L’applicazione corretta della maschera di contrasto è fondamentale per gestire al meglio la nitidezza in vista delle diverse utilizzazioni della foto digitale.
Impariamo ad utilizzarla al meglio.


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» Effetti della nitidezza per la stampa  

 

La nitidezza nel digitale

Nitidezza è un termine di origine latina (nitor, nitidus) che in ambito fotografico sta ad indicare il grado di leggibilità dei dettagli.
La digressione che segue, puntuale e ben dettagliata grazie al prezioso contributo di Massimo Novi, vuole essere un piccolo contributo per comprendere l’evoluzione della ricerca della massima nitidezza con l’avvento della fotografia digitale.
Normalmente una foto caratterizzata da poca nitidezza (sfocatura/mosso/micromosso), salvo l’intenzionalità a fini artistici, è da cestinare, pertanto la ricerca della nitidezza non potrà prescindere da una seria valutazione della situazione pre-scatto.
La nitidezza dell'immagine è sempre stata una delle caratteristiche chiave della fotografia professionale: più l'immagine è nitida e il dettaglio chiaro, più si può ingrandire l'immagine, aumentarne la definizione o reinquadrarla in modo creativo per renderla più gradevole all'occhio.
Sul tema delle foto sfocate non è opportuno intrattenersi in questa sede, poiché i moderni sistemi di “autofocus” sono ormai estremamente affidabili e comunque fotocamere reflex e relativi obiettivi consentono sempre un’eventuale correzione manuale per raggiungere una perfetta messa a fuoco (MAF).
Al contrario non esistono automatismi per evitare il mosso/micromosso e la recente introduzione dei sistemi di stabilizzazione, pur essendo un ottimo contributo per spostare più avanti il limite oltre il quale le probabilità di una foto mossa sono più elevate, non è risolutivo della problematica; pertanto non potremo prescindere dal valutare in ogni scatto quel complesso di fattori che influenzano il conseguimento di una foto nitida.
Dando per scontata l’evidente efficacia del treppiede ai fini del raggiungimento della massima nitidezza, è opportuno ricordare che la prima tecnica applicabile è l’utilizzo di un tempo di scatto sufficientemente breve per annullare gli effetti di una nostra non perfetta stabilità e della maggiore o minore staticità del soggetto.

Un metodo, empirico ma spesso efficace per scegliere il tempo di scatto è quello del “reciproco della focale”, cioè l’utilizzo di un tempo pari alla lunghezza focale utilizzata, in altre parole se utilizziamo un obiettivo 50mm il tempo consigliabile per evitare mosso/micromosso è pari a circa 1/50 di secondo; applicando questo metodo per le reflex digitali si dovrà tener conto del fatto che i moderni sensori sono generalmente più piccoli del fotogramma 24x36, sul quale è basato l’empirismo di cui sopra; dunque, p.e. nel caso dei sensori Nikon DX, il tempo di scatto consigliabile sarà pari alla lunghezza focale moltiplicata per 1,5. (nel caso esemplificato di focale 50mm avremo un tempo di sicurezza pari a circa 1/75 di sec.)

Un altro fattore determinante nel raggiungimento della massima nitidezza è rappresentato dalla qualità dell’obiettivo utilizzato. Del resto è da qui che passa la luce ed un transito scadente porta inevitabilmente ad un decadimento della nitidezza. Più precisamente l’immagine sarà caratterizzata da “morbidezza”, cioè da una minore definizione dei contorni del soggetto tale da non fornire all’osservatore un adeguato grado di dettaglio.
Di seguito due scatti per chiarire il concetto.

Immagine “morbida” 135mm

Immagine nitida 135mm

Giova ricordare che grazie al progresso tecnologico nell’ambito della progettazione e costruzione degli obiettivi, gli standard odierni sono molto elevati, tanto che ottiche oggi considerate “consumer” possono competere in qualità dell’immagine con obiettivi più blasonati ma progettualmente e costruttivamente più datati. Gioca inoltre a favore di una maggiore nitidezza anche la tipologia di illuminazione della scena e con quella la protezione antiriflesso in essere che di fatto contribuisce ad una migliore gestione ottica del microcontrasto.

Possiamo riassumere che per ottenere un foto nitida, che quindi all’osservazione renda un sufficiente grado di dettaglio, dobbiamo usare un buon obiettivo al diaframma di lavoro più congeniale, un tempo di scatto adeguato, prevenire riflessi parassiti e ricorrere il più possibile ad un treppiede.
Tuttavia se detti elementi erano sufficienti per raggiungere un’adeguata nitidezza nell’ambito di scatti su pellicola, con l’avvento delle reflex digitali c’è un nuovo elemento influente: rappresentato dal sensore digitale e dal software che sovrintende al funzionamento.

Senza entrare in dettagli troppo tecnici, possiamo dire che sensori fotografici sono composti da una griglia di minuscoli recettori di luce chiamati pixel (matrice di Bayer dal nome del tecnico della Kodak che la ideò nel 1976), alternati gli uni agli altri, ciascuno dei quali dispone di un filtro che lascia passare, nello spettro del visibile, unicamente le lunghezze d’onda luminose del colore cui sono dedicati.


Il sensore della D80 con evidenziata la matrice RGB Bayer.
A lato: una schematizzazione delle microlenti posizionate su ogni singolo pixel.

I pixel destinati al Verde sono in numero doppio rispetto a quelli del Rosso e del Blu, detta scelta contribuisce a rendere l’immagine più fruibile alla vista umana che è maggiormente sensibile appunto al colore Verde. Il software della fotocamera provvede poi ad interpretare e ad elaborare i segnali luminosi cosi recepiti ricostruendo l’immagine finale (demosaicizzazione).


I sensori usati nella ripresa fotografica registrano il colore avvalendosi di una distinta
lettura RGB analogamente ai dispositivi che adottano la sintesi addittiva di visualizzazione.
Per una maggiore coerenza colore, i sensori montano davanti alla matrice dei recettori,
un filtro di taglio denominato Low-pass che ha il compito di tagliare parte dello spettro infrarosso non percepito
ad occhio ma registrabile dai sensori particolarmente sensibili. Il filtro low-pass ha anche spesso mansioni
anti-aliasing e cioè l’incombenza di tagliare, per prevenire quanto più possibile effetti moirè,
i dettagli in eccesso rispetto alla capacità spaziale di posizionamento dei singoli fotodiodi.
Taglio talvolta interessato alla caduta di nitidezza su alcune angolazioni del dettaglio registrato sui due assi.

Tuttavia per quanto minuscoli e numerosi possono essere i pixel, nelle aree di forte contrasto talvolta si evidenziano delle scalettature cui le case produttrici di fotocamere pongono rimedio applicando davanti al sensore un filtro anti-aliasing che ha il compito di “ammorbidire” detti spigoli e fornire un aspetto lineare dei contorni dell’immagine.
Ciò comporta evidentemente una limitazione della nitidezza, cui si può rimediare efficacemente nell’ambito della successiva elaborazione dello scatto grazie a strumenti dedicati quali la “maschera di contrasto – unsharp mask”.
Una delle principali caratteristiche della fotografia digitale è la differente valutazione della nitidezza intrinseca dell’immagine. Rispetto alla fotografia classica, la cui nitidezza finale era valutata spesso solo in base alla stampa, la fotografia digitale ha introdotto nuovi criteri di valutazione, basati sia sulla risoluzione e costruzione del sensore, sia sui differenti media di riproduzione cui l’immagine digitale è destinata (monitor, videoproiettore, stampa).
In questo eXperience analizziamo l’utilizzo della tecnica detta “maschera di contrasto” per il miglioramento della nitidezza dell’immagine ottenuta dalla fotocamera digitale (misurabile come acutanza o microcontrasto sui contorni).

I monitor
La prima visualizzazione e valutazione dello scatto digitale avviene sul monitor; molti studi grafici e laboratori utilizzano ancora degli schermi CRT (tubo catodico) che per le caratteristiche intrinseche mostra un’immagine più neutra rispetto agli LCD (cristalli liquidi). Questi ultimi risultano più nitidi e contrastati dei monitor CRT, inducendo talvolta a valutazioni errate sulla nitidezza applicata.
Anche la risoluzione dello schermo comporta una percezione dei contorni diversa: un’immagine visionata a1600 x 1200 significa pixel di dimensioni inferiori, quindi la percezione dei contorni e degli aloni sarà differente da quella ottenuta con risoluzioni inferiori (p.e.1024x768).

Per una corretta valutazione della nitidezza è necessario un ingrandimento del 100%, ma occorre considerare anche la risoluzione finale dell’immagine e la dimensione effettiva dello schermo.
Per valutare la risoluzione dello schermo in pixel per pollice (PPI), misurare la larghezza reale dell’area visibile (escludendo la cornice nera nel caso dei CRT) e dividere tale valore per la risoluzione orizzontale impostata sulla scheda video. Ad esempio, per un monitor la cui area visibile orizzontale è di circa 40cm (15,74 pollici) con risoluzione video 1600x1200 si ottiene 1600/15,74 = 100 PPI. Quindi se l’immagine digitale sarà stampata ad una risoluzione di 240 PPI, osservarla a video con un ingrandimento del 50% fornirà un’approssimazione della nitidezza in stampa migliore di quella ottenibile con l’ingrandimento al 100%.
Da ricordare che percentuali di ingrandimento non intere (es. 33,3%, ecc) forniscono approssimazioni peggiori e non affidabili, in quanto i software applicano algoritmi anti-aliasing all’immagine, rendendola di fatto più morbida.

L’applicazione della nitidezza (sharpening)
Con l’avvento del digitale, l’applicazione della nitidezza non è riconducibile ad una regola precisa e deve essere calcolata ed usata nella giusta misura per ottenere il risultato predefinito in base all’output finale (schermo, videoproiettore, stampa).
Infatti un giusto grado di nitidezza applicato ad un’immagine da visualizzare a video è molto spesso inadatto per una stampa di qualità. Un corretto workflow digitale prevede che la correzione della nitidezza sia eseguita quale ultimo stadio della post-produzione, poiché spesso può accentuare artefatti quali per esempio il “rumore digitale” (noise) introdotto dalla maggiore sensibilità ISO; in questo caso la riduzione di detto “inconveniente” va eseguita prima di qualsiasi correzione di nitidezza, in quanto la presenza di rumore sarebbe altrimenti accentuata.

In base al tipo di applicazione e/o di scopo si possono definire tre principali ambiti operativi della nitidezza:

  • La nitidezza di acquisizione (capture sharpening): è applicata all’immagine appena acquisita e solitamente è concepita per compensare la “morbidezza” che le immagini digitali hanno in fase di acquisizione (effetto del filtro anti-alias). Questo tipo di nitidezza può essere applicata a tutte le immagini, anche con procedure automatizzate, a patto di conoscere alcune caratteristiche dell’immagine e quelle dell’abbinata ottica del sensore in esame.
     
  • La nitidezza creativa (creative sharpening): è applicata solo su alcune zone dell’immagine e solo per le immagini per le quali si ritiene necessario far risaltare alcuni dettagli, ad esempio gli occhi in un ritratto. Si tratta di una nitidezza aggiunta a quella di acquisizione.
     
  • La nitidezza per l’output (output sharpening): è applicata per ottimizzare la resa finale dell’immagine sul supporto di uscita. Secondo la tecnica di riproduzione, del tipo di supporto e della risoluzione, sono necessarie regolazioni di nitidezza differenti. Anche questa tipologia è applicata successivamente alla nitidezza di acquisizione.
     
 

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