Intervista a Gianni Berengo Gardin

A cura di: Carola Benedetto

Sguardi gentili

 

Per la sua sesta edizione, il festival Per sentieri e remiganti (“sezione inverno”) porta a Torino il lavoro di uno fra i più noti e importanti maestri della fotografia italiana: Gianni Berengo Gardin, al Museo Regionale di Scienze Naturali con la mostra Sguardi gentili fino al 6 gennaio. Il tema della gentilezza si svela nelle 40 immagini in mostra: un viaggio in bianco e nero alla scoperta di un valore lieve e discreto, racchiuso nei baci degli amanti, nelle carezze dei compassionevoli, nei balli di chi festeggia un giorno speciale o un giorno qualunque ma indimenticabile per quel giro di spensieratezza. Per l’occasione Carola Benedetto, del Gruppo del Cerchio (che assicura la direzione artistica del festival), ha incontrato Berengo Gardin per realizzare l’intervista che Sguardi pubblica di seguito.

Che cos’è per lei la gentilezza, tema del festival “Per sentieri e remiganti” 2012?

La gentilezza è una cosa rara, perché è un mondo aggressivo a tutti i livelli. Gentilezza è quella che c’era una volta. Probabilmente non ai tempi dei nostri nonni ma dei nostri papà c’erano persone gentili. Io credo di essere una persona gentile, ma lo credo solamente; non so se nella realtà sono una persona gentile.


© Gianni Berengo Gardin

Lei pensa di essere un fotografo gentile?

Bella domanda! Penso di essere un fotografo, né gentile, né non gentile. In certe situazioni si è più gentili, direi quasi romantici e in altre si è molto più duri, secondo cosa si fa. Quando ho fotografato nei manicomi ero drammaticamente poco gentile perché ero in un ambiente completamente ostile ai poveri degenti e quindi ero molto poco gentile nei confronti di chi li torturava. Erano proprio dei lager. Anche quando ho fatto i due libri degli zingari ero gentile con loro. Io sono quasi sempre gentile con chi fotografo.

Quando si rapporta con un soggetto – mi parlava degli zingari e dei degenti dei manicomi – c’è un accordo tra lei e il soggetto, nel senso che lei è al servizio del soggetto oppure aspetta il soggetto e poi scatta?

Dipende se condivido le idee di chi fotografo: il più delle volte le condivido e quindi mi comporto allo stesso modo in cui si comportano con me. No, assolutamente non faccio mai mettere in posa. Ho in archivio 1 milione e 500 mila fotografie e solo 5 sono state create di sana pianta. Naturalmente se faccio dei ritratti non metto il soggetto in posa ma voglio che mi guardi. Ma sono indicazioni che do solo se faccio dei ritratti e io ne faccio pochissimi. Fotografo soprattutto figure ambientate e reportage.


© Gianni Berengo Gardin

Che macchine usa? È ancora un sostenitore del manuale?

Sono un sostenitore della pellicola, anche se recentemente ho provato - e tutti per questo mi hanno molto criticato – una digitale. Il risultato è che non sono assolutamente passato al digitale, ma ho provato con questa nuova Leica che fotografa solo in bianco e nero, e quindi è molto vicina alla mia sensibilità. Ora continuo a fotografare con le mie Leica M7 e M6 a pellicola. Anche recentemente ho fatto un lavoro a Venezia, tutto in pellicola. Indubbiamente il digitale è stato una grande rivoluzione. Tecnicamente il modello che ho provato ha una resa da banco ottico addirittura, però trovo che il digitale sia comunque troppo metallico, troppo freddo, tutte cose che non cerco nella fotografia. Credo che la pellicola sia ancora più plastica e, soprattutto, generi un negativo. Avere un negativo, qualcosa di concreto in mano, per me è un gran vantaggio. Con il digitale non sappiamo se tra 50 anni esisteranno ancora gli strumenti per leggere le nostre fotografie o se saranno completamente cambiati i supporti e tutto sarà perduto. Per principio posso dire di non essere contro il digitale, però non credo che questo mezzo abbia grossi vantaggi. Inoltre la post-produzione, checché ne dicano, costa carissima. Indubbiamente il digitale è stato una rivoluzione e, come in tutte le rivoluzioni, in essa c’è il bene e il male. Proprio recentemente mentre lavoravo a Venezia notavo che ormai tutti fotografano e quasi tutti fotografano male, a caso, tanto per fotografare, tanto perché hanno un mezzo, e fotografano le cose più stupide! Sia ben chiaro è loro pieno diritto, tutti possono fare quello che vogliono, però indubbiamente la fotografia ha avuto una grande diffusione che spesso a mio parere ha portato a poco.

Qual è secondo lei una bella fotografia, quando vede una bella scena e si dice “questa la fotografo”?

Non credo nelle belle fotografie. Di belle fotografie se ne fanno tante, ma sono completamente inutili, sempre secondo me. Dicono che io pontifico, ma io dico solo quello che penso. Una volta dicevo anch’io “che bella fotografia”, poi una volta sono stato da Ugo Mulas che mi mostrava i suoi scatti - io ero appeno agli inizi, ero molto giovane - e continuavo a dirgli “che bella questa fotografia”, “questa è bellissima”. Più io commentavo entusiasta in questo modo, più lui si alterava. A un certo momento mi ha detto: “Se dici ancora che è bella una mia fotografia, io ti caccio fuori”. Io ero imbarazzatissimo perché ero giovane e lui era già Ugo Mulas. Allora gli ho chiesto: “Scusi Maestro, ma cosa devo dire per dire che le sue fotografie sono belle. E Mulas mi ha risposto: “Non devi dire che sono belle, ma devi dire che sono buone”. Ma tra me e me pensavo che bella o buona più o meno fosse la stessa cosa. “No”, mi spiegò: “Belle sono fotografie esteticamente perfette, ben composte, che però non dicono niente. Una buona fotografia racconta e dice delle cose, comunica qualcosa. Anche la bella fotografia comunica, ma comunica cose inutili”. Da allora non ho detto più “bella fotografia” ma “buona fotografia”.
 

Ci ha molto colpito il fatto che lei abbia detto di non mettere didascalie alla mostra.

Perché questa mostra è nata così, quando le organizzatrici sono venute a scieglierle. La gentilezza è un tema generale. Di solito non faccio grandi didascalie ma metto il luogo e l’anno. Questa, invece, è la prima volta che non metto niente, perché mi sembrava che fosse meglio lasciare ai visitatori la possibilità di decidere se le foto fossero in tema oppure no. In effetti a mio modo di vedere, alcune foto non lo erano, ma non mettendo didascalie sono entrate nel tema per forza.

Quando siamo entrati in casa stava suonando della musica francese. Qual è il suo rapporto con la musica, che musica ascolta?

Amo il jazz, ma voi avete sentito canzoni in francese. Nel ‘54 ho vissuto due anni a Parigi e sono rimasto molto legato alla cultura d’Oltralpe anche se ai miei tempi le letture non erano francesi. Come i giovani della mia epoca, durante il fascismo, non potevamo leggere gli autori americani e quando c’è stata la liberazione - anche per moda - noi tutti abbiamo letto Steinbeck, Dos Passos, Hemingway. Poi sono stato quei due anni a Parigi e mi sono innamorato della Francia e di Parigi. So bene che c’è una grossa differenza fra la Francia e Parigi, ma quando ho scoperto la campagna, anni dopo, questo amore è aumentato. A me piace la lingua, di questi cugini d’oltralpe. Mi piace il loro modo di vivere, più semplice, meno artefatto del nostro. In quei due anni ho frequentato moltissimo Boubat, Doisneau e, soprattutto, Willy Ronis. Molti anni dopo anche Henri Cartier-Bresson che però era già un dio, quasi irraggiungibile. Invece con Boubat, Doisneau e soprattutto con Ronis, abbiamo avuto un grande amicizia. La mia fotografia è stata molto influenzata da quei fotografi, soprattutto agli inizi. Mi dicono spesso che sono il Cartier-Bresson italiano, in realtà sono il Willy Ronis italiano, anche se una delle cose di cui più mi vanto è la dedica in cui Henri Cartier-Bresson mi scrive: “A Gianni Berengo Gardin con simpatia e ammirazione”. Avere l’ammirazione di Cartier-Bresson è il massimo, poi si può morire in pace.
 

Il rapporto fra uomo e natura.

Non lo so, francamente. Io amo molto la natura ma non in fotografia. Amo vivere la natura, non fotografarla. Sono forse una bestia di città. Fin da piccolo ho sempre amato la città più della campagna, però quando posso vado nel verde. Noi abbiamo una piccola casa a Camogli, con un giardino, ed è una lotta continua fra me e mia moglie perché lei vuole i fiori, mentre io odio i fiori e amo il verde. Per me la natura è verde, non sono i fiori.

Se le proponessero un reportage in un luogo deputato alla scienza?

Quando mi sono trasferito da Venezia, il primo lavoro che mi hanno offerto era all’istituto del cancro. Sono andato e ho visto sei, sette topini inchiodati a una tavola di legno, con la pancia aperta e ancora vivi. Sono svenuto di colpo e ho detto mai più. Certo questo è un aneddoto, ma per quanto trovi la scienza vitale per l’uomo, è troppo lontana da me. Mi interessa di più la vita dell’uomo e quello che c’è davanti e dietro. Il rapporto con l’umanità credo sia per un fotografo più importante.


© Gianni Berengo Gardin

Nella mostra che ospitiamo a Torino ci sono tantissimi baci…

Quando ero giovane in Italia era proibito baciarsi in pubblico, ti potevano arrestare per oltraggio al pudore. Così, quando sono arrivato a Parigi, dove tutti si baciavano continuamente, sono diventato un guardone. Mi sembrava così strano che la gente potesse baciarsi dovunque: in strada, in autobus, in treno, che ero invidioso e avido di rubare queste fotografie di baci e la sensibilità per i baci mi è un po’ rimasta attaccata, come se fosse ancora proibito farlo in pubblico, mentre adesso per strada ne fanno di tutti i colori, anche troppo oltre il bacio. Ma l’idea romantica del bacio rubato, mi è comunque rimasta, come una volta, quando i baci si rubavano e questo mi interessava moltissimo.

Nelle foto che esponiamo a Torino ci sono anche molti viaggi: in treno, in carrozzina per i bambini, in auto, in bici. È come se le sue città fossero città in viaggio verso il benessere e la velocità ma ancora umane.

Io sono di un’altra epoca. Non è che contesti il computer o i mezzi moderni - anche se scrivo ancora a macchina, con due dita - ma questa accelerazione della vita, in tutti i suoi campi, non mi sembra utile all’uomo. Certo è utile, ma ci massacra. Con un gruppo di colleghi abbiamo addirittura fatto un’associazione che si chiama Slow photo, perché anche in fotografia bisogna andare con calma. Qua a Milano c’è una pubblicità di una grande produttrice di macchine digitali che dice: “Non pensare, scatta!”. Io quando insegno dico ai ragazzi: “Prima pensa e poi, casomai, scatta”. Non bisogna mai scattare a caso. È proprio un altro modo di concepire la fotografia, ma anche la vita. Tutti sono padroni di fare quello che vogliono, sia chiaro, ma anche io faccio quello che ancora voglio. E a me piace la lentezza. Il digitale ha cambiato secondo me la mentalità del fotografo, perché tanto scatti, scatti, scatti e poi quello che non ti piace lo cancelli, mentre il resto salvi con Photoshop. Ormai non sappiamo più se sono foto vere o se sono create. Non sappiamo se un’immagine è vera o taroccata e questo è un pericolo gravissimo per la fotografia, perché la maggior parte della gente quando vede una fotografia crede ancora che si tratti di una cosa avvenuta. Ultimamente a Parigi ho visto una foto bellissima di sei persone che vanno per strada, tutte col giornale sottobraccio, e credevo fosse stata fatta col digitale, ma non era così: era una fotografia vera! Adesso abbiamo il dubbio che tutto sia taroccato. In America e anche in Francia stanno studiando un sistema per obbligare a mettere un codice che indichi se la foto è autentica, oppure no. A me va bene anche una foto costruita in digitale ma deve essere dichiarato perché una foto in digitale è un’immagine, non più una fotografia. L’artificio, la costruzione di una fotografia va bene per la pubblicità. L’altro giorno ho visto una signora che fa la réclame a una pomata di bellezza. Nella fotografia non aveva una ruga, poi l’ho vista al naturale, a un’inaugurazione, ed era tutta una ragnatela di rughe. Non capisco con che coraggio si adattino, pur di guadagnare dei soldi, a fare la pubblicità per una crema che non usano e si fanno taroccare loro.
 

Qual è il suo rapporto con il viaggio?

Io viaggio con uno zainetto. Ormai faccio solo più viaggi di una settimana, al massimo. Giro in Italia e al massimo in Francia. E quindi porto solo l’indispensabile. Da ragazzo, invece, ho girato molto e dovrei fare un monumento a mia moglie perché ha tirato su egregiamente i nostri due figli, mentre io sono stato un padre sempre assente. Gli ha fatto da madre e da papà, in modo eccezionale. E poi agli inizi ho fatto anche molta gavetta e mi è stata sempre molto vicina, aiutandomi in tutte le occasioni. Devo essere molto riconoscente alle donne in genere e a mia moglie in modo particolare. Conosco molto bene l’India, il Canada, l’Australia mentre non conosco per niente l’Africa e il Sud America. L’Africa per capirla bisogna starci tanto e non mi piacciono i lavori che escono sull’Africa dai colleghi mentre il Sud America, mi piace molto come ambiente, ma non ho avuto occasione di andarci. Mi hanno offerto di starci una settimana, ma non capisci un paese in una settimana.

Quando è in vacanza, fotografa?

Non ho mai fatto un viaggio che non fosse di lavoro. Io lavoro sempre. Faccio un lavoro che mi piace, mi diverte, mi interessa e per di più mi pagano: cosa voglio più dalla vita!

Libri o giornali?

Preferisco fare libri al lavoro per i giornali perché per un libro si fanno 100/150 foto e quel numero mi permette di raccontare una storia e poi con l’editore o con lo sponsor posso dettare io legge e fare il bianco e nero. Però per quindici anni ho fatto il colore per il Touring Club e per la De Agostini ma solo paesaggio e architettura a colori: il reportage l’ho fatto sempre e solo in bianco e nero. Il bianco e nero ce l’ho nel sangue, il suo DNA è bianco e nero. Il cinema, quando ho iniziato a fotografare era in bianco e nero, la tv era in bianco e nero, i grandi al 99% erano in bianco e nero. Ho succhiato latte in bianco e nero e non potevo che continuare in bianco e nero. Nella prossima incarnazione vediamo se sarà il caso di fare qualcosa a colori, sempre se rinasco fotografo, perché se rinasco cane o cavallo niente da fare. E cane non mi dispiacerebbe!

Fotografa animali?

No, niente. Né animali bambini. I bambini non è che non li fotografi per via della legge sulla privacy, ma perché sono sempre tropo sdolcinati. E non fotografo signore, in assoluto, perché non gli vanno mai bene le mie fotografie. Ho fotografato Anna Magnani perché abitavamo nello stesso palazzo. Ero amico con suo figlio che aveva un handicap. Andavamo a giocare a casa sua così quando ho iniziato a fotografare ho ritratto la Magnani. Un giorno, mentre le facevo delle foto, eravamo vicino a una finestra e le ho chiesto se potevamo spostarci perché c’era una luce troppo dura che le sottolineava le rughe. Lei mi ha risposto: “Queste rughe me le sono conquistate, una alla volta, e voglio che si vedano tutte!”. Non ho avuto più parole. Da allora faccio pochissimi ritratti mentre mi piacciono le figure ambientate, dove le persone sono riprese da lontano. Il ritratto però, a parte tutto, non è comunque il mio genere. Io amo raccontare una storia, come mi ha insegnato il mio amico Koudelka. Sono molto amico con lui e con Salgado e da Koudelka ho imparato che in una fotografia ci deve essere sempre qualcosa da raccontare. Non bisogna mai fotografare qualcuno impalato, come si usa adesso. Una foto deve raccontare, come ho imparato da Koudelka, mentre da Salgado ho imparato che il contenuto deve andare di pari passo con la forma. Poi, se devo scegliere fra una foto formale e una di contenuto, io scelgo sempre quella di contenuto, ma se a una fotografia di contenuto aggiungiamo la forma, allora diamo più notizie e facilitiamo la lettura dell’immagine. Le due cose dovrebbero quasi sempre andare insieme, anche se il contenuto, per me, resta più forte.

Lei ormai è un modello: cosa le preme dire ai suoi allievi?

Mah, non ho indicazioni da dare. Ognuno trova la sua strada. Io trovo che oggi sia molto più difficile rispetto alla mia epoca. Noi eravamo nel momento del boom, c’era tanto lavoro per tutti, oggi è molto più dura, soprattutto per iniziare, ma io credo che se si hanno delle idee, prima o poi, ce la si farà lo stesso. Non ho insegnamenti da dare perché non ho la presunzione di essere un artista, e non ci tengo a esserlo. Sono un fotografo, ho fatto bene il mio lavoro. Tutto qui.
 


© Gianni Berengo Gardin

 

Chi è

Nato a Santa Margherita Ligure nel 1930. Nel 1963 vince il World Press Photo. Dopo essersi trasferito a Milano si è dedicato principalmente alla fotografia di reportage, all’indagine sociale, alla documentazione di architettura e alla descrizione ambientale. Nel 1979 ha iniziato la collaborazione con Renzo Piano, per il quale documenta le fasi di realizzazione dei progetti architettonici. Nel 1995 ha vinto il Leica Oskar Barnack Award. È molto impegnato nella pubblicazione di libri (oltre 200) e nel settore delle mostre (oltre 200 individuali).

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