Rory Cappelli

A cura di:

Corpi in movimento

Danza. Corpi in movimento. Come parole che disegnano la vita, come colpi di pennello che raccontano una storia, quei corpi stanno lì, in fondo, oltre il buio della sala, sopra il palcoscenico, immersi in uno scorcio di luce improvviso, audace, caldissimo, vibrante come in un quadro di Caravaggio, che crea giochi di ombre, di chiaro-scuri, di colori, di monocromatismi. Che sia l'India, la Cina o un teatro off di Roma o Milano, è ovunque la stessa voglia di esprimere - attraverso il gesto - un sentimento, una verità, un'illuminazione improvvisa e guizzante, altrimenti inaccessibile. L'occhio dietro l'obiettivo ed ecco vicini e ingranditi quei volti perfetti e come scolpiti dalla luce, quei corpi che dicono come le parole non potrebbero mai: è quasi uno spiare nell'intimità, nel profondo; vedere ciò che a occhio nudo, con l'occhio dello spettatore, non può essere visto; cogliere quel messaggio indecifrabile che sta dietro tutto, oltre la prima, la seconda, la terza apparenza: oltre il testo e il suo significato letterale; oltre il gesto ripetuto che diventa stile; oltre l'espressività dell'insieme.
L'occhio del fotografo in un teatro è occhio altro: è il ponte tra i danzatori, le danzatrici, e il pubblico potenziale, tra chi lì non è e non potrà essere. Il fotografo è lo story-teller, l'interprete, il "guardone". In questo gruppo di fotografie sono testimone, interpreto, "spio" e racconto tre storie diverse, lontane nel tempo e nello spazio: quella della danza Kathakali, tradizionale dell'India del sud; quella della danza di corte della dinastia Tang, che aveva per capitale l'odierna città di Xi'an. E infine quella del teatro-danza della compagnia romana Giuseppina von Bingen, che racconta con ironia e humor spesso nero anzi nerissimo storie di amori e tradimenti, di solitudini e sovraffollamenti.

Tre approcci, tre metodologie, tre modi di intendere e interpretare la danza lontani nel tempo, nello spazio, nella poetica. Eppure vicini: nel loro farsi storia, mito, nel loro voler raccontare i desideri, le miserie, le manie, la bellezza, la poesia, il coraggio, le passioni, il vuoto: insomma quell'amalgama indescrivibile che è il cuore umano.

La danza Kathakali è originaria del Kerala, Stato dell'India del Sud. Viene rappresentata un po' ovunque: ma l'ortodossia di questo tipo di danza in bilico tra il mitologico e il fantastico viene custodita in una strada sterrata di Ernakulam (il quartiere moderno di Cochin), alla See Indian Foundation, dove si trova una scuola che è anche un semplice e disadorno teatro. Il palcoscenico è costituito da una pedana con un lenzuolo nero sullo sfondo; gli attori, come nel teatro greco, sono tutti uomini. E la gestione è affidata a Mr. P.K. Devan che da oltre 30 anni insieme alla sua famiglia replica ogni sera uno spettacolo. Mr. Devan oggi ha più di 70 anni: appare in scena con una lunga tunica nera giunge le mani, si tocca la fronte alla maniera indù e inizia a spiegare le origini di questa forma di danza, nata sei o sette secoli fa, e che drammatizza episodi tratti dal Mahabharata e dal Ramayana, in almeno cento varianti, con legami e digressioni che riguardano lo yoga, la medicina ayurvedica e anche, nell'interpretazione di Devan, una sorta di introduzione all'induismo. Prima che inizi lo spettacolo si assiste al trucco degli attori, che in molti casi si dipingono proprio in scena, con colori fatti con minerali in polvere e linfa estratta dagli alberi, olio di noce di cocco, corteccia di piante battuta e altro. I danzatori della Kathakali sono accompagnati da percussionisti e suonatori di armonium: prima di iniziare spiegano al pubblico il significato simbolico di una serie di movimenti del viso, degli occhi, della braccia e delle mani, come il riso, il pianto, la crudeltà, la bontà, la rabbia, l'amore, il Dio, la donna, la bambina, il marito, l'amante. Le unghie della mano sinistra sono allungate di diversi centimetri con unghie finte di alluminio, per permettere alle dita di giocare di volta in volta come fossero ventagli, fiori, gioielli. La rappresentazione in sé poi è abbastanza semplice, riguarda gli amori e i dispetti tra gli dei e gli umani, nel rapporto tra la cosidetta "sacra trimurti", formata da Brahma il creatore, Vishnu il conservatore e Shiva il distruttore, con il resto dei 350 milioni di demoni e déi minori che costituscono l'impossibile panthéon dell'induismo. Seguendo il ritmo delle percussioni, gli attori mimano e danzano le storie, che un tempo duravano tutta la notte, oggi ridotte a spettacoli di circa un'ora e mezza. Anche nelle versioni più povere il Kathakali è sempre una festa di colori e maschere, nonostante la difficoltà iniziale per un occidentale nel seguire una traccia di trama che si perde appunto nei mille rivoli di una folla di simboli, che in realtà sono però l'esemplificazione della natura divina nelle sue molteplici facce. Naturalmente alla fine il bene sconfigge il male, l'amore vince, l'ironia asciuga le lacrime.

La danza che narra le gesta della dinastia Tang si tiene invece a Xi'an (che significa Pace Occidentale), com'è oggi chiamata quella che è stata l'antica capitale di 11 diverse dinastie, Chang'an, una città di origini antichissime da cui partiva la Via della Seta. È conosciuta per quello che è stato il ritrovamento archeologico del secolo scorso, avvenuto nel 1974: l'esercito di terracotta, un imponente e decisamente impressionante monumento funebre formato di decine e decine di guerrieri in terracotta in grandezza naturale, cavalli, sempre in terracotta, e armature e altri guerrieri e altri cavalli in bronzo che furono voluti, per accompagnare la sua sepoltura, dall'imperatore Qin Shi-Huang-Di. L'epoca della dinastia Tang, che data dall'inizio del settimo all'inizio del decimo secolo d.C. (618-907) è passata alla storia come "l'epoca d'oro" per lo spazio, l'importanza e la fioritura senza precedenti che ebbero, grazie alle condizioni economiche, politiche e culturali, le arti, la poesia, la letteratura. Ma anche perché proprio con la dinastia Tang ci fu l'unificazione del paese dopo 400 anni di divisioni, disordini e guerre: e questo è ciò che narra lo spettacolo attraverso spettacolari costumi, musiche e danze che, appunto, senza bisogno di parole, raggiungono tutti gli spettatori – e tra il pubblico sono moltissimi gli occidentali – narrando le gesta e l'apertura anche religiosa (fu possibile la coesistenza di diverse scuole, come il confucianesimo, il buddismo e il taoismo) e un generale, diffuso, benessere.

Con la Compagnia Giuseppina Von Bingen le interpretazioni non sono necessarie, le spiegazioni tanto meno: siamo nell'oggi, in una realtà che è la realtà degli uomini e delle donne che conosciamo, la nostra realtà. La sua danza, la danza di Giuseppina Von Bingen e della sua coreografa, della sua anima, Oretta Bizzarri, è una danza che si fa voce, che parla al pubblico: sussurra, grida, nasconde, dice, ritratta, dice ancora. Sono parole appese nel vuoto, accompagnate da un gesto ripetuto, ripetuto, ripetuto, che si fa parola esso stesso, nevrosi quasi, pietoso rimbrotto del corpo ossessionato da un cervello troppo presente. Parole che, insieme ai gesti appunto, raccontano gli amori: amori di donne sole, di donne lontane, di donne abbandonate, di donne fatali, di donne fataliste. Amori di coppie lacerate, di coppie certe, di coppie che si nascondono, che giocano a non essere ma sono, che sono ma non sembra: e la solitudine torna a incombere, a minacciare. Ma lo fa con ironia, con estremo garbo, con una risata finale. Che non ha seppellito nessuno. È rimasta quello che è.

Chi è
Rory Cappelli, fiorentina trapiantata a Roma, ha vissuto a lungo anche a Milano. Giornalista e fotografa per "I Viaggi di Repubblica", ha lavorato per "Carnet", "Art e Dossier", "Panorama" e molti altri
settimanali e riviste nazionali. Ha vinto diversi premi giornalistici, sta scrivendo un libro e preparando una guida. Amante da sempre di viaggi e fotografia è riuscita a coniugare nel suo lavoro questa doppia
passione. Nel tempo libero, osservata dal suo gatto Gadir che a volte partecipa, dipinge (a metà marzo, a Roma, inaugura la sua prima personale).

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