle tecniche tradizionali e nel diffonderne l'uso alla generazione successiva, quella di Cindy Sherman e Barbara Kruger, ma anche di Matt Mullican, James Welling e Barbara Bloom, suoi allievi al CalArts di Los Angeles. I suoi primi lavori che mescolano fotografia, testo e pittura risalgono alla metà degli anni '60; tra questi c'è "Wrong" (1966-68), l'immagine di un uomo in piedi di fronte a una casa anni '50 in una Los Angeles ancora ai margini della scena artistica internazionale – dominata da New York – con una palma che sembra spuntare dalla sua testa a causa di un'inquadratura che un qualunque fotografo definirebbe perentoriamente sbagliata. La critica d'arte Abigail Solomon-Godeau riconobbe in questa opera l'autoritratto dell'artista e intitolò ironicamente un articolo a essa dedicata "The Rightness of wrong". Nel lavoro di un artista concettuale come John Baldessari, la fotografia si configura come l'inserimento di un elemento domestico – per usare un linguaggio platonico si potrebbe dire che permette un'apertura al mondo delle cose – e ben si addice alla volontà dell'artista di rendere l'opera d'arte più democratica, anche in termini di prezzi.

Più in generale e secondo una linea di condotta piuttosto pragmatica, tutti questi artisti usano la macchina fotografica come un modo per dedicarsi al quotidiano, affrancandosi dai codici linguistici dell'arte astratta, ma con disinteresse rispetto all'essenza stessa della fotografia, alla storia del mezzo e soprattutto alla costruzione di un discorso teorico relativo alla sua artisticità. Nel caso in cui si instauri una collaborazione con i fotografi, questa risulta, in un certo senso, come l'aggiunta di un elemento tecnico-utilitaristico all'opera d'arte più che come un sodalizio paritario, anche se molti di loro contestano il mercato dell'arte e anche il concetto di autorialità connesso con l'opera e la sua vendita. A volte, nell'ambito di un abbattimento dei ruoli, elemento tecnico e artistico si mescolano e comunicano in modo più diretto, dando vita a contesti difficilmente classificabili, come è il caso delle fotografie di Ugo Mulas a Marcel Duchamp (New York, 1965) o di quelle di Claudio Abate a "Zodiaco" di Gino De Dominicis, un'apparizione di uomini e animali rappresentanti i dodici segni zodiacali negli spazi della galleria Attico (Roma, 1970).

In particolare, le fotografie di Abate all'opera di De Dominicis sono un'eccezione rispetto alla dichiarata volontà dell'artista di "sottrarre la propria opera alla tirannia sostitutiva della fotografia" che tanto andava di moda in quegli anni. Talvolta, è invece l'ambiente fotografico tradizionale, quello dei circoli per intendersi, a non vedere di buon grado questi sconfinamenti. È il caso di Franco Vaccari, figlio di un fotografo professionista, appassionato di fotografia ma rifiutato dai circoli fotografici per le sue idee destabilizzanti, e invitato dal critico Renato Barilli alla Biennale di Venezia del 1972 con il progetto "Esposizioni in tempo reale". Vaccari non fotografa, ma propone ai visitatori di lasciare una traccia del proprio passaggio, utilizzando essi stessi una photomatic, e afferma di non essere interessato all'immagine fotografica in sé, quanto al suo farsi, al suo essere traccia di una realtà. Negli anni Ottanta si assiste nel mondo dell'arte a un generale ritorno alle tecniche tradizionali e allo sviluppo di una nuova estetica che vede l'oggetto del quotidiano entrare come tale nelle installazioni degli artisti; le gallerie d'arte si allineano a queste produzioni che, a differenza delle avanguardie degli anni Sessanta, possiedono una propria sostanza e sono vendibili senza necessariamente ricorrere a espedienti documentativi, concedendo anzi prezzi più elevati data la loro unicità intrinseca, in quanto realizzate per mano dell'artista. Anche la fotografia è inclusa in queste opere installative, e diventa trait d'union fra la rappresentazione immaginaria del corpo dell'artista e il mondo che lo circonda, a lato e in consonanza con le prime indagini sociologiche sul ruolo della fotografia, che spostano la riflessione estetica su dimensioni più intime e riflessive.

Nel frattempo, i fotografi prendono le distanze dai circoli fotografici tradizionali per discutere le loro ricerche all'interno di spazi tangenti a quelli dell'arte contemporanea e sempre più internazionali, come il festival francese Les Rencontres d'Arles. Il clima è ancora piuttosto distaccato rispetto alle altre pratiche artistiche e l'attenzione è tutta rivolta a uno studio in profondità degli approcci teorici e pratici al medium fotografico. Dopotutto, questi sono anche gli anni dello sviluppo della fotografia digitale che, se dal punto di vista tecnico raggiungerà una forma qualitativamente efficace solo nel decennio successivo, da quello teorico induce subito una decisiva spinta verso l'abbandono di teorie ormai primitive, riguardanti l'automaticità e la presunta oggettività dell'opera fotografica intesa come semplice trasposizione dell'oggetto in immagine, finalizzate a contestare la posizione artistica della fotografia. Ed è così che la discussione sul carattere di artisticità della fotografia raggiunge il suo culmine, attraendo nell'arena numerosi studiosi provenienti dal mondo dell'arte, della semiotica, della comunicazione e della sociologia, che contribuiscono a creare per la prima volta una letteratura dinamica e diversificata intorno al fotografico, tra gli altri Pierre Bourdieu con La fotografia. Usi e funzioni sociali di un'arte media (1965), John Berger con Modi di Vedere (1972) e Susan Sontag con Sulla Fotografia (1977). Questo dialogo si svolge al di fuori delle nicchie specializzate – circoli fotografici, associazioni e riviste – e tende a riconoscere alla fotografia il ruolo di strumento e oggetto di riflessione artistica.

Quando negli anni Novanta la fotografia digitale comincia la sua dilagante diffusione – così come era stato per la fotografia analogica all'inizio del Novecento, con l'invenzione della prima macchina fotografica automatica della Kodak – la reazione del mondo professionale è quella di prendere le distanze in maniera netta dalle pratiche amatoriali e hobbistiche, cercando al contempo nuovi e inediti spazi per esprimersi. Infatti, come notato da David Bate, che affronta il fenomeno del digitale nella fotografia a scopo editoriale (pubblicità, ma anche moda e giornalismo), i professionisti della macchina fotografica assistono a un ulteriore elemento di perturbazione nell'ambiente lavorativo. Il digitale provoca infatti una traslazione del controllo degli elementi della fotografia dal fotografo al photo editor, dal momento che l'immagine computerizzata ben si presta alla manipolazione tecnica attraverso applicazioni informatiche di ampia diffusione come Photoshop, la cui prima versione risale al 1990. Quanto più vengono a mancare le condizioni di autonomia nella vita professionale del fotografo, tanto più la galleria si costituisce come uno spazio per l'affermazione della sua autorialità e della qualità della sua produzione rispetto a quella della massa di utenti e di amatori conquistati dalla semplicità dello strumento fotografico, ma privi di qualsiasi interesse nei confronti della ricerca e della riflessione sul linguaggio».

 

Chi sono

Denis Curti è direttore della sede milanese di Contrasto e vicepresidente della Fondazione Forma per la Fotografia. Direttore del Master post universitario di Fotografia di NABA e Fondazione Forma. Ha diretto la Fondazione Italiana per la Fotografia e ill Festival di Fotografia di Savignano sul Rubicone. Esperto del mercato del collezionismo, ha curato le prime aste fotografiche di Sotheby's a Milano e numerosi volumi sulla fotografia.

Sara Dolfi Agostini scrive di arte contemporanea per Il Sole 24 ORE e Arte e Critica. Tra i suoi diversi progetti, quello con la Fondazione Nicola Trussardi di Milano, la galleria Yvon Lambert di Parigi e con Fabio Cavallucci nei team di Manifesta 7, Alt Arte Contemporana e della XIV Biennale Internazionale di Scultura di Carrara. Isegna al Master "Photography and Visual Design" di NABA.

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