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Sguardo di donna

Aa. Vv.

Raffinata fotografia di genere, assemblata dal gusto di Francesca Alfano Miglietti, in mostra fino al 10 gennaio alla Casa dei Tre Oci, sull’isola della Giudecca a Venezia: Sguardo di donna, circa 250 opere di 25 fotografe di livello internazionale, da Diane Arbus a Letizia Battaglia, che affrontano i temi profondi dell’esistenza umana, la vita, la morte, l’amore, il corpo mettendo in luce differenze, conflitti, sofferenze, relazioni, paure, mutazioni.

 


Una fotografia è un segreto che parla di un segreto. Più essa racconta, meno 
è possibile conoscere.

Diane Arbus

Ancora dodicenne, Diane Arbus prende lezioni di disegno da Dorothy Thompson, che oltre a lavorare come illustratrice è stata allieva di George Grosz. Questo primo incontro indiretto con Grosz segnerà Diane Arbus e influenzerà anche la sua produzione fotografica. Lavora per vent’anni con il marito Allan Arbus, fotografo che la introduce alla professione, collaborando con successo per importanti riviste di moda come «Glamour», «Harper’s Bazaar», «Seventeen» e «Vogue». Nel 1957 Diane capisce chiaramente di non essere più interessata alla fotografia di moda e sceglie di abbandonare lo studio che aveva fondato con il marito, per dedicarsi a scatti più reali e immediati. La giovane fotografa sembra quasi reagire contro le rassicuranti ma noiose convenzioni borghesi e, schierandosi apertamente contro ogni moralismo, inizia a esplorare i sobborghi poveri di New York, le spiagge di Coney Island, Central Park, le balere di Harlem e il circo delle pulci. In questi luoghi Diane incontra fame e miseria, ma soprattutto viene attratta dai cosiddetti freaks, i quali le si presentano come una sorta di mondo parallelo a quello che fino ad allora è stato per lei il mondo “normale”. Nel 1963 e nel 1966 Diane ottiene due borse di studio finanziate dalla fondazione Guggenheim e riesce così a pubblicare le sue foto su importanti giornali e riviste come il «New York Times» e il «Sunday Times» di Londra. È il 26 luglio del 1971 il giorno in cui Diane Arbus, incidendosi le vene dei polsi e ingerendo una forte dose di barbiturici, si toglie la vita. Un anno più tardi il MoMA le dedicherà un’importante retrospettiva, consacrandola definitivamente come una dei più importanti fotografi del secolo. Diane Arbus è la prima, tra i fotografi americani, a essere ospitata alla Biennale di Venezia, nel 1972.

 


 


Cerco di ‘rubare’ alla natura un segreto che il tempo suo di epifania non mi permette di esplorare - ma che 
lo permette invece il tempo miracoloso della fotografia - che riceve le cose e le sospende, offrendoci il Tempo magico di guardare al di là del Tempo.
Martina Bacigalupo

Hito è composta da fotografie rappresentanti coppie di gemelli identici e si presenta quale frutto di una lunga ricerca, fortemente mutata durante il percorso creativo. Bacigalupo è da sempre affascinata dalle sottili sfumature presenti nell’identità che caratterizza i gemelli omozigoti. All’inizio della carriera, realizza i suoi scatti cercando attraverso il mezzo fotografico piccole variazioni, dettagli: il neo o la fossetta sul mento che l’altro non ha, tutto ciò che all’interno dello stesso codice genetico attesta l’unicità dell’individuo. Cerca quel dettaglio che è chiamato sempre in causa, che è indicato come punto al quale prestare attenzione quando di continuo si è confusi per un altro, mentre si lotta per creare la propria identità. Nel corso degli anni la sua area di interesse cambia, pur restando all’interno dello stesso ambito di ricerca. Dopo l’esperienza in Burundi, Martina Bacigalupo capisce quanto sia fondamentale la presenza dell’“altro” dentro il processo affannoso di costruzione dell’identità, “l’altro” non come limite ma come opportunità da cogliere. Anche le sue immagini cambiano, i gemelli non hanno più una distanza fisica, vengono invece fotografati suggerendo un’idea di coppia siamese, indissolubile. Bacigalupo sceglie di intitolare il suo lavoro Hito, come l’ideogramma giapponese utilizzato per rappresentare l’essere umano, cioè l’immagine di due persone che si appoggiano/sostengono l’una all’altra in un equilibrio visibilmente precario, un equilibrio che può esistere solo in due: se uno fa un passo indietro, l’altro cade.

 


 


Ciò che davvero m’interessa è stimolare una riflessione sostanziale, anche a costo di uscire dal territorio dell’arte.
Yael Bartana

Yael Bartana si muove all’interno di uno degli aspetti più indagati e controversi della fotografia: la memoria. Contraddistinta da un forte legame con la sua madrepatria, Israele, utilizza da sempre diversi media visivi – tra cui film, installazioni e fotografie – come strumenti d’esplorazione atti a indagare l’immaginario politico e identitario della sua terra. Se la sua forte coscienza nazionale può essere considerata come punto di partenza della ricerca artistica, lo scopo del suo lavoro è quello di rintracciare, attraverso cerimonie e rituali pubblici, il significato implicito di termini come “patria”, “ritorno” e “appartenenza”, ognuno dei quali è fondamentale per la riaffermazione dell’identità collettiva dello stato- nazione di Israele. La serie Missing Negatives of the Sonnenfeld Collection (2008) è creata dall’artista mettendo insieme immagini fotografiche prelevate da differenti fonti archivistiche. Oltre a lavori personali dell’artista, la serie è composta da reportage fotografici appartenenti al Museo del popolo ebraico di Tel Aviv e alla collezione Sonnenfeld. I coniugi Leni e Herbert Sonnenfeld, tra il 1933 e il 1948, lasciata Berlino a causa dell’avvento del regime nazista, raccolgono numerosi reportage fotografici relativi alla formazione di comunità ebraiche di profughi, presenti in tutto il mondo: vanno così a creare quello che oggi si può considerare l’archivio fotografico più importante del popolo ebraico. Adottando lo stesso stile eroico, l’artista rimette in scena le fotografie originali, ritraendo agricoltori, operai e soldati belli e gioiosi, con l’aiuto di giovani arabi ed ebrei arabi, attualmente residenti in Israele. Costituisce così un “archivio ibrido”, in cui la forte commistione fra passato (in bianco e nero) e presente (a colori) mette perfettamente in risalto quella medesima voglia dei giovani discendenti di Abramo di costruire, sulle rovine di un sanguinoso passato, un nuovo e grandioso futuro.

 


 


La fotografia l’ho vissuta come documento, come interpretazione e tanto altro ancora. L’ho vissuta come acqua dentro la quale mi sono immersa, mi sono lavata e purificata. L’ho vissuta come salvezza e verità.
Letizia Battaglia

Nel 1974 documenta l’inizio degli anni di piombo nella sua città, scattando foto dei delitti di mafia. Letizia Battaglia non è, ad ogni modo, solo la fotografa della mafia, le sue foto, spesso in bianco e nero, raccontano Palermo nella sua miseria e nel suo splendore: i suoi morti di mafia ma anche le sue tradizioni, gli sguardi di bambini e donne, i quartieri, le strade, le feste e i lutti, la vita quotidiana e i volti del potere di una città contraddittoria. Dal 1974 Battaglia fotografa dunque, giorno dopo giorno, i delitti mafiosi, documentando l’incedere della violenza. «Solo allora ho sentito che con le foto stavo documentando qualcosa di storico. Era una specie di guerra civile, pian piano è diventato tutto molto violento. Ci ho messo tutto l’impegno e la serietà possibile, perché sentivo di dover rispondere sia alle istanze del giornale che alle mie. Non bastava fotografare, bisognava farlo con rispetto, con partecipazione». Con le sue opere non solo ci mette di fronte all’orrore della morte, ma dà anche un volto al dolore di chi rimane: sguardi di donne che sono state madri, mogli, figlie, sorelle di uomini uccisi dalla guerra di mafia. Dopo le stragi del 1992 Letizia Battaglia decide però di smettere di fotografare morti: «Per anni ho fotografato cadaveri ma mai gli assassini. Non si conoscevano mai. Se si trattava di un omicidio normale, il killer veniva scoperto subito, ma nei delitti di mafia mai. Ci sentivamo umiliati, un popolo umiliato e schiacciato da questa tragedia».

 


 


Trovare qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno avrebbe potuto immaginare prima, qualcosa che solo tu puoi trovare perché, oltre ad essere fotografo, sei un essere umano un po’ speciale, capace di guardare in profondità dove altri tirerebbero dritto.
Margaret Bourke-White

Nel 1928 decide di trasferirsi in Ohio dove apre uno studio fotografico, specializzandosi nella fotografia d’architettura, di design e industriale. A Cleveland ha numerosi clienti, tra cui le acciaierie Otis, da cui riceve ampio sostegno. Le sue fotografie degli altiforni, grazie alle astrazioni geometriche permesse dalle architetture industriali, ne fanno una delle fotografe più apprezzate anche nell’ambito della ricerca artistica. Si può considerare Bourke-White come la prima fotografa industriale di rilievo, nonché tra i primi fotografi a dare spessore artistico alla fotografia industriale. Per scattare sale sui cornicioni dei grattacieli più alti, sorvola città, si spinge nelle zone più pericolose degli stabilimenti. Nel 1929 ha inizio la sua collaborazione con la rivista «Fortune», e nel 1936 è chiamata da Henry Luce a far parte della redazione fotografica del nuovo rotocalco «Life»: sua è la prima copertina della rivista, una fotografia dell’imponente diga di Fort Peck nel Montana, a simboleggiare il New Deal rooseveltiano. Il suo obiettivo in questi anni è sempre più vicino all’emergenza sociale degli Stati Uniti: appartiene a lei ad esempio la celebre fotografia della fila di persone di colore, in attesa della distribuzione di un pasto, sovrastate dalla pubblicità di un’automobile con a bordo la tipica famiglia americana wasp e la frase «World’s highest standard of living».

 


 


Ho da sempre avuto l’impressione che le mie foto non potevano esistere da sole, le immaginavo all’interno di una struttura narrativa insieme alle parole. Lo stesso discorso si può fare per la scrittura. Le storie mi parevano povere senza le immagini e quindi utilizzare i due media era una conseguenza logica. In più mi piaceva fotografare e amavo scrivere.
Sophie Calle

Sophie Calle si descrive come un’artista di narrativa: i suoi progetti, a metà strada tra la performance, la fotografia e la cronaca, vengono esposti come installazioni e spesso diventano libri. Per la mostra organizzata dopo aver ricevuto l’Hasselblad Award, sceglie le immagini e il testo di un progetto in corso, True Stories. In questa serie Sophie Calle crea una sorta di storia in cui testo efotografia sono inscindibili, in coppia. Include nella serie, inoltre, il suo precedente lavoro The Husband; 10 Stories, che racconta il corso di una relazione; i titoli delle dieci storie ne scandiscono il percorso: The Resolution, The Hostage, The Argument, Amnesia, The Erection, The Rival, The Fake Marriage, The Break-up, The Divorce, The Other. La poetica di Calle si colloca proprio nello spazio stabilito tra fotografia e testo. Il suo concetto di realtà e finzione solleva altre domande circa l’identità delle persone. Chi siamo veramente, al di là di ciò che diciamo di essere, e chi sono gli altri? Stalker, spogliarellista, dormiente, spia: tutte le sue opere cercano di ricostruire l’intimità dall’esterno, attraverso minimi dettagli, e tramite queste opere Sophie Calle tenta di appropriarsi delle esperienze degli altri. Nei suoi lavori la linea di confine tra la vita e l’arte è confusa. All’interno del panorama delle arti visive, Calle è uno dei casi più interessanti dell’intreccio tra dimensione letteraria efotografia, nel quale si può realizzare un’interessante reversibilità dei ruoli.

 


 


Una fotografia non è mai esistita nella mia testa prima dello scatto: io vedo ciò che c’è, vibro con ciò che c’è, amo ciò che c’è, mi emoziono vedendo ciò che c’è.
Lisetta Carmi

Sono sue le più belle fotografie mai scattate a Ezra Pound. È l’11 febbraio 1966 quando il direttore dell’Ansa le chiede di accompagnarlo a Sant’Ambrogio, vicino a Rapallo, perché deve intervistare il poeta. Pound, vecchio e malato, reduce dai tredici anni di reclusione nel manicomio criminale di Saint Elisabeth, a Washington, abita una casa poverissima, con cassette della frutta come librerie e un lettuccio spoglio. Quando, dopo molto insistere e bussare, si presenta sulla soglia, Lisetta Carmi comincia a scattare. È spettinato, esangue, indossa una vestaglia e ciabatte che nascondono i piedi gonfi. Non parla, sono anni che ha smesso di parlare. Alle sue spalle il buio della stanza sembra risucchiarlo, i suoi occhi sono superbi e Lisetta, con la sua Leica, scatta venti fotografie in quattro minuti mentre l’intervistatore gli fa domande alle quali il poeta non risponde. Poi ne sceglie dieci che, secondo Umberto Eco, raccontano di Pound più di quanto sia mai stato scritto su di lui.

 


 


Niente è più spaventoso di non sapere dove stai andando, ma poi di nuovo nulla può essere più soddisfacente che constatare che siete arrivati da qualche parte senza un’idea chiara del percorso.
Tacita Dean

Dal 1996 Tacita Dean inizia a lavorare a una serie di opere racchiuse sotto un unico titolo, Disappearance at Sea, ispirate a storie di incontri personali con il mare: un titolo che crea un insieme e genera uno spazio ideale e poetico dove far confluire tutte queste scomparse. Il lavoro Teignmouth Electron Series prende il nome da un’imbarcazione e racconta una di queste storie. Nel 1968 Donald Crowhurst partecipa alla Golden Globe Race; dopo poche settimane dalla partenza Crowhurst si rende conto che la sua barca, la Teignmouth Electron, non è all’altezza di navigare intorno al mondo. Decide però di non tornare a casa. Inizia quindi a emettere false comunicazioni riguardo alla sua navigazione, false posizioni della sua imbarcazione, fino a costruire un inganno vero e proprio per il mondo a terra, che non sopporta più. Inventa un mondo dove lui è l’unico protagonista, insieme alla sua imbarcazione, e sviluppa una forte ossessione per il tempo. Due settimane prima dell’eroico ritorno a casa previsto per Crowhurst, la Teignmouth viene trovata alla deriva, vuota. Tacita Dean crea diverse opere che parlano di questa storia: tra queste, un’incisione realizzata nel corrimano in legno di una balaustra all’interno del National Maritime Museum di Greenwich e un film, Disappearance at Sea I, che è la prima opera di Dean a fare riferimento alla storia di Donald Crowhurst. Questo film ipnotico, realizzato in formato anamorfico, viene girato quasi interamente al faro di Saint Abb’s Head e si concentra su specchi, prismi e filamenti che fanno parte della struttura del faro; è ambientato nel momento in cui la notte diventa giorno, ed esplora la qualità e il movimento delle luci artificiali enaturali, come la spia del faro e il sole che tramonta. Le immagini spettrali di Crowhurst e Bas Jan Ader, artista olandese disperso in mare durante una traversata in solitario così come l’inglese, diventano simbolo dell’imprevedibilità del mare e dei suoi pericoli.

 


 


La mia opinione personale sul ruolo della pena capitale nella nostra società non è in questione in queste fotografie. Piuttosto, ho voluto che fossero gli ambienti stessi a comunicare direttamente con gli spettatori.
Lucinda Devlin

Lucinda Devlin inizia, nel 1991, una serie di fotografie di camere a gas, camere per l’iniezione letale, sedie elettriche, celle nel braccio della morte nelle carceri rurali degli Stati Uniti: la serie, dal titolo The Omega Suites, fa riferimento, attraverso l’allusione all’ultima lettera dell’alfabeto greco, alla finalità dell’esecuzione. Lo scopo di queste fotografie non è di presentare un punto di vista di tipo etico sul tema della pena di morte, ma di concentrarsi sull’ambiente in cui avvengono le esecuzioni. Iniziato nel 1991 e completato nel 1998, questo lavoro mostra una serie di camere per le esecuzioni fotografate dall’artista nei vari penitenziari degli Stati Uniti, con il permesso e la cooperazione delle autorità locali. Queste suggestive immagini di spazi architettonici mettono in luce una realtà sociale, come quella americana, colma di contraddizioni, che vede una maggioranza di cittadini a sostegno della pena di morte contrapposti a 3.000 detenuti nel braccio della morte. Ogni fotografia viene etichettata dall’artista in modo tale che lo spettatore sia ben cosciente del ruolo particolare di ogni immagine nel cupo processo di presentazione della pena capitale. Le architetture di isolamento, le camere igienizzate, l’assenza di figure umane producono immagini clinicamente sterili: fotografie che riprendono gli spazi del condannato e quello dei testimoni, camere asettiche, pulite, tecnologiche. Immagini rigorose, nitide, senza mai la presenza umana, ma con la crudele anatomia di ogni oggetto, ogni particolare, ogni elemento dei luoghi dell’esecuzione. Divieti, stanze, oggetti giacciono in una dimensione asettica, che si dispone come una pellicola e sembra penetrare negli interstizi delle cose. Le immagini di Lucinda Devlin sono perfette egelide come le pagine patinate di una rivista di design, in cui gli ambienti divengono tanto inerti da riuscire a rendere ardua l’impresa di stanarvi la vita.

 


 


Sono in grado di scattare una straordinaria quantità d’immagini del dolore privato delle persone perché questo è l’unico modo per educare le masse. Non c’è niente di più potente di una fotografia documentaria che diventa una storia dentro una storia, raccontata senza trucchi o abbellimenti.
Donna Ferrato

Donna Ferrato inizia la sua carriera fotografando la liberazione sessuale delle donne all’inizio degli anni ottanta e si ritrova poco dopo a documentare scene di violenza domestica. Nel 1982, mentre sta lavorando a un progetto sulle ricche coppie delle aree suburbane, Donna Ferrato diventa una testimone involontaria: un uomo, sotto l’effetto di droga, picchia la moglie. L’evento dà inizio alla sua missione di documentare gli abusi contro le donne e i bambini all’interno delle pareti domestiche. Ferrato non era, per sua stessa ammissione, una fotografa impegnata, ma assistere a quella scena le cambia la vita, indirizzandola verso la scoperta del “non detto” delle donne, quel non detto che si manifesta nelle sale d’aspetto di ospedali, consultori e stazioni di polizia. Nel 1991, dal progetto, nasce il libro Living with the Enemy, il suo libro simbolo, che ha tre ristampe e vende oltre 40mila copie in tutto il mondo. Il complicato tema della violenza domestica la porta a tenere lezioni nelle università americane e a interagire con avvocati, giudici, poliziotti, studenti e sindaci.

 


 


Le fotografie non sono mai delle risposte ma delle domande. E ognuno le legge e le interpreta come le sente. Secondo la propria sensibilità e percezione. Il fotografo in realtà non deve dire nulla di più. Non deve spiegare a tutti i costi che cosa vogliano dire le sue immagini.
Giorgia Fiorio

Al progetto Uomini Giorgia Fiorio lavora per dieci anni, a partire dal 1993, indagando sulle «comunità chiuse maschili nella società occidentale», come i pugili di New York, i minatori di carbone, la Legione Straniera, i toreros, i pompieri e gli uomini del mare: «esseri umani che nel nostro tempo avevano scelto di vivere in un quotidiano confronto fisico estremo con la morte e con se stessi». Le immagini, rigorosamente in bianco e nero («il bianco e nero è come fotografare in versi», dice in un’intervista), mostrano i corpi maschili tesi nello sforzo, con i muscoli scolpiti, uomini i cui sguardi ricordano la sfida che si accingono ad affrontare, sia essa con il fuoco, con il toro, con l’acqua. «Le fotografie non dicono mai, evocano. Dunque in un certo senso non sono mai delle risposte ma delle domande alle quali ogni spettatore è invitato a rispondere». Immagini che vanno al di là dei corpi, ma attraversano il tema della rappresentazione della bellezza virile in queste «comunità chiuse».

 


 


Pensavo che non avrei perso nessuno, se lo avessi fotografato. Le mie foto mi ricordano quanti amici ho perduto.
Nan Goldin

Pioniera di uno stile diaristico che è ormai uno standard narrativo nell’era di Instagram, Nan Goldin racconta con grande naturalezza lo stile di vita dissoluto ed edonistico della New York degli anni ottanta, preda di eccessi, droghe, violenze e alcool. Le sue fotografie sono un tuffo nelle vite di travestiti, drag queen, prostitute, gay: individui che la società marginalizza e che sono per lei il cuore nevralgico di una comunità che persegue la propria vita, in modo autonomo dai valori sostenuti da media e politica. Il suo nome raggiunge la popolarità con la serie fotografica The Ballad of Sexual Dependency, proposta in una sequenza di diapositive nel 1985, quindi in un libro l’anno successivo, e che è ancora oggi il punto di riferimento di un nuovo modo di fare fotografia: istantaneo,libero da tecnicismi esaturo di colore. Nel 2014, dopo undici anni di silenzio, pubblica Eden and After, una raccolta di fotografie dedicata al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, in cui non vigono le restrizioni di genere e di comportamento promulgate dalla società. Il suo ritratto con un occhio nero, lo sguardo fisso sul partner con la testa affondata nel cuscino, dichiara guerra agli stereotipi: non c’è coraggio senza fragilità.

 


 

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