Il Maha Kumbh Mela 2013: Varanasi

 

Il racconto inizia da Varanasi, l'antica Benares («Vano è scrivere, vano è leggere; una bellezza non esiste se prima non la vedono gli occhi nostri. Ma prima ancora di saper leggere, io sognavo di Benares», scriveva Guido Gozzano in Verso la cuna del mondo), con un rapido passaggio nella vecchia Delhi, tra la grande moschea e il mercato ai suoi piedi, e tra i giardini e all'ombra degli stupa di Sarnath dove Buddha tenne il suo primo sermone dopo l'Illuminazione. Alle immagini e ai testi dei partecipanti che seguono, si aggiunge un gentile contributo di Francesca d'Aloja, scrittrice-attrice-documentarista, che viaggia insieme al gruppo.


© Antonio Politano - Varanasi, il gruppo in barca sul Gange

 

Una moschea, un fiume, un albero

di Davide Sciotti

Quando, nel riempire il modulo necessario alla richiesta del visto per l'India, si deve compilare la voce relativa alla religione di culto, tra le scelte offerte non compare quella dell'ateismo. Entrando nel Paese la prima cosa che l'occhio riesce a distinguere - dopo essersi destreggiato tra il groviglio di colori, traffico, animali e miseria - è quel sentimento di spiritualità. A Delhi visitare la moschea (alcuni dicono la più grande d'Asia) permette un incontro con la minoranza religiosa più consistente, quella musulmana. Il luogo di culto è rialzato, accessibile grazie a tre scalinate in arenaria rossa che introducono un enorme cortile, palcoscenico della moschea vera e propria. Secondo uno schema antropomorfo, così come le gambe precedono il busto che a su­a volta precede la testa (la cupola). L'atmosfera è carica di rispetto, di orgoglio. I fedeli in preghiera non vogliono essere fotografati e se ne stanno per lo più da soli o in piccoli gruppi, con il corpo rivolto alla Mecca, su tappeti bianchi e rossi lunghi decine di metri.


© Davide Sciotti. Delhi, la moschea di Jama Masjid, la più grande d'India.

La maestosità della moschea viene messa in ombra dalla costellazione di templi presenti a Varanasi, la città di Shiva bagnata da Devi Ganga. Ma qui il luogo di culto vero e proprio è creato dalla massa, dai pellegrini che sfilano in processioni interminabili per bagnarsi nelle acque purificatrici del Gange o, in molti casi, per morire. L'aspetto cruciale appare non tanto la preghiera formale, quanto la ricerca continua di purificazione, poco importa se in acque verdi e grigie. Fino al termine della giornata lo spettacolo è stupefacente: l'umanità spazia dal barbiere al sadhu, dall'occidentale convertito ai bambini che pescano monetine nel fiume lanciando una calamita legata a una fune. Calato il sole, inizia la cerimonia della buonanotte alla Dea, con sette officianti che si esibiscono in danze e canti tra incensi e petali di calendula.


© Davide Sciotti. Una donna santa e una vacca sacra.

Dal caos quasi perenne della celebrazione induista si passa, senza spostarsi troppo, alla quiete di Sarnath, luogo della prima predica del Buddha dopo l'Illuminazione raggiunta sotto un albero di ficus. Nel museo come nel tempio l'iconografia è semplice, meno sfarzosa di quella induista ma ugualmente espressiva. Il parco ospita monaci in preghiera e in meditazione, oltre che pellegrini che ripercorrono i passi di Siddharta. Aria placida, sole tiepido, silenzio da godere.

 

Vivere e morire a Varanasi

di Giacomo Fé

Questo è l'unico posto della Terra in cui gli Dei permettono agli uomini di sfuggire al ciclo delle reincarnazioni. Qui si può interrompere il samsara. Varanasi è la Città Sacra degli induisti, almeno una volta nella vita devono bagnarsi dai suoi ghat, i gradoni che scendono fino al fiume. È la città sacra delle abluzioni, dove vita e morte sono intrecciate, dove morire è una visione quotidiana come vivere, gioire e soffrire. Nel corso dei secoli milioni e milioni di induisti sono venuti a morire qui. Le pire ardono notte e giorno. Morire a Varanasi è un lusso per chi è cremato e un business per chi lavora al Manikarnika Ghat, il crematorio principale, il più antico. I parenti portano in spalla i loro defunti fino al fiume, i funerali sono felici e colorati, le salme arrivano anche da molto lontano, su macchine o su carri improvvisati, adornate a festa. All'entrata della città vecchia, si formano cortei che accompagnano il proprio morto. Camminano, inneggiano. Poi corrono, facendosi spazio tra strade affollate. Alcuni urlano Ram Nama Satya Hey, «il nome di Dio è verità». Altri rispondono Satya Hey Satya Hey, «verità verità». Scorrono veloci nei vicoli scivolosi, verso Manikarnika Ghat.


© Giacomo Fé. Cinque abluzioni per lavare i peccati e indirizzare l'esistenza verso il samsara.
L'acqua del Gange a Varanasi è un passaggio obbligato nel percorso spirituale degli induisti.

È un momento importante, il corteo grazie alla convinzione dell'interruzione del samsara non si fermerà più, fino a raggiungere la riva del Gange. Le mogli dei defunti accompagnano il funerale fino all'ingresso del ghat. Il corpo nel sudario è immerso nell'acqua della Madre Ganga e, purificato, viene adagiato su una catasta di legna, pesata e pagata su misura, coperto con stoffe colorate e cosparso con unguenti e olii profumati. I barbieri rasano testa e viso ai parenti, solo maschi. Lasciano solo un ciuffo dietro la nuca. Dopo la rasatura, in abito bianco camminano cinque volte intorno alla pira. Il primogenito, porta in mano il sacro fuoco di Shiva, è lui che dà vita alla cremazione. Il fumo si spande, si muove seguendo il vento, denso. Sale in alto e annerisce i muri dei palazzi che orlano il ghat, dentro aspettano la morte i vecchi senza famiglia.


© Giacomo Fé. In primo piano, la salma bagnata nel Gange e cosparsa di unguenti nell'attesa del fuoco sacro;
in secondo piano, una pira già brucia. Le cremazioni a Varanasi fanno parte del quotidiano.
Sullo sfondo, turisti guardano le cremazioni dalle barche.

Sulla riva i setacciatori recuperano qualsiasi gioiello o valore per consegnarlo al proprietario del ghat. La sua famiglia vigila qui da sempre. I resti sono sparsi nelle acque della Madre. Ora si apre la porta per il nirvana. Manikarnika Ghat interrompe i gradoni che seguono il fiume per quattro chilometri, funereo e necessario, con i suoi cumuli di legna arsa, le bandiere nere, terra e cenere. Davanti al ghat sono ormeggiati barconi che trasportano grandi carichi di legna sul Gange. Tutto è gigante, le pire che ardono sono giganti, le cataste di legna sono giganti, le bilance sono giganti. Non tutti possono essere cremati qua. Le donne incinte, i bambini sotto i cinque anni, i baba e chi muore per un morso di serpente, loro verranno affidati interamente, senza cremazione al Gange. I poveri non saranno cremati al Manikarnika Ghat ma nel crematorio a gas più a monte. Il tempo è scandito da mantra nell'aria e da colpi d'ascia. Spaccano i legni più grandi con cunei e martelli. La quantità che una famiglia compra per una cremazione va da 300 a 400 kg, dice un venditore di legna, deve durare almeno tre ore. Sono diversi i tipi di legno usato: il sandalo, per i ricchi, costa fino a 7000 rupie al chilo; il banyan e il mango si possono comprare per 2000 rupie. Il defunto deve essere cremato entro ventiquattr'ore. Chi non fa in tempo, o è troppo povero per la legna di sandalo, si deve accontentare dei forni elettrici o a gas, che fanno il lavoro in quindici minuti e costano 250 rupie. Si possono rassegnare a un normale ciclo di reincarnazioni fino al moksha, o liberazione, ottenuto seguendo il dharma, una vita fatta di buone azioni. In fondo, neanche in India la morte non è uguale per tutti.

 

Now, you can take a picture

di Giulia Zanetti

Vittime e protagonisti del flusso di mezzi, motori, clacson e colori si percorre l'ultimo tratto a piedi che porta al sacro Gange. Il fiume è ancora a qualche centinaio di metri ma la sua presenza è già forte nell'aria: i colori si fanno più saturi, le pelli più colorate e i capelli di coloro che risalgono dalle rive gocciolano dopo il rito di purificazione. L'imponente Dio Madre Ganga trasuda energia dalle persone che gravitano intorno alle sue sponde. Il ghat principale è invaso da venditori ambulanti, donne colorate, bambini, viaggiatori e turisti, mondi paralleli che qui si incontrano. Spuntano numerose macchine fotografiche, si soffermano a pochi centimetri dal naso di qualche santone che continua la propria preghiera. Il ghat sembra un'enorme piazza dove migliaia di persone seguono un flusso senza direzione e senza senso, un paradossale set di vita vera.


© Giulia Zanetti. Morire nella sacra Varanasi è per ogni induista un privilegio. Questa anziana donna, rimasta senza marito,
ha scelto di finire le sue giornate nelle case annerite dal fumo che si trovano sul gath del crematorio principale.

In prossimità dell'acqua venditori di fiori e candele fermano i turisti sottoponendoli a collaudati e veloci riti di purificazione in cambio di una donazione. Proprietari di piccole barche si offrono al curioso di turno proponendo un punto di vista magico dall'acqua. Donne e bambine vendono ogni sorta di oggetto e il tutto mentre viaggiatori e curiosi si appostano alle spalle di coloro che sono lì per la vera ragione, il bagno e la purificazione nel fiume sacro. Tutti gli induisti almeno una volta nella vita devono bagnarsi qui a Varanasi. Per questo la varietà delle persone che passano, seppur accumunati dallo stesso profondo scopo è così ampia. Spostandosi di qualche centinaio di metri lungo la riva si accede a dei ghat secondari, più piccoli e meno affollati. Camminando lungo le rive del Gange non sai mai chi o cosa ti troverai di fronte, quale tipo di persona attirerà l'attenzione, quale scena ti si presenterà davanti. Pire di legna dove bruciano i corpi di coloro che sono arrivati al Gange per farsi cremare si trovano a pochi metri da coloro che lavano i panni, dai colori rosa shocking al blu cobalto e dalle fantasie geometriche.  Mentre uno sguardo truce e serio raccomanda di non fotografare la morte davanti ai nostri occhi a due passi un sorriso semplice accompagna tra gli spruzzi e i giochi dei bambini.


© Giulia Zanetti. Un sadhu si fa strada tra la folla che cammina verso il gath principale di Varanasi.
Il tridente rappresenta l'arma di Shiva, dio distruttore di tutti i mali del mondo.

Avvicinandosi a qualcuno non si sa mai come reagirà alla vista della macchina fotografica che ci presenta ancora prima di poter realmente dire chi siamo. Però, quasi sempre, basta un saluto - namaste - e il volto si trasforma, gli occhi sorridono e anche in loro spunta la curiosità di conoscere. Fermarsi e sedersi sugli ultimi gradini di un ghat permette di fare incontri speciali, di scambiare due chiacchiere e di scattare qualche foto in serenità con loro e con il luogo. Un gruppo di donne, in un ghat che si trova verso i forni crematori principali, attira l'attenzione, le loro figure seminude si stagliano nel controluce del mattino e un riflesso dorato illumina gli schizzi e le gocce intorno ai corpi avvolti nei sari. Si parla prima con quelle più giovani conoscendo i loro nomi, la loro età e chi fa parte della loro famiglia. Piano piano si diventa parte della scena con i piedi talmente vicino all'acqua che la voglia sarebbe quella di abbandonare l'attrezzatura e buttarsi con loro. Poco distante un gruppo di donne anziane si riveste, una di loro vedendo la machina fotografica inizia a gridare in maniera aggressiva qualcosa, le altre appaiono divertite, sorrido salutando con un innocente namaste. Il gruppo un po' sorpreso ride sonoramente mentre la più anziana guarda con teatrale cattiveria. Dopo qualche secondo mi porge un angolo del suo sari, una dorata striscia di stoffa di oltre cinque metri. Il momento è grottesco e coinvolgente, e con abilità inizia ad avvolgersi dando ordini su cosa fare durante la complicata vestizione. Le risate intorno si fanno più sommesse e sembra di scorgere segni di approvazione. Finalmente, annodando l'ultimo lembo di stoffa si ferma, sorride e dice con dolcezza: «Now, you can take a picture!».

 

Gli occhi di una guida

di Guendalina Sabbatini


«Signori, benvenuti a Varanasi» dice Sanyu, guida turistica, bramino, quasi un filosofo. «È la città santa per gli induisti, come Gerusalemme per gli ebrei, Roma per i cattolici, Mecca per i musulmani», sottolinea su un minibus che procede verso le rive del Gange, il fiume madre. Baffi curati, maglione di un blu acceso, pantaloni ben stirati, è induista come lo è il 65 per cento degli indiani. «La nostra è la più antica religione al mondo», dice sobriamente, «ricca di un pantheon di divinità e demoni, basata sul culto di una Santa Trinità, Brahma, dio della creazione, Vishnu, dio della conservazione, Shiva, dio distruttore dell'universo. È l'unica religione in cui non si diventa induista ma lo si può essere solo dalla nascita».


© Guendalina Sabbatini. Lungo un ghat di Varanasi lo sguardo di una bambina senza nome sospende il tempo.

Poco importa, continua Sanyu, «tutte le religioni del mondo sono delle strade diverse per raggiungere la stessa cima». Ciò che è essenziale è «stare rivolti in piedi verso la montagna per cercare di salire sul punto più alto, il nirvana». Per lui l'induismo non è solo una religione, ma un modo di interpretare la vita, «sollevandola verso l'alto e liberandola dal proprio ego. Ogni strada può raggiungere la vetta perché tutte le religioni nascono dal cuore ma solo grazie ad esse si può avvertire il profumo del fiore», l'essenza che è racchiusa dentro di noi.


© Guendalina Sabbatini. Gruppo di donne si riposa tra stoffe colorate sulle gradinate di Varanasi dopo il bagno rituale all'alba.

Scorrono accanto al minibus un caos di risciò e motociclette, cartelloni pubblicitari, sfilano eleganti vetrine di sari. Tra la folla due sposi usciti da un film, carrettini carichi di scolari, ambulanze sfreccianti con sportelli aperti. Il tutto avvolto da una pashmina di odori intensi. Si gira verso sinistra: «Guardate i cortei di defunti e pellegrini diretti verso il Gange, dove tutto va a finire». Il cammino dei defunti e quello dei fedeli procedono di pari passo, si congiungono come mani in un saluto. La spiritualità si può trovare anche qui, nelle indicazioni di una guida-bramino-saggio. «Signori, da questa parte per le cremazioni».

 

Una visione sul Gange

di Francesca d'Aloja

Io mio padre non l'ho mai conosciuto. Intendo conosciuto davvero. Quando è morto avevo solo tredici anni e di lui ricordo i dettagli, le sopracciglia, i lobi delle orecchie, le mani affusolate, il rumore provocato dalle dita che accarezzano la barba da rasare. La vista e l'olfatto conservano la sua memoria, l'udito invece no, ho dimenticato la sua voce. Ricordo il suo modo di parlare ma non il suono di quelle parole. Però so di averlo rivisto, sette anni dopo la sua morte. A Varanasi, su un ghat lungo il Gange. Dopo la maturità decisi di fare un lungo viaggio in India, l'itinerario fu programmato sul posto, non avevo un percorso preciso da compiere, l'importante era l'India, per quanto immensa fosse. L'unica certezza, l'unica tappa imprescindibile era Benares, allora si chiamava ancora così. E avevo ragione, perché Benares è e sarà per sempre, il posto più incredibile del mondo. Ai suoi piedi il fiume scorre ma quel movimento liquido non cambia ciò che avviene sulla terra, i rituali sono gli stessi da secoli e da secoli si ripetono immutati, e io dovevo farne parte. E così, brancolando nei fumi delle pire, vagavo sui ghat e cercavo di assorbire tutto ciò che mi circondava. Centinaia di persone attorno a me si lavavano, si sposavano, cantavano, danzavano, morivano. E io vivevo.


© Francesca d'Aloja, Sui ghat di Varanasi

Era ormai buio e dal fiume saliva una condensa lattiginosa che sembrava alterare i contorni delle cose, ma ciò che vidi era chiarissimo: un uomo stava seduto sotto una tenda fatta di stracci cuciti assieme. Aveva le gambe incrociate e sull'incavo delle cosce che fungevano da piano di lavoro, intrecciava dei ramoscelli per farne delle ceste. Accanto a lui ce ne erano una ventina di fogge e dimensioni diverse, segno che l'uomo stava lì da tempo. Il viso era chino, lo sguardo concentrato sulle mani. Mani affusolate. Mi fermai, non so perché. E lui fece lo stesso: si fermò e mi guardò. Nonostante il turbante color zafferano, nonostante l'incarnato, nonostante la barba non ebbi alcun dubbio: era mio padre. I suoi erano gli occhi di mio padre e così la bocca, il naso, il sorriso. Perché, dopo aver rivolto lo sguardo verso di me, mi sorrise, e io sentii un calore salire dai piedi verso l'alto, sì, lo sentivo salire come una marea e non ebbi desiderio di altro, se non di restare lì, a guardare mio padre intrecciare la paglia.

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