Il Maha Kumbh Mela 2013: People

 

Il racconto del viaggio-workshop in occasione del Maha Kumbh Mela termina con l'ultima corrispondenza dedicata agli incontri sul cammino. Gente comune, volti, ambienti, storie, transiti parziali in pezzi di vita quotidiana. Prima di lasciar spazio alle immagini e ai testi, ci piace citare alcuni brani luminosi, illuminanti. Di Ennio Flaiano, da Di passaggio a Bombay: «Ho visto qualche strada, scambiato qualche parola, non ricordo nemmeno bene i volti delle persone con le quali ho parlato. Un giorno a Bombay, sembrava uno scherzo, ma è come guardare per un attimo l'India dal buco della serratura. La notte scorsa tornando verso l'albergo quanta gente dormiva sui marciapiedi, sotto i portici, nei cortili? Bisognava fare attenzione a dove mettere i piedi. Non ho provato né schifo né pietà e nemmeno paura. Tutto mi sembrava rientrare in un ordine a me sconosciuto ma del quale potevo intuire la calma e persino la saggezza. Debbo dire che ero stranamente felice. O soltanto incapace di giudicare». Di Antonio Tabucchi da Notturno indiano: «Il Quartiere delle Gabbie era molto peggio di come me lo ero immaginato. Lo conoscevo attraverso certe fotografie di un fotografo celebre e pensavo di essere preparato alla miseria umana, ma le fotografie chiudono il visibile in un rettangolo. Il visibile senza cornice è sempre un'altra cosa». Di Heinrich Zimmer da Miti e simboli dell'India: «Il vero tesoro, quello che porrà fine alla nostra miseria e alle nostre tribolazioni, non è mai lontano; non bisogna cercarlo in regioni lontane; giace sepolto nel recesso più segreto della nostra stessa casa, o in altre parole, nel nostro essere. Ma c'è il fatto strano e costante che solo dopo un viaggio devoto verso una regione lontana, un paese straniero, una terra sconosciuta, il significato della voce interiore che deve guidare la nostra ricerca ci può essere rivelato».


© Antonio Politano - Sul treno, di ritorno dal Kumbh Mela.

 

Perdersi, aspettare, prendere, lasciare

di Giacomo Fè

L'india è un continente, un sub-continente, che mi ha sempre regalato tanto, dal nord al sud. Mi piace camminare in India. Mi piacciono le città caotiche e sporche, mi piacciono le campagne, calme e con orizzonti lunghissimi. C'è così tanto da fotografare in India, che a volte non si capisce bene da dove cominciare. Voglio sorvolare sui colori dell'India. Se c'è una cromoterapia, è qui che l'hanno inventata. Così, forse, basta perdersi un po' e aspettare che la fotografia trovi te, devi solo rispondere.


© Giacomo Fè - Una ragazza elegantissima nel suo sari, incrociata per un attimo nel ritorno dal Sangam ad Allahabad.

Le persone sono accoglienti con i viaggiatori, namaste diventa una forma materica, più che una parola. Spesso sono incastonate in sfondi perfetti, l'India nei suoi angoli umidi e colorati è sempre quella per fortuna. Quando incontro un viso, una situazione che mi incuriosisce, cerco di capire, anche solo per poco, chi sto fotografando, magari aspettando che si dimentichi di me. A volte faccio il contrario, cerco lo sguardo diretto, uno sguardo che mi faccia entrare nella foto, che mi porti dentro quel 4/3 di mondo ritagliato. Ci sono delle persone, le vedi e sai che staranno tutta la vita lì, perché sono in casa o perché sono talmente ben adagiate su un muro che ne fanno parte, è familiare per loro. Così puoi tornare quando pensi ci sia una luce migliore. Tornare la seconda volta è diverso.


© Giacomo Fè - Sandeep va fiero di essere indiano e rappresentante di un'arte antica che ancora oggi trova la sua
ribalta ad agosto nei tornei chiamati Dangals a Varanasi: il Gym o Pehlwani, antica lotta ibrida indiana/persiana.
Il suo vincitore assoluto ha il titolo di Rustam-i-Hind.

E tutti questi volti, che ogni fotografo porta via, vincono una specie di immortalità oppure sono destinati a accendere domande nel tempo. Quel ragazzo che fa ora? Quella donna, dove è andata poi? Quel bambino è diventato un uomo? Queste domande restano spesso in sospeso, lasciano all'immaginazione di ognuno una risposta, un pensiero. Ma loro, i nostri soggetti, si ricorderanno di quel fotografo che quel giorno chiese loro una foto? Sicuramente abbiamo preso qualcosa, ma forse abbiamo lasciato un attimo che per loro è stato un momento da protagonisti.

 

Un no che significa sì

di Giulia Zanetti

L'affermazione che più mi ha colpito sfogliando la guida quando ancora mi trovavo in Italia è stata questa “In India capita che le persone fanno no con la testa per dire sì”. Tutto vero. In realtà non si tratta di una vera e propria rotazione della testa, ma una specie di buffo dondolio, simile a un movimento di danza. Questo piccolo gesto è forse la più grande dimostrazione delle differenze gestuali, di linguaggio e dei modi di fare che ci differenziano da questo popolo. Parlare delle persone e della grande umanità trovata in India è davvero difficile. In India non ti senti mai solo. Ogni piccola sosta riserva delle sorprese e sicuramente qualcuno si fermerà a chiederti qualcosa. “Da dove vieni? Come ti trovi in India? Come ti chiami?” sono le domande più comuni. Per chi fotografa la vita in India è davvero facile, le persone sono curiose e accoglienti. Spesso con un namaste e un sorriso si crea una bella connessione e si può facilmente instaurare un rapporto con chiunque attiri la nostra attenzione. È però forse l'accoglienza la vera chiave di lettura di questi incontri. Non solo in situazioni estreme come al Kumbh Mela dove trovandoci in mezzo alla folla un gruppo di persone in un ashram ci ha accolto, offerto cibo, bevande e un riparo sicuro. Ma anche nella vita di tutti i giorni. Al mercato un simpatico venditore, per dimostrarmi ospitalità, ogni volta che passavo mi regalava qualcosa, prima una carota, poi un pomodoro e per finire, quando gli ho chiesto un'indicazione, ha fatto il gesto di prestarmi le chiavi del suo motorino.


© Giulia Zanetti - Rashina è una donna sposata, il segno rosso verticale nell'attaccatura dei capelli ne è la testimonianza.
Aspetta il treno insieme al marito e ai suoi genitori alla stazione di Allahabad avvolta nel suo elegante e prezioso sari.

Siamo rimasti per circa quattro ore in attesa di un treno che da Allahabad avrebbe dovuto portarci a Khajuraho. È stata forse una bella fortuna che quel treno non sia mai partito. Quelle quattro ore alla stazione sono stati i momenti più preziosi che conservo dentro. Gruppi di donne colorate sedute a cerchio, intere famiglie, militari, pellegrini solitari e locali divertiti dalla nostra presenza. Dai finestrini dei treni in sosta piccoli quadri e ritagli di vita quotidiana ci passavano davanti tra saluti e grida dei bambini. Mi sono seduta con un gruppetto di donne anziane. I loro sari, i loro ornamenti e i loro occhi hanno attirato la mia attenzione. È bastato fare loro una foto di gruppo e mostrargliela per sollevare l'ilarità generale. Sono rimasta almeno mezz'ora in loro compagnia, si divertivano a farsi ritrarre e a commentare le foto, sistemavano il velo o l'abito se non erano soddisfatte del risultato e mi chiedevano di ripetere lo scatto. Piano piano giungevano gli uomini che mi chiedevano di essere fotografati a loro volta e improvvisamente tutti non solo avevano accettato la nostra presenza, ma ci hanno accolto come in una grande famiglia offrendoci cibo e sorrisi. Quasi nessuno parlava inglese, solo una bambina di dodici anni. Questa principessina è rimasta seduta ore di fianco a noi, insieme a tutta la sua famiglia. Tutte le persone incuriosite andavano da lei a chiedere notizie sul nostro conto. Una signora di nome Gudiya con due figlie e il marito mi ha addirittura dato il suo numero di cellulare e mi ha fatto promettere di passare a trovarla dalle sue parti, a Lucknow sempre nella regione dell'Uttar Pradesh..


© Giulia Zanetti - Gudiya è una ragazza di 15 anni. È in attesa del treno per tornare a Bhopal, la sua città.
Con lei i suoi tre fratellini e i suoi genitori. Non importa quanto ci sia da aspettare, l'attesa è un bel
momento di condivisione e serenità, anche con qualche curiosa turista occidentale!

E allora ecco che, una volta a casa, non importa che le strade non fossero pulite, che gli animali e gli uomini condividessero le strade e le case. Mi resterà nel cuore il valore di quel no, che significa sì. Di un'accoglienza sincera e di un popolo dal cuore semplice e ospitale. Le contraddizioni dell'India sono forse molto più reali e vere di una nostra vita pulita ed elegante ma spesso basata su apparenze e sguardi diffidenti. Mi resterà la luce dei colori dei sari anche delle donne più povere che vivono nella semplicità di una grigia baracca lungo la strada. Mi resterà la grandezza delle intenzioni di un guidatore di tuc tuc che si ferma nel bel mezzo di una rotonda per dare da bere a un assemblamento di piccioni, la forza e la positività di coloro che vivono in una condizione che per noi risulta inconcepibile, ma che per loro è solo un altro modo di affrontare la vita. Le energie positive, il karma, la meditazione, qui non sono solamente pratiche di moda ma un concreto e reale modo di vivere e di trarre da ogni situazione una ventata di positività. E così, da un terrazzo che sovrasta la città e in sottofondo i rumori del traffico e il tipico suono di milioni di clacson, saluto l'India e questo popolo mentre un cameriere, gongolando con la testa, risponde alla mia richiesta di poter bere un chai. La promessa è ovviamente quella di tornare molto presto.

 

Incontri in aria, in terra, attorno all'acqua

di Davide Sciotti

Volo Delhi-Varanasi, giorno. Seduto lontano dai miei compagni di viaggio, mi viene commissionata una ripresa aerea. Ovviamente non sono accanto al finestrino, e chiedo al mio vicino indiano di posto di potermi scambiare con lui. All'inizio sembra infastidito, poi attacca bottone: è la fine. In un'ora di viaggio racconta e si fa raccontare di tutto, vuole vedere le foto che ho fatto, mi fa vedere quelle della sua famiglia, mi insegna a pronunciare il suo nome, inutile dire che non lo ricordo. Sta andando a Varanasi per il matrimonio di un amico, quasi ci invita.


© Davide Sciotti - Passeggeri su un treno in corsa, alla stazione di Allahabad.

Kumbh Mela, notte. Nel campo dei pellegrini, sapendosi muovere e con un po' di fortuna, è possibile approdare alla mensa comune. La gratuità del servizio è resa disponibile dalle donazioni dei fedeli più ricchi: in centinaia cenano, ma gli occidentali non sono visti con diffidenza. Anzi. Quando un po' spaesati ci ritroviamo all'ingresso, la prima cosa che sentiamo dire è «Do you want to eat?». Impossibile rifiutare, la fame è troppa e l'esperienza si preannuncia interessante. Ci sediamo su dei lunghi tappeti, in fila con altri, e in un attimo ci servono, su un piatto di foglie di bambù intrecciate, varie portate di riso, lenticchie, ceci, chapati, frittelle, acqua. Si mangia con le mani, all'indiana, velocemente ma senza fretta. Un ragazzo si presenta, ha vent'anni, è il suo terzo Kumbh Mela. Un veterano. Nel suo inglese inizia a fare domande, è curioso. Finisce di mangiare mentre noi ancora combattiamo con il riso e cerchiamo, il più discretamente possibile, di non bere l'acqua che continuano a servirci. Dopo qualche maldestro tentativo la cena finisce, e sazi ci alziamo. Un bambino si avvicina; è uno dei camerieri, ha servito il riso. Si mette a chiacchierare, non è affatto timido. Qualcuno di noi lo fotografa, e lui coglie l'occasione: si fa prestare la macchina, inizia a ricambiare il favore. I dieci minuti successivi li passiamo a eseguire gli ordini di quello che confidiamo diventi un gran reporter. A gesti dà indicazioni perentorie, spostati così, mettiti là, sorridi. Si fa passare le diverse macchine, vuole immortalare tutti noi, singolarmente e in gruppo, poi si aggiungono altri camerieri per foto-ricordo. Finito il gioco, ci invita nella sua tenda per conoscere la sua famiglia; ma non c'è tempo, vogliamo andare a vedere cos'altro ci offre il posto.


© Davide Sciotti - Un giovane cameriere scopre la fotografia, Allahabad.

Girando qua e là attiriamo le attenzioni dei passanti, che spesso e volentieri ci fermano per chiedere foto con noi, scambiare e-mail, sapere come ci troviamo nel loro paese, salutarci o semplicemente sorridere. Per qualche attimo ci si sente quasi delle celebrità, è divertente. Stanchi ci sediamo su un tronco accanto alla tenda di un santone e, per la nostra diversità, attiriamo sempre più gente, la foto è d'obbligo, qualcuno chiede anche di alzare la mano destra a mo' di baba, salvo poi essere cacciati dai vicini ingelositi. India curiosa, cordiale, generosa, un posto in cui un saluto è ricambiato. Anche se non è tutta qui, la si porta con sé a casa e fa sembrare l'Italia un po' grigia.

 

Sentire l’India

di Guendalina Sabbatini

«Allora ti è piaciuta l’India?», chiede un professore indiano alla stazione di Allahabad, curioso della nostra presenza. «L’india è affascinante», rispondo. Veniamo a sapere del ritardo del nostro treno che avrebbe dovuto condurci a Khajuraho, quindi decidiamo in fretta di lasciare la stazione per cercare un autobus. Sono costretta ad abbandonare la conversazione. Ci salutiamo, non soddisfatti del poco tempo avuto a disposizione. Durante il viaggio in autobus, di notte, provo a pormi la stessa domanda, cercando di formulare risposte più esaustive. L’India colpisce, forte, nello stomaco e nei sensi. Avvolge in una dolcezza che illanguidisce, fa vacillare tutti i punti di vista di occidentale, droga con la sua aria speziata, stordisce con il suo traffico di mezzi, situazioni, genti. Aggredisce con la sua povertà e con i problemi evidenti della sua umanità, incanta con lo spessore della sua filosofia, trascina in un vortice incomprensibile di rituali sacri, presenta milioni di divinità di cui si fa fatica persino a ricordare il nome. Non la si può conoscere ma si riesce a riempire un bagaglio di impressioni, vaghe ma immediate.


© Guendalina Sabbatini - Un naga baba, nudo e ricoperto dalle ceneri sacre di Shiva,
si prepara alla processione nella notte del Main Royal Bath.

Non c’è nulla di più immediato degli occhi degli indiani. Neri, profondi, intensi, esplorano, indagano, studiano. Lo sguardo di un indiano si avverte a decine di metri di distanza. È curioso, ma non invadente. È enigmatico, ma accogliente. Incisivo, dominante, mai destabilizzante. Non avvicina, ma nemmeno allontana. Un indiano è avvolto da un’aura di mistero, nascosto da un codice antico di comportamenti e di linguaggi. Pier Paolo Pasolini, nel suo L’odore dell’India ha scritto: «Ci si può smarrire in mezzo a questa folla di 400 milioni di anime [...] come in un rebus di cui, con la pazienza, si può venire a capo: sono difficili i particolari». I particolari si perdono in un caos di tradizioni, saperi, filosofie, religioni sconosciute, ma può essere carpito il loro sacro senso di ospitalità, accoglienza, tolleranza, sintetizzabili nel tipico cenno ondulatorio con la testa, gesto di assenso e disponibilità.


© Guendalina Sabbatini - Gruppo di fedeli si riunisce attorno ad una guida spirituale lungo un ghat di Varanasi.
È facile imbattersi in dibattiti filosofico-religiosi improvvisati in cui la fede viene raccontata, insegnata e condivisa.

Immergersi nell’India significa cercare l’ebbrezza dell’ignoto che si cela dietro contatti occasionali. L’India che rimane impressa è la condivisione di un bagno nel Gange, di un pasto in una mensa per pellegrini, di un fuoco improvvisato che riscalda in una rigida notte sacra. L’India che affascina è la benedizione di un baba, l’acrobazia di uno yogi,  un uomo che medita per ore sulle gradinate di Varanasi, un sikh che partecipa al più grande raduno induista della storia. L’India che rimane nel cuore è un bambino-fotografo in una mensa durante il Kumbh Mela, è un’intera famiglia che offre il proprio pasto alla stazione di Allahabad, è un giovane adepto di un baba che ci mette in salvo dalla folla, è un gruppo di ragazzi che vuole fotografarci, è un pellegrino povero che ci sorride mentre lo osserviamo. Lasciamo l’India con le parole di Alberto Moravia: «Neppure io so veramente che cosa sia l’India. La sento, ecco tutto. Anche tu dovresti sentirla. Cosa vuoi dire? Voglio dire che dovresti sentire l’India come si sente, al buio, la presenza di qualcuno che non si vede, che tace eppure c’è».

 

L’India di mio figlio

di Francesca d’Aloja

Kumbh Mela. Erano anni che l’aspettavo. Sarei dovuta andare insieme a una mia amica fotografa 12 anni fa.  Per stupide ragioni non ci riuscii, ma ho sempre saputo che prima o poi ce l’avrei fatta. Il lungo intervallo ha dato il tempo a mio figlio di crescere e così, 12 anni dopo, ho pensato che il mio compagno di viaggio ideale sarebbe stato lui. Tano ha 19 anni e questa era l’unica occasione per condividere un’esperienza così speciale. Non avremmo potuto aspettare oltre, 19 anni sono l’ultima frontiera per un viaggio madre/figlio, le strade inesorabilmente si dividono e i percorsi diventano individuali. Così è stato per me, così sarà per lui.


© Francesca d’Aloja - Naga baba in processione, Allahabad.

L’India è un viaggio iniziatico per definizione, ma partecipare al Kumbh Mela è un viaggio nel viaggio. Oggi posso dire, dopo aver viaggiato in lungo e in largo e aver avuto esperienze sufficienti a farmi credere di aver dato un senso alla mia vita, che partecipare al Kumbh Mela è stata una delle cose più straordinarie che abbia mai fatto. Una delle più folli.


© Tano Risi - Lungo le rive della confluenza dei fiumi sacri, Allahabad.

Ho provato tutte le sensazioni possibili: stupore, fastidio, meraviglia, incredulità, beatitudine, paura, gioia. Temevo di soccombere alla folla sterminata, io che mi faccio prendere da attacchi di panico in metropolitana… E invece no. Non so come né perché ma la moltitudine in India non mi incute terrore, non mi sento minacciata dalla folla. Mi sono lasciata trasportare dal fiume di corpi che sfilavano gioiosi ed esaltati accanto a me, ho cantato e urlato insieme a loro, ho camminato per ore e chilometri, le orecchie colme di suoni infernali e paradisiaci al tempo stesso, e stringendo la mano a mio figlio, che dall’alto del suo metro e novanta vedeva ciò che gli altri immaginavano, siamo arrivati al Sangam, alle prime luci dell’alba, per assistere al Bagno Sacro dei naga baba. Ecco, lì mi sono detta “Brava. È uno dei più bei regali che avresti potuto fare a tuo figlio”. Mi sono voltata verso di lui, per riempirmi gli occhi del suo stupore, e l’ho visto mezzo spogliato, pronto a gettarsi, anche lui, nel Gange. L’ho seguito fino alla riva con un misto di preoccupazione e di orgoglio e quando l’ho visto immergersi nel Sacro Fiume ho capito che ci sarebbe tornato, un giorno, da solo. Il mio compito finiva lì.

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