Interviste

A cura di: Antonio Politano

Alla ricerca del punto di vista impossibile

Massimo Sestini

Lady Diana in bikini e la strage di Capaci, le copertine con i vip e la Costa Concordia adagiata su un fianco, i barconi dei migranti e le macchine fotografiche nascoste sotto la cravatta, il lavoro per i tempi ristretti delle redazioni e l’ultimo calendario della Polizia. Massimo Sestini per gli addetti ai lavori è una garanzia, un fuoriclasse che riporta a casa il servizio in tempi brevi e grande professionalità. Viene dalla scuola dei paparazzi, si fa testimone di pezzi di realtà, attimi dal palcoscenico variopinto che gli offre la cronaca. Istinto, adrenalina, impegno, divertimento, sfida. Andare sulla notizia per documentare. Provare a trovare sempre un punto di vista inedito, la cifra che lo identifica. Di seguito si racconta a Sguardi, non rinunciando a fotografare - tra una risposta e l’altra - gente che passa davanti ai suoi occhi eternamente vigili, «dei signori vestiti da palombari in città, con tute d’alta quota, forse una pubblicità».
 


Un barcone di rifugiati recuperati dalla Marina Italiana durante l’operazione Mare Nostrum, 20 miglia al largo della costa libica, 2014

 

Partiamo dal tuo ultimo progetto, “Where are you?”

È un progetto che è nato per caso, uno dei primi che faccio in vita mia per puro interesse personale. Non è un progetto per un servizio da fare e poi da vendere. È nato perché in Svizzera, a una mostra del World Press Photo, un migrante si era riconosciuto nella mia foto esposta dentro la mostra. Quando sono partito per fare quella foto del barcone ho avuto nove giorni di mare forza 7. Vuol dire che facevano sì salvataggi, ma che l’elicottero che era a bordo della nostra nave, la Fregata Bergamini della Marina Militare Italiana impegnata nelle operazioni di salvataggio Mare Nostrum, non poteva alzarsi ma soprattutto non poteva riatterrare. Sono stato a botte di otto o dodici giorni alla volta fermo in mezzo al mare. Poi quella foto, di un barcone pieno di migranti a venti miglia dalla costa libica e del loro saluto di speranza, ha vinto il secondo premio General News single del Word Press Photo 2015. Il migrante che si era riconosciuto era andato dall’organizzatore, chiedendogli se era possibile avere una stampa di quella foto. L’organizzatore mi aveva chiamato, dicendomi che non aveva i contatti del migrante ma che forse sarebbe ripassato. Io gli ho detto, “guarda, se ripassa, fatti dare tutto perché io la foto gliela regalo, ma voglio andare a trovarlo”. Da lì è partito il progetto. Abbiamo pensato di andare a cercare i migranti che io avevo fotografato sulla barca. Abbiamo fatto un appello a livello planetario: se riconosci te stesso o qualcuno che conosci, contattaci; ci piacerebbe ascoltare la tua storia e cosa è successo dopo il naufragio o il salvataggio. Abbiamo diffuso l’appello attraverso tutti i social, ce l’hanno rimandato da Time alla BBC in tutto il mondo. Abbiamo cominciato ad avere una trentina di risposte di migranti, che siamo andati a trovare e a fotografare per fare vedere a due anni di distanza come e dove sono finiti con le loro famiglie.

Queste foto non le hai pubblicate, le tieni da parte per il momento.

No, assolutamente. Sono lavori in corso. Quando avrò finito, e per me finire non significa fare un numero di migranti ben preciso, ma badare al fatto, alle storie che mi piacciono, mi fermerò e a quel punto pubblicheremo questo lavoro.
 

Guarda il video
Le immagini del reportage sui migranti di Massimo Sestini fanno parte del video “Mediterraneo, la nostra frontiera liquida” realizzato da Gabriella Guido e Rosalba Ferba, con testi di Erri De Luca e musiche di Giovanni Luisi, prodotto dalla campagna LasciateCIEntrare

 

Siamo partiti dalla fine, quasi. Ma una domanda un po’ generale potrebbe essere come si è evoluta la tua fotografia, se tu rintracci un’evoluzione. Dalle prime immagini di spiagge e concerti alla principessa Diana in bikini a progetti come quello sulle persone migranti.

Si è evoluta alla ricerca sempre di qualcosa di più creativo a livello interiore. Il fotogiornalismo è qualcosa dove si consente molto alla tua creatività, ma nello stesso tempo hai dei parametri da rispettare che sono dover portare a casa una foto che deve documentare l’istante che hai davanti. Quindi spesso e volentieri la creatività se ne può forse andare in malora, se stai fotografando qualcuno che sta sparando a qualcun altro. Magari stai facendo una cosa brutta per il tuo gusto creativo, ma sai che in quell’istante o la fai così o non la farai mai. Quindi diciamo che il giornalismo non è mai tranquillo. Lavorando per i giornali, tu devi dare le foto, sempre, subito, immediatamente. Non fai un lavoro d’inchiesta e dici “ora vado a fare un lavoro sui migranti e ci metto sei mesi”, come Where are you? oppure due anni. Ora ho capito che mi diverte quasi di più guadagnare di meno, cioè fare meno servizi, ma affrontare un tema e svolgerlo. Oltre a Where are you?, ad esempio, c’è un lavoro che ho fatto in collaborazione con la Polizia di Stato, il loro calendario 2016. Li ho convinti a fare un calendario zenitale, cioè solo fotografie in pianta ortogonale dal cielo. E pure all’opposto, da sottoterra, dal nadir.
 


Lady Diana e il Principe Carlo d'Inghilterra al mare con i figli, Capo di Coda Cavallo, Olbia, 1991

 

In che senso sottoterra? Conosco la tua passione per la prospettiva zenitale, il punto di vista verticalizzato dall’alto, ma da sottoterra?

Il nadir è l’opposto dello zenit. Significa che se io volessi fotografare qualcuno, come se tu fossi rimasto in una valanga sotto la neve, mi metto dentro la valanga sotto la neve a quattro metri e fotografo esattamente all’insù quello che vedresti quando ti vengono a soccorrere. Non so il cane che scava, le sonde piantate nella neve, un poliziotto con la pala che sta spalando.
 


Gli agenti del Soccorso alpino, febbraio, Calendario 2016 Polizia di Stato

 

La ricerca del punto di vista inedito è uno degli elementi portanti del tuo lavoro. Insieme all’impegno costante di andare sulla notizia, coprire l’evento, i soggetti di attualità. Velocemente. Correndo, se è il caso, anche dei rischi.

Si corre il rischio per il piacere di fare un’inchiesta, oltre che per il principio deontologico di raccontare quello che succede. Anche per un risvolto sociale, per mostrare delle cose che possono contribuire ad alzare la sensibilità dell’opinione pubblica, farla cambiare. Vale la pena giornalisticamente cercare di raccontare anche travestendoci, anche correndo dei rischi. Mi piace il rischio perché l’unica cosa che valga veramente la pena di fare in questo lavoro è non fare il calcolo delle probabilità. Ho fatto delle cose così incoscienti nella mia vita, investendo su me stesso, anche dei soldi, per arrivare dall’altra parte del pianeta e fare una foto. Ogni volta che parlavo con un mio collega e mi diceva “è fantascienza”, io dicevo “bene” e andavo a farlo. Se incappi in quella probabilità remota, hai più soddisfazione. Se nella vita ne fai tante, impari che su dieci che ne provi ne fai due, ma quelle due sono quello che realmente cercavi.
 


Strage di Capaci, Palermo, 1992

 

Sei famoso per le trovate che ti hanno permesso di fotografare in ambienti apparentemente non accessibili. Per l’uso di radiocomandi, di barche ed elicotteri, di macchine fotografiche nascoste sotto la cravatta…

Della serie “cosa ci tocca fare per campare”. Ho fotografie di me che sono veramente operative su caccia Eurofighter, appeso a un elicottero o carrucolato sul cavo di una funivia, sul fondo del mare a cinquanta metri di profondità con un sottomarino appoggiato sul fondale e io che lo fotografo.

Cerchi e, di solito, trovi.

L’importante è esserci, riuscire ad arrivare in un posto. Un anno sono andato alle Maldive perché l’allora direttore del Venerdì di Repubblica, Paolo Garimberti, mi chiese di seguire il caso dei nostri connazionali arrestati all’aeroporto di Male con qualche foglia di marijuana in borsa in arrivo dall’India. Li arrestano e a quanto pare gli danno l’ergastolo. Repubblica mi disse “vai alle Maldive e vedi di fare una foto di questi connazionali”. Mi informo e scopro che c’era un’isola che era la Sing Sing della situazione. Il primo giorno noleggio una barca e ci giro attorno. Avevo capito che buona parte dei detenuti stava fuori, a cielo aperto. All’epoca lavoravo in pellicola, non c’era il digitale. Quando la sera controllo gli scatti, vedo che sono tutte foto che ritraggono persone di colore. Nessuna traccia dei nostri connazionali. Il secondo giorno strategia diversa: ok, partiamo all’attacco, idrovolante. Insieme a una pilota canadese di 120 chili, simpaticissima, giriamo sul carcere per un paio d’ore. Fotografo di tutto, di più. La sera sviluppo e nessuna traccia. Mi chiama l’ambasciatore e mi dice “guarda ti sta cercando la polizia, perché pare che quel signore che ti ha portato sulla barca il primo giorno ha pensato che c’è un italiano che sta organizzando un’evasione”. È qui il calcolo delle probabilità che non si deve fare. Quella notte decisi di tentare il tutto per tutto. Repubblica mi avrebbe pagato comunque, ma non lo fai per denaro. Lo fai per raccontare a te stesso che hai fatto il possibile e l’impossibile.
 


Stefano Ghio e Davide Grasso condannati all'Ergastolo alle Maldive, Isole Maldive, 1997

 

Noleggio un barchino e vado da solo nella notte, sbarcando sull’isola all’alba. L’isola carceraria aveva un porticciolo dove abitavano i familiari dei secondini. Faccio conoscenza con una signora, che aveva una casetta lì accanto. Entro dentro, mi offre la colazione molto gentilmente. “Tu chi sei? Che fai?”. “Sono un investigatore privato italiano”, ecco qui le celate sembianze dove non vai a raccontare che sei un giornalista. “Vorrei documentare lo stato di buona salute dei miei connazionali, potete darmi una mano?”. Questi mi guardano e mi dicono: “mio marito sta lavorando nel carcere, tra mezz’ora dovrebbe tornare, se vuoi parlane con lui”. Torna il marito, gli spiego e mi dice: “tu di cosa hai bisogno?”. “Sono due giorni che cerco di fotografarli, voglio riportare in Italia un’immagine di loro che stanno bene”. Lui mi dice che sono in isolamento, non stanno mai assieme, “ognuno vive nella sua cella”, “non li puoi vedere perché non possono uscire dalla cella”.  Allorché mi ero portato la compattina e gli dico “guarda, se tu gli puoi fare una foto io la riporto in Italia, così i familiari vedono che stanno bene”. Lo rendo partecipe di una causa sociale e ovviamente gli propongo un compenso, che era per me pochissimo e per lui lo stipendio di un anno di lavoro. Lui dice “va bene, ti farò due foto”. E io, “già che ci sei, per favore, se possibile, tirali fuori dalle celle, mettili in riva al mare che si veda la spiaggia, che si veda il mare dietro, sai le Maldive”. Lui ritorna, con una ventina di scatti fatti. Però lui avrebbe potuto aver fotografato la sabbia, non potevo verificare con la pellicola. Me ne andai, scappai dalle Maldive a gambe levate. Effettivamente questo signore fece una gran bella foto, che diventò la copertina del Venerdì di Repubblica. L’allora presidente del consiglio Lamberto Dini dopo l’uscita prese un volo di stato e andò a trattare la liberazione dei connazionali. Effetti della sensibilizzazione dell’opinione pubblica da parte della stampa. È altamente improbabile che possano succedere cose del genere. Però l’ottanta per cento delle cose che ho azzeccato nella mia vita sono stati colpi di fortuna.
 


Eruzione dell’Etna, Zafferana Etnea, Catania, 1992

 

C’entra anche il caso, oltre alla volontà.

Per esempio, l’eruzione a Etna. Sono andato con la guardia di finanza sul cratere. E non eruttava, c’era la lava che veniva fuori come sempre. I finanzieri mi avevano istruito, “non succederà mai, ma se dovesse eruttare il vulcano non scappare, fermati, guarda in cielo, vedi i lapilli di lava, stai fermo e cerca di evitarli”. Metto la macchina sul cavalletto per fare la foto, era il crepuscolo, con un’esposizione di tipo un minuto. Come faccio click con lo scatto flessibile, boato, eruzione. Mi giro, non c’è più nessuno. Faccio per prendere la macchina sul cavalletto, fermo il braccio e mi dico “fermati, se la levi perdi la foto, questa sta scattando, fai quello che ti hanno insegnato, sperando che una roccia di lava non vada sulla macchina”. Appena ho visto che aveva finito, sono andato via. L’importante è andare sulla notizia per documentare e poi, quando arrivi, dici “cosa mi posso giocare che sia impossibile fare?”. Il fotografo deve andare in prima linea per forza, deve arrivare lì per fare la foto. Siccome la fotografia dura un istante, riconosco spesso che non riesco ad avere la capacità di valutare in diretta “è giusto o non è giusto farla?”. Perché non riesco a vedere tutti i parametri che sono coinvolti, vedo quello che ho davanti a me. Quindi, in certe situazioni, quasi mi giustifico perché, se ci penso un secondo in più, la foto è passata. Poi giudico se è giusto o meno, a posteriori. Il problema è che nello scontro fisico che accade in quel momento, perché sei in mezzo ad altre persone, ti senti altro che sciacallo. Lì ti danno dello sciacallo, e ti chiedono “che cosa stai facendo” e tu non puoi stare lì a spiegare tutta questa filosofia. Intanto fai una foto e dopo vedi se è il caso. Succede spessissimo con le forze dell’ordine: vorrebbero sequestrare tutto anche se non potrebbero e tu sei lì che stai cercando di capire se è meglio fargliele sequestrare subito e fare qualcos’altro o mettersi a discutere “no, la legge è dalla mia parte, non potete farlo, eccetera”.
 


Silvio Berlusconi, Fedele Confalonieri, Adriano Galliani, Marcello Dell'Utri, Emilio Fede e Francesca Impiglia, Villa Certosa. Porto Rotondo, 2002

 

A proposito, tu sei stato il primo a fotografare Berlusconi con una donna, mano nella mano con la sua segretaria nella villa in Sardegna.

Io ero su una collina, col solito teleobiettivo potentissimo. Faccio questa foto e poi, a un certo punto, sento armare dei fucili alle spalle. “Ah lei cosa sta facendo?”.  Erano dei Cacciatori di Sardegna, un corpo speciale dei Carabinieri, di guardia a Berlusconi, presidente del consiglio dell’epoca. Mi avevano visto con il cannocchiale ed erano venuti a prendermi. Mi dicono “venga con noi che le vuol parlare il caposcorta”. “No, io non ci vengo là dentro perché, una volta lì, mi accusate di aver violato la privacy”. Sennonché, la notte prima, avevo dormito con Luigi Offeddu, un giornalista del Corriere della Sera che era lì per fare un servizio politico su Berlusconi. Lo chiamo per dirgli “sono con questi signori, Cacciatori di Sardegna, che mi stanno portando dentro Villa Certosa”. Creo questo precedente, di una persona che è a conoscenza di questo fatto. Arrivato lì dentro, mi dicono “dottore ci dia la scheda, lei ha fatto le foto da sequestrare per violazione della privacy”. Replico dicendo che questo gioco non funziona. “Era fuori, ma ora è dentro”, dicono. “Ma Luigi Offeddu del Corriere della Sera sa perfettamente che ero fuori. Mi fanno parlare con la responsabile della comunicazione, che mi offre di fare un servizio in esclusiva sul presidente dentro Villa Certosa se io cancello quelle foto. Non avevo ancora capito cosa avevo fotografato, perché con il teleobiettivo potente e i due duplicatori chissà cosa avevo fotografato. Allora capisco che ci deve essere qualcosa in quelle foto. “Guarda, io non voglio fare queste foto ufficiali oggi pomeriggio”. Avrebbero avuto un valore, ma ho preferito rischiare e vedere quello che c’era.
 


Primo giorno di insediamento del Governo Berlusconi, Roma, 1994

 

Lo hai fotografato anche nel Transatlantico, da vicino.

Nel 1994, Epoca mi chiese di andare alla Camera dei deputati nel primo giorno del governo Berlusconi. Mi fecero un accredito come cronista parlamentare con il quale avevo accesso alla sala stampa. Mi vesto bello elegante, giacca e cravatta. Come introdurre la macchina fotografica? Una compattina al posto della batteria del computer, passa al metal detector, il computer non me lo accendono, non è che stanno a guardare se funziona il computer di un giornalista. Metto la macchina sotto la cravatta e, contando sul fatto che il primo giorno non si conoscono tutti i nuovi arrivati, inizio a fotografare in Transatlantico. A un certo punto sento drin drin e cominciano ad arrivare. Penso “magari faccio una foto diversa, invece che dalla piccionaia” e faccio questo scatto di Berlusconi rilassato, a colloquio con un altro deputato. Un collega, di quelli accreditati in piccionaia, mi vede con il teleobiettivo. E che fa? Avvisa le maschere. Esco dall’emiciclo. Arrivano da me e domandano: “ma lei è Sestini? Aspetti che arriva il questore”. Mi fa “ma lei era nell’emiciclo prima?”, “no, perché?”, “ma lei è un fotografo?”, “le sembro un fotografo, sono un giornalista”, “si ricordi che entrare dentro la Camera è un reato contro la Costituzione”. Andai in bagno, mi tolsi questa macchinetta e uscii fuori. Quella foto  non poterono pubblicarla, perché il direttore e lo staff legale capirono che sarebbe stato davvero un reato gravissimo, senza precedenti. Passati dieci anni è caduto in prescrizione, l’hanno tenuta comunque in archivio.
 


Nightclub Babylon, Klagenfurt, Austria, 2003

 

Hai usato la tecnica della macchina nascosta anche in un bordello di Innsbruck.

Quello scatto fa parte di quelle foto di cui si parlava prima. Creativamente c’è poco spazio perché la qualità è quella che è. Ma, a volte, rubare delle immagini ti dà modo di fare quello che non riusciresti normalmente a fare. Sono andato in giro per i bordelli di mezza Europa per un’inchiesta sulla prostituzione. Fotografando queste ragazze, spacciandomi per un cliente. Con la macchina sotto la cravatta bucata, riuscivo a fare foto. Ne ho una in cui sono disteso su un letto e sul baldacchino c’è uno specchio, quindi è un selfie che mi sono fatto, un autoritratto in cui mi si vede disteso con la cravatta. La macchina non si vede, ma si vede la cravatta col buco mentre stanno amoreggiando accanto a me due-tre ragazze con un fortunato, chiamiamolo così, che era un amico mio. Lo avevo portato con me, gli avevo detto “senti, in quest’inchiesta devo entrare nei bordelli, facciamo così tu vieni con me, fai sesso, pago io. Racconteremo a queste ragazze che non posso fare sesso ufficialmente perché ho due by-pass appena messi e pago per guardare”. Mi ero creato così un alibi per rimanere lì il tempo necessario a fotografare.
 


G8, Genova, 2001

 

Nella rassegna stampa del tuo sito, c’è un articolo che ha un titolo fantastico “Shoot first, questions later”. Prima scatta, le domande dopo. In che senso e misura il fotografo può e deve essere cinico?

È vitale, vitale, vitale. Perché se tu guardi anche le più grandi foto di guerra scattate nella storia, da personaggi come Nachtwey, non sono persone che non hanno scrupoli, ma sono ciniche. Perché se ti fai coinvolgere umanamente da quello che ti succede intorno, sarai talmente partecipe che non riuscirai a fotografare quello che veramente devi fotografare per far vedere a un lettore quello che sta succedendo. È lo stesso motivo per cui se ho fatto un mio servizio di cento foto, la miglior persona al mondo per editarlo, per scegliere tra quelle cento foto, non sono io che l’ho vissuto in prima persona, ma magari sei tu. Cioè uno sconosciuto, che non ha partecipato a quell’operazione e che può poi scegliere le foto perché non è coinvolto emotivamente. Questo cosa vuol dire? Che se uno è cinico riesce a essere obiettivo in quel momento. Se uno non è cinico, invece, è partecipe per cui non riesce a muoversi così velocemente, acrobaticamente o a riflettere in maniera lucida. È come agli esami, se hai studiato e tremi come una foglia ti impappini. Se invece sei bello freddo e calcolato, probabilmente avrai un risultato migliore.
 


Marina di Ragusa, vita da spiaggia

 

La questione del cinismo apre i discorsi sulla deontologia, l’etica. Qui dentro ci sono anche le cosiddette “paparazzate”. Ti sarai anche stufato di sentirle evocare. Il tuo nome è legato alla prima foto in bikini di Lady D., che fece scandalo, ma anche alle foto dell’incidente nel tunnel dell’Alma.

Siamo venuti in possesso delle foto dell’incidente nel tunnel dell’Alma per un caso, perché due dei nove fotografi che erano entrati nel tunnel erano corrispondenti della mia agenzia. Più sfortunati degli altri fotografi, perché erano in macchina mentre gli altri erano in moto. Mi chiamarono in tarda notte, uno mi disse “siamo in macchina, è successo qualcosa nel tunnel dell’Alma, è sceso Lorrain a fare le foto, ora imbuco la macchina da qualche parte e vado giù anch’io”.  E io dissi “no, vai giù, prendi quello che ha fatto Lorrain, qualsiasi cosa sia successa, e vieni via”. Lui entrò dentro, prese questi rullini e venne via proprio mentre stava entrando la gendarmeria che arrestò tutti quanti i fotografi, portandoli via di peso. Quindi noi avevamo le uniche foto dell’incidente. Pensai che fosse più che sufficiente far circolare un paio di foto dove si vedeva la macchina che si era scontrata con un pilone, con i soccorritori che si avvicinavano e niente di più. Negli scatti che feci circolare non si intravedeva neanche lontanamente un cadavere, dei corpi. Capivi che dentro quella macchina c’era qualcuno, però non vedevi. Io vengo da una categoria di fotografi di cronaca veramente tremenda. Quando ero all’inizio, andavo nelle famiglie a chiedere le fotografie di un loro figlio morto in un incidente e scoprivo che a volte non l’avevano ancora saputo. Quindi un po’ di cinismo dentro mi è rimasto. Ho cercato di capire quando non serve. Ho fatto errori madornali. Dobbiamo cercare di imparare, questo lavoro è sempre una scuola finché non moriremo.
 


Copertine/1

 

Un altro caso delicato è stato quello delle foto di Ayrton Senna, dopo l’incidente al circuito di Imola…

La foto del cadavere di Ayrton Senna all’obitorio dell’ospedale di Bologna, con un mazzo di rose del colore della sua nazione sul corpo, era stata scattata da qualcuno che lavorava dentro l’ospedale col quale noi entrammo in contatto. Ci venne offerta, “se mi dai un milione di lire, io ho fatto questa foto”.  Prima la comprai, poi riflettendoci mi dissi “non è giusto che questa foto esca sui giornali”, mi chiesi anche “come posso fare per recuperare questo milione”. Ne parlai con l’allora direttore di Panorama Andrea Monti, gli mandai due o tre foto via fax con una croce di pennarello sopra. “Guarda, Andrea, io ho speso un milione, vorrei recuperarlo, non guadagnarci niente, se vuoi ti vendo la notizia”. Lui, dopo averci pensato un po’, mi disse “affare fatto, a condizione che tu scriva l’editoriale al posto mio del prossimo numero, che vogliamo intitolare: ecco perché non vedrete mai le foto del cadavere di Ayrton Senna sul nostro giornale”.
 


Copertine/2

 

Con l’avvento del web e la presenza imperante della tv, la fotografia come si può smarcare? Come compete con gli altri media, con quale specificità? 

La fotografia arriva velocemente, quanto Internet. Ormai anche attraverso i social. Il punto secondo me è un altro: nella notizia come viene raccontata. Se partiamo dal racconto di una notizia scritto da un giornalista titolato su un giornale, vuol dire che chiunque deve leggere quel titolo e farsene un’idea. Tu puoi anche non leggerlo l’articolo, leggi il titolo,

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