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Fotografare persone, tra New York e l'Asia
Giada Ripa di Meana

Gli inizi e il reportage. La fotografia arriva dopo studi di scienze politiche e dopo un anno di lavoro nella produzione cinematografica a New York dove, durante i lunghi periodi di pausa e attesa sul set, mi divertivo a ritrarre in modo ossessivo ciò che accadeva in backstage. Inizio scattando in bianco e nero, stile reportage, avvicinandomi ai miei soggetti entrando nelle  loro vite (con un po' della prepotenza di chi pensa di capire le cose al volo), uso rullini sgranati, stampo contrastato. Prediligo il 3200 ASA, oltre a un effetto sgranato conferisce un effetto onirico alla stampa finale. Lascia una totale libertà d'interpretazione senza dare dettagli di tutti gli elementi visivi. È il rullino adatto a dare un'interpretazione personale dell'atmosfera circostante. In fase di stampa i contrasti sono messi in risalto naturalmente in modo esaltante (vedi gli effetti ottenuti nelle stampe del grande Giacomelli  nei suoi preti sulla neve). Come se si volesse decontestualizzare una scena reale e trasformarla in qualcosa di immaginario, di non definibile.


© Giada Ripa di Meana

© Ripa di Meana Giada/Grazia Neri, Genti dell'Asia Centrale
Almaty, Kazakistan, Leader Ceceno in kazakistan.

Il reportage per me significava - in quel periodo - andare là dove l'azione era in progress, dove io diventavo invisibile, e mi mischiavo alle persone, ai miei soggetti senza che la macchina fotografica  diventasse mai d'intralcio, ma sempre pronta a riprendere qualche scena da non farsi mai sfuggire. M'ispiravo al lavoro soprattutto degli americani  degli anni Settanta: Gary Winogrand, Lee Friedlander, Robert Frank, e poi i ritratti di Amy Arbus, i Gypsies di Koudelka, poi anche Alex Webb e tanti altri. Usavo una semplice Nikon e una focale grandangolare, che ancora oggi preferisco quando scatto in digitale.

Presento il lavoro presso l'International Centre Of Photography (ICP) nel 1999. Mi  accettano nel programma, ma prima di darmi conferma, Robert Blacke, il coordinatore, fa la solita domanda fatidica che fanno gli americani, ma che in fondo serve a riflettere sul perché si prosegue per una strada piuttosto che l'altra: «Qual è il tuo obiettivo? Cosa vuoi scattare?». Pensando essere preparata, risposi: «Voglio continuare a fare reportage, continuare a scattare in bianco e nero». «Bene», rispose lui, «allora la mia missione sarà portarti più lontano possibile da quest'obiettivo». La sua risposta è ancora impressa nella mia mente. Mi mise in un vero stato confusionale. Perchè distogliermi dal mio obiettivo?


© Giada Ripa di Meana

© Ripa di Meana Giada/Grazia Neri, Genti dell'Asia Centrale
Kazhakistan, Seleskia 2007

Nonostante il mio primo progetto all'ICP (seguito e spinto da Joseph Rodriguez) si focalizzasse su un reportage sui quei pochi ma eccentrici Italo-Americani rimasti a  Manhattan, scattato come di consuetudine in b/n e sgranato, il risultato fu che in meno di un anno avevo scombussolato il mio approccio alla fotografia. Non scattavo più in 35mm, ma in medio formato, non scattavo più in bianco e nero, ma ero capace solo di vedere il mondo nelle sue varie sfumature colorate.  La composizione non era più reportagistica, ma spesso studiata e manovrata. Si apriva una nuova era. Quella delle varie influenze, non solo dei grandi maestri ma anche dei vari fotografi che avrei poi  assistito.

Iniziano esplorazioni attraverso varie tematiche, ravvicinamenti di soggetti, esercitazioni, utilizzi di vari mezzi  e materiali fotografici. Il tempo e le esperienze e soprattutto l'infinità di mostre interessanti in quel periodo a New York sarebbero serviti a dar forma alla mia visione, a guardare e vedere gli oggetti/soggetti in modo diverso o forse uguale ma con più profondità e con più pensiero e rigore nel mandare il messaggio iniziale. Quello per cui si decide di scattare una foto, suggerire una storia. La scuola tedesca di Thomas Struth, Ruff, Hoffer, poi anche Tina Barney con i suoi Europeans, Cindy Sherman, Philip Lorca di Corcia,  Shirin Neshad, Larry Sultan, Joel Sternfeld furono quelli che mi mostrarono quanto impegno ci può/deve essere dietro ad ogni scatto studiato, senza alterare la realtà, dando al viewer tutti gli elementi nell'inquadratura per immergerli in una situazione più vicino alla realtà possibile. L'onirico diventò per me un mood appartenente al passato. Il realismo, il linguaggio presente. Il guardare è una dote naturale che tutti hanno. Il vedere implica invece un'educazione, un allenamento, una decodificazione che solo il tempo, le esperienze, e la curiosità ci porta ad elaborare. È come se un livello maggiore maturità visiva mi stesse dicendo di dover ormai riflettere prima d'ogni scatto, pensare ad una geometria, ad una cronologia, ad un ordine mentale, e anche all'effetto visivo finale di una fotografia.


© Giada Ripa di Meana

© Ripa di Meana Giada/Grazia Neri, Genti dell'Asia Centrale
Almaty, Kazakistan 2007

Il bianco e nero permette di pensare al momento stesso, mentre scatti e poi i suoi contrasti e la neutralità del b/n creano  l'atmosfera. Il colore diventa un vero e proprio studio. Ogni elemento di una scena diventa importante. Come sono vestiti i soggetti, se i colori sono forti, contrastati, come la saturazione dei colori influenza l'immagine (diventa poi consuetudine conoscere le regole del cerchio dei colori, che il blu contrasta con il giallo, che il magenta sia agli antipodi del verde e cosi via). Com'è la luce della giornata, se cerchi una luce piatta in modo da potere controllare bene i tuoi soggetti e la luce naturale, o se cerchi il contrasto brutale del cielo turchese e le conseguenti ombre forti. Se fotografi in interni, osservi con attenzione i mobili, gli oggetti, i tappeti, tutto quello che può interferire e arricchire la composizione e il significato del soggetto. L'utilizzo del colore nella fotografia consente lo sviluppo di una nuova forma di comunicazione visuale. Scattare a colore, per me, fu come mettermi a dipingere.

Dietro ogni scatto non c'era più solo il desiderio di essere sempre pronta a riprendere ogni particolarità di ciò che mi accadeva attorno, ma diventava una forma di meditazione, in cui ogni elemento - dall'idea, al disegno, agli oggetti, i soggetti, alle loro posizioni,  i loro vestiti,  gli ambienti, al controllo dell'inquadratura - tutto diventava parte integrante dell'immagine finale. Sono passati nove anni, da quando ho smesso di scattare in b/n. Spesso mi accade, vedendo lavori splendidi come quelli di Giacomelli, di Koudelka o di grandi fotogiornalisti contemporanei come Paolo Pellegrin, di aver voglia di tornare allo scatto onirico, ma continuo a trovare un infinità di soddisfazioni (non tecniche ma di pura estetica) nel colore, spingendomi persino a scattare delle serie di immagini in colori monocromatici dove prevale un colore, una sfumatura. Continuo ad essere sedotta da un certo formalismo della fotografia contemporanea. Così scopro che anche il colore, manipolandolo bene al momento dello scatto, della regolazione della sensibilità, del tipo di sviluppo, può creare immagini altrettanto oniriche come il bianco e nero (vedi serie Falling Icon nel mio sito).


© Giada Ripa di Meana

© Ripa di Meana Giada/Grazia Neri, The other face of China
2008 China, Xinjiang, Kashgar - 3 donne kirghize al ristorante.

La pellicola a colore, rimane per me fonte di costante soddisfazione. Sapere controllare i tempi, immaginarsi le varie sfumature, accentuare la saturazione in fase di scatto, per poi rimanere durante l'attesa e sorprendersi sempre di più, quando la pellicola è sviluppata e stampata. In fondo il digitale per chi usa la pellicola, sembra ancora rimanere lontano dai risultati sempre impeccabili della pellicola, quando il controllo te lo permette. Mi piace avere controllo nell'inquadratura, piazzare i miei soggetti, e relazionarmi, analizzare tutti gli elementi nell'inquadratura per rendere la foto unica, per me come per loro. Ma cerco di non pensare al ritocco all'infinito che mi distoglie dall'autenticità della fotografia iniziale. Ecco perché temo ed evito, quando possibile, il digitale. Con il digitale, la postproduzione di una foto diventa infinita. E infinite le possibilità di renderla diversa.

Utilizzo il medio formato e il colore quando fotografo i miei soggetti perché il medio formato mi aiuta a vedere e ritrarre più in dettaglio la scena, come nei ritratti ambientati, il colore a dare il taglio pittorico e preciso allo stesso tempo di una scena. Il formato richiede maggiore concentrazione e meno margine di errori come invece nel mondo del digitale. So di avere poche immagini nel rullo e poco margine di errore, sono consapevole che si tratti di negativi grandi e che sia gli errori sia gli aspetti riusciti saranno poi messi in risalto in modo più appariscente. La macchina che scatta medio formato è più impegnativa, i rullini più cari, i colori più vari.  Spinge la mente a fermarsi e prender un po' di distanza prima di buttarsi dentro una scena e ritrarre i soggetti.


© Giada Ripa di Meana

© Ripa di Meana Giada/Grazia Neri

Mi capita di lavorare su commissioni, storie, ritratti, per progetti. Mi piace scattare immaginando un corpus fotografico, una serie di fotografie che creino materiale per un reportage o per un libro. Come per esempio l'attuale progetto del libro Beyond The Oil Route (Cina, Asia Centrale, Caucaso). Sono stata coinvolta nel mondo asiatico un po' per caso, quando nel 2002 Biz-Art mi invita in Cina in due mostre personali a Shanghai e a Pechino. Da li è nato progressivamente un nuovo progetto fotografico. Mentre esponevo, entravo progressivamente a far parte di una comunità di artisti cinesi che mi aprirono nuovi orizzonti.  Da un Cina nazionalista e intellettuale mi sono proiettata in un viaggio ai confini tra il Cina e l'Asia centrale. Il Xinjiang, territorio cinese ma culla di 20 milioni di musulmani. Luoghi lontani sconosciuti. Popoli diffidenti e impauriti dal loro stesso governo che li tiene isolati dal mondo. Luogo poco adatto per iniziare un progetto di ritratti ravvicinati. Oltre alla cultura, la religione, la politica, il linguaggio diventava un ostacolo insormontabile. Spesso ci capitò di non potere neanche trovare dove pernottare in cittadine lungo il deserto del Taklamakan perché nessun hotel era abilitato agli stranieri. Forse la sfida di riuscire a comunicare con popoli isolati e poco noti era lo stimolo principale della mia ricerca. Il viaggio poi è proseguito nel Caucaso attraverso uno zig-zag tra i confini e i popoli dell'Azerbaijan, Iran, Georgia, Turchia, e l'anno scorso nelle capitali delle Repubbliche dell'Asia centrale. Il progetto ha preso forma da solo. Stavo seguendo le orme dei popoli della Via della seta, nonché oggi Via del petrolio.  Ho deciso in questo lavoro di focalizzare sui volti, sulle persone lungo la via. Volti, sguardi, ritratti ambientati che raccontano una storia di più di mille anni, conflitti, assimilazioni, cambiamenti. Un tentativo di avvicinarmi ad ognuna delle loro culture. Di capire i processi di emigrazione, fuga, cambiamento e ricerca d'identità.


© Giada Ripa di Meana

© Ripa di Meana Giada/Grazia Neri, The other face of China
China 2008. Xinjiang, Kashgar

Mi attira la tematica dello sviluppo esistenziale delle genti che vivono ai confini, l'idea della perdita e  ricerca della propria identità, quelle degli uighuri musulmani in terra cinese o degli ebrei delle montagne stabiliti in Azerbagian o ancora i ceceni che coabitano con i kazaki ecc. Se sono in presenza di un traduttore, cerco di intervistarli, e se no spesso un semplice sorriso può alimentare un amicizia, anche se breve, un'intesa basata sulla fiducia del momento. «Per me la fotografia deve suggerire non insistere e spiegare» (Brassai). L'intento non è quello di dare la versione della  loro verità. Ma il mio è un tentativo attraverso un contatto umano e un'attenta osservazione, di interpretare l'esistenza odierna di questi popoli lungo il mio cammino. Un desiderio di conferire loro un posto dignitoso senza opinioni, laddove l'immagine invece spesso denuncia, sciocca, trascende. Al contrario del fotogiornalismo di guerra, d'attualità, i miei scatti non vogliono né trascendere ne ripercuotere reazioni, né raccontare qualcosa di misterioso, ma semplicemente dare un volto a popoli che guardano a volte verso il passato e alcuni verso un futuro incerto. Lascio che le loro facce e ciò che le circonda ci raccontino lunghe storie.


© Giada Ripa di Meana

© Ripa di Meana Giada/Grazia Neri, Genti dell'Asia Centrale
Uzbekistan, Samarkand, 2007.

Quasi sempre cerco il consenso dei miei soggetti  nel scattare. A volte imparo a dire di no ad uno scatto, e cerco di  intuire il momento propizio e/o il momento d'attesa. Tento di spiegar loro ciò che sto facendo, dar un'idea del progetto magari mostrando anche immagini digitali (questo è il forte del digitale , quello di aiutare la comunicazione tra estranei attraverso immagini immediatamente accessibili) e solo quando l'interazione avviene  e quando mi sento accettata ed accolta con la mia macchina fotografica, allora scatto. E con la loro collaborazione dirigo anche le loro posizioni, e tutta l'inquadratura. I tempi lunghi del mio modo di  lavorare mi permettono un approfondimento, una maggiore comprensione ( spera) delle  abitudini di chi fotografo. Penso non ci siano regole nell'approccio ai propri soggetti, ma solo un dovere - come fotografo - di rispetto, comprensione e curiosità nei loro confronti.

www.giadaripa.net


© Giada Ripa di Meana

© Ripa di Meana Giada/Grazia Neri, Genti dell'Asia Centrale
Georgia 2006, Tiblisi
 
 

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