Inviati: Afriche, Orienti, Americhe

Michael Nick Nichols: L'ultimo abisso verde (da Sguardi 46)

L'ultimo abisso verde, cronaca di una partnership durata dieci anni e reportage della spedizione Megatransect del fotografo Michael "Nick" Nichols del National Geographic e del naturalista Mike Fay della Wildlife Conservation Society, racconto dei 456 giorni della spedizione iniziata nell'ottobre 1999 e conclusa nel dicembre 2000, una estenuante traversata a piedi di più di 3.200 chilometri dalle più profonde foreste del Congo alle spiagge vergini del Gabon. I protagonisti dell'impresa sono tra i più originali e conosciuti inviati della National Geographic Society. Determinati a testimoniare le ricchezze ambientali delle località più remote e incontaminate dell'Africa centrale oggi a rischio estinzione, hanno studiato e documentato in modo sistematico la vegetazione, la vita animale e l'impatto dell'uomo sulla foresta. Il risultato è una serie di immagini di eccezionale bellezza e rarità, in cui la passione per il vero e per i forti contrasti non cede spazio alla tentazione di proporre una visione idilliaca e distorta dei luoghi esplorati, visione pura e a volte anche cruda di uno degli ultimi luoghi inesplorati del pianeta, documento incantato e al contempo realista dell'ambiente e della vita animale là dove nessuno si è mai spinto prima. Il reportage dell'impresa ha avuto un'incredibile eco internazionale, fino a spingere il presidente del Gabon, Omar Bongo, a creare nel suo paese 13 nuovi parchi nazionali, per un'estensione totale protetta di circa 26.000 chilometri quadrati.[…] Duro, focalizzato sui propri obiettivi, motivato. Nichols sarebbe il primo a dirvi di avere il più bel lavoro del mondo. Nato in Alabama nel 1952, Nichols è un attivista. Fa fotografie di cose che non possono parlare da sole e, nel fare ciò, dà loro una voce. È stato in passato membro della Magnum Photos e oggi è un fotografo ufficiale del National Geographic. Negli anni ha fotografato specie a rischio di estinzione, persone e cose, spingendosi fino al limite, con estrema tensione, dinamismo e movimento. Ha vinto quattro volte il primo premio per la foto naturalistica e ambientale nel concorso World Press Photo, oltre ad aver ricevuto numerosi altri riconoscimenti tra cui il Wildlife Photographer of the Year e il Pictures of the Year story and image award.
 


© Michael Nichols

 

Fausto Giaccone, Macondo (da Sguardi 91)

Ho letto Cent'anni di solitudine mentre facevo un ben poco guerresco servizio militare spostando carte da una scrivania all'altra in un ufficio a Roma. Per sfuggire alla noia di quei giorni leggevo di tutto, a ritmo frenetico. Eppure furono quelle pagine, quelle e non altre, che, svelandomi il mistero e il fascino di mondi sconosciuti, diventarono il salvagente che mi permise di restare a galla durante uno dei periodi più scoraggianti e problematici della mia esistenza. Ricordo che pensavo: "Questo libro mi sta salvando la vita". Era il 1971, e a malapena sapevo quale fosse la collocazione della Colombia sulla carta geografica. Fu solo 16 anni dopo, nel dicembre 1987, che vi misi piede per la prima volta, inviato dal settimanale Epoca per una serie di reportage. Poi, nel corso del tempo, sempre per testate diverse, sono tornato in Colombia numerose volte per servizi fotografici. In ognuno di questi lunghi viaggi il mio compagno è stato un romanzo o un libro di racconti di García Márquez: uno stimolo alla scoperta o una consolazione nei momenti di solitudine.Nel 2006, durante uno di questi soggiorni di lavoro, ho intuito improvvisamente che era ormai inevitabile che il mio sguardo su questo Paese uscisse dagli schemi preordinati del servizio fotografico su commissione e seguisse un proprio percorso addentrandosi nel mondo del grande scrittore, nei luoghi della sua vita e in quelli dei suoi romanzi; luoghi che, a mio avviso, si specchiano gli uni negli altri. Era arrivato il momento di raccontare per immagini il mio Caribe colombiano, di elaborare tutti gli appunti, gli stimoli, le riflessioni che la lettura dell'opera di García Márquez aveva suscitato e fonderli con quelli registrati nei tanti viaggi precedenti in Colombia. Sapevo bene ciò che volevo tentare: ritrarre quel microcosmo umile e minuto che mi circondava e nel quale tuttavia riconoscevo senza ombra di dubbio la grandiosa allegoria della storia universale che tanto mi aveva affascinato in Cent'anni di solitudine. Non ho mai parlato con Gabo, come il geniale scrittore è familiarmente chiamato nel suo Paese, non ho mai insistito per incontrarlo personalmente. Nell'atto di mettermi a narrare il suo mondo, ho preferito impregnarmi delle sue storie, leggere e rileggere le sue opere nell'originale spagnolo, e lasciare che la musicalità del linguaggio guidasse i miei passi sulla scia delle fantasie e delle nostalgie evocate dai suoi racconti. […] Dal 2006 ho compiuto tre viaggi in Colombia seguendo questo progetto, sempre col bagaglio ridotto al minimo, usando i mezzi di locomozione locali - autobus, lance a motore, moto-taxi - e dormendo in locande economiche. Anche per l'attrezzatura fotografica ho scelto di lavorare con un equipaggiamento essenziale, quasi sempre una macchina con ottica normale, rinunciando volutamente alla spettacolarizzazione tipica dell'estetica del fotogiornalismo.
 


© Fausto Giaccone. Colombia / Valledupar, dipartimento del Cesar. Academia de Vallenato del Turco Gil: la musica del vallenato è una passione molto diffusa nella Costa colombiana e molto amata da Gabriel García Márquez che è stato uno degli ispiratori di un famoso festival dedicato a questa musica, che si tiene nella città di Valledupar ogni anno. Uno dei più grandi musicisti di questo genere, Rafael Escalona, scomparso nel 2009, è stato tra i più grandi amici del Nobel. Al muro, il ritratto del musicista cieco Leandro Diaz, un mito per gli appassionati di questa musica.

 

L'altra Istanbul (da Sguardi 55)

Il Museo dell'Ara Pacis di Roma ospita "L'altra Istanbul", un omaggio al più grande fotografo turco vivente Ara Güler e le immagini di altri quattro importanti autori turchi che descrivono la Istanbul contemporanea tra tradizione e modernità. Per la prima volta in Italia saranno esposte 30 fotografie di Ara Güler, che da "cronista", come lui stesso ama definirsi, cattura nelle sue immagini in bianco e nero una Istanbul sofferente. Nato nel 1928, Güler inizia la sua carriera come giornalista nel 1950 e sei anni più tardi incontra due straordinari fotografi della Magnum come Marc Riboud e Henri Cartier-Bresson. A seguito di questo incontro, comincia a lavorare come fotografo per le più importanti riviste internazionali come Paris Match Life, puntando l'obiettivo della sua Leica in particolar modo sui volti della gente. Le sue immagini ci mostrano una Istanbul a cavallo tra gli anni 50 e 60, ancora legata alle sue tradizioni ma già in veloce sviluppo. Una città bella e malinconica come nei libri del Nobel per la letteratura Orhan Pamuk. Momenti da consegnare alle future generazioni: "Poiché non hanno mai conosciuto la città del passato e non possono immaginarla, le nuove generazioni pensano che questa di oggi sia Istanbul e che sia sempre stata così. Quando guardano una vecchia fotografia rimangono attoniti".Accanto ad esse, in un percorso artistico e generazionale, l'esposizione presenta le immagini di Ercan Arslan, Coskun Asar, Kutup Dalgakiran e Erdal Yazici, quattro autori che per età e per stile possiamo accomunare al maestro, in cui ritroviamo l'Istanbul moderna, esplosione di vita e di progetti. Una città che pur conservando le sue forti tradizioni guarda alla contemporaneità. Le minoranze etniche che esprimono, nei loro vivaci costumi, stralci gioiosi di vita quotidiana, si mescolano al malessere della gioventù, gli antichi mestieri che non devono essere dimenticati fanno da contraltare ai colori di una città che corre verso il futuro.
 


© Ara Güler

 

Alexandra Boulat: Modest, donne in Medio Oriente (da Sguardi 54)

La galleria Grazia Neri di Milano compie 10 anni di vita e l'agenzia Grazia Neri ne compie 40. Un doppio compleanno celebrato con le esposizioni di due reporter sensibili al tema della guerra, dei conflitti, della condizione dei più umili e sfavoriti: Alexandra Boulat e Andrew Lichtenstein. Così Alexandra Boulat presenta il suo lavoro sull'Iraq:
"Le immagini presentate sono un tributo alle donne irachene, i cui diritti sono del tutto svaniti quando è iniziata la guerra. Prima del marzo 2003 l'Iraq era un Paese laico. Né la cultura Mediorientale né la tradizione permettevano alle donne di comportarsi come le donne occidentali, ma almeno esse non dovevano preoccuparsi della propria sicurezza e dell'Islamismo. Fino alla caduta di Saddam Hussein, le donne irachene erano vincolate a una morale molto restrittiva, a costumi conservatori e a ruoli familiari di matrice araba, ma potevano andare in giro per strada, al mercato o nei ristoranti senza indossare abiti particolari. Posters di Britney Spears erano appesi nei suk, le ragazze la sera andavano in giro da sole mangiando gelati nei fast-food e le madri portavano i figli a scuola guidando le proprie auto. Oggi è tutto diverso. Le fotografie presentate in questa mostra sono state scattate agli incroci delle strade mentre le forze Americane bombardavano la periferia di Bagdad, durante l'invasione dell'Iraq nella primavera 2003 e successivamente quando Saddam scomparve lasciando le persone e il paese nel caos più totale".
 


© Alexandra Boulat. Rifugiate afghane a Quetta, in Pakistan, pregano per le vittime dei bombardamenti americani in Afghanistan. Pakistan, settembre 2001

 

Andrew Lichtenstein: Never Coming Home (da Sguardi 54)

La galleria Grazia Neri di Milano compie 10 anni di vita e l'agenzia Grazia Neri ne compie 40. Un doppio compleanno celebrato con le esposizioni di due reporter sensibili al tema della guerra, dei conflitti, della condizione dei più umili e sfavoriti: Alexandra Boulat e Andrew Lichtenstein. Andrew Lichtenstein racconta: "Ho assistito per la prima volta a un funerale militare nel novembre del 2003. Un giornale locale aveva scritto che Jacob Fletcher, un soldato ventottenne di Long Island, sarebbe stato seppellito con gli onori militari nel cimitero nazionale di Pine Lawn. Centinaia di soldati americani erano già morti in Iraq; ero profondamente convinto del fatto che il loro sacrificio fosse importante, che le loro morti non dovessero essere ignorate. La cerimonia in sé fu breve. Un trombettiere ha intonato il silenzio, una guardia d'onore di sette soldati ha sparato in aria tre scariche di fucile, ventun colpi di saluto, e la bandiera americana che copriva il feretro è stata ripiegata con cura e consegnata alla famiglia di Jacob. Un funerale militare dà l'impressione di essere stato pensato durante la guerra, sotto il fuoco, al cimitero tutto si svolge in circa otto minuti. Nonostante la tristezza e il dolore attorno a me, ho apprezzato la semplicità e la bellezza della cerimonia".
 


I Andrew Lichtenstein/Agenzia Grazia Neri. Cory Mracek, 26 anni. Ucciso a Iskandariyag, Iraq, il 27 Gennaio 2004.
Alcuni scolari guardano passare la processione funeraria, Hay springs, Nebraska, 4 Febbraio 2004.

 

Alessandro Gandolfi: Fotogiornalismo dal viaggio alla guerra (da Sguardi 76)

Un giorno di fine febbraio è successo che il mio amico mi ha convinto a partire, io ho convinto lui e ci siamo ritrovati insieme all'aeroporto del Cairo, a smistare tassisti finché non è arrivato quello giusto. Faccia pulita, auto in buono stato, ottimo prezzo fino al confine, poi erano cavoli nostri. La Libia è iniziata così e alla fine è durata cinque settimane. Bengasi, Ajdabyia, Brega, Ajdabyia, Bengasi e poi Ajdabyia, Ras Lanuf, Brega, Ajdabyia, Bengasi, ecc. Dopo quaranta giorni rimangono nella mente immagini alla rinfusa, se ne escono random come in un blob televisivo: l'hotel Al Fadeel e la suite di Berlusconi, l'hotel Uzu che è meglio e si spende meno, il media center al tribunale nord, la piazza sempre piena di gente urlante e le donne con le foto dei loro uomini uccisi, i colleghi con i portatili in perenne cerca di prese della luce, le chiacchiere al ristorante turco che ha la macchina del caffè sempre rotta e offre solo Nescafé, i ribelli che sparano in aria dietro di te e ti spaccano i timpani, le bombe che scoppiano al fronte e via che si scappa indietro. Scappano tutti, i ribelli, i fotografi dalla barba lunga, il giornalista della CNN con i capelli bianchi e anche quell'altra che con l'elmetto e il corpetto antiproiettile sempre addosso se ne stava comunque sempre chiusa in macchina. È successo che mi ero perso la Tunisia e l'Egitto ma non potevo perdermi la Libia. C'ero stato due mesi prima in Libia, quando ancora Tripoli era serena e Gheddafi ospitava i grandi della terra. Però a dicembre per un pelo non ero andato in Cirenaica e così arrivarci ora, in piena rivolta, mi sembrava di chiudere un cerchio. A fine febbraio sono partito per la Libia senza un accordo con alcun giornale, senza un assignment come si dice in gergo. Volevo raccontare storie legate alla guerra ma standomene in disparte, osservando da altri punti di vista, narrare con immagini altre facce di quella realtà. Dopo due giorni la mia agenzia fotografica (Parallelozero) mi ha scritto che la testata tedesca Die Zeit era interessata ad avere un fotografo in Libia. Il giornalista scrivente era già a Bengasi, ci siamo incontrati al bar dell'Uzu Hotel, abbiamo discusso di idee e iniziato a lavorare insieme. Anche se a vederlo sembra un quotidiano, si sfoglia come un quotidiano e ha la stessa carta di un quotidiano, Die Zeit in realtà è un settimanale ed è ovviamente interessato a raccontare storie inedite, originali, di media durata. Insomma, quello che volevo fare io. Senza l'assillo della quotidianità, dell'appuntamento fisso con l'invio serale, dello stress per la mancanza di internet che a Bengasi in quei giorni andava e veniva.
 


Bengasi, piazza Mahkama. Libici sventolano un'enorme bandiera della Libia monarchica, diventata un simbolo della rivolta. © Alessandro Gandolfi

 

Stephen Shore: I luoghi insoliti dell'America anni ‘70 (da Sguardi 69)

America dell'Ovest anni Settanta, esterno giorno, a volte qualche interno. È questo il contesto delle immagini di Stephen Shore, in mostra fino al 25 aprile al Museo di Roma in Trastevere dopo un lungo tour che dagli Stati Uniti ha attraversato l'Europa. Biographical Landscape, 164 fotografie, realizzate tra il 1969 e il 1979, una metodica esplorazione dei "luoghi insoliti" dell'America di quegli anni. Un catalogo della normalità, influenzato dall'arte concettuale e dalla cultura pop: incroci stradali, parcheggi, esterni di cinema, interni di stanze e locali, l'assenza sostanziale di presenza umana. La lezione di Shore, se ce n'è una, è quella del minimalismo, dell'essenzialità dello sguardo, una poetica della sottrazione dell'istante il più possibile speciale (per combinazione di luce, volumi, soggetti, azione, segni, sensi), la scelta della registrazione-fissazione del presunto reale, quello che lo sguardo composto dell'autore sceglie di cogliere, con rigore, senza estetizzazioni. Come ha scritto Robert Venturi, per l'occasione, «Shore cattura l'essenza del panorama americano fotografando il particolare, gli elementi ordinari che si rivelano universali e straordinari. Il punto di vista del suo obiettivo non è mai speciale. È quello dei nostri occhi distratti, che vagano attraverso luoghi familiari facendo cose ordinarie - aspettando un autobus o concentrati su un incarico. Negli scatti di Shore, scopriamo immagini smarrite che abbiamo ignorato per la loro familiarità o rifiutato per la loro banalità. La nostra mente cosciente cerca scene più o meno interessanti: vette alpine o piazze italiane; nell'arte di Shore confrontiamo ciò che usualmente non notiamo, strade e facciate che ben conosciamo e vagamente, mediamente ricordiamo e mediamente dimentichiamo. Shore è l'arte dell'impassibile - rifiutando composizioni esotiche, abilmente artefatte o di facile interpretazione. Egli accetta la logora banalità dello scenario americano, fino agli stanchi talloni dei nostri panorami rurali e la rilassatezza spaziale delle nostre città, ricatturandone l'intimità, rendendola intensa, coerente, pressoché amabile».
 


© Stephen Shore

 

Giada Ripa di Meana: Fotografare persone, tra New York e l'Asia (da Sguardi 62)

Il bianco e nero permette di pensare al momento stesso, mentre scatti e poi i suoi contrasti e la neutralità del b/n creano  l'atmosfera. Il colore diventa un vero e proprio studio. Ogni elemento di una scena diventa importante. Come sono vestiti i soggetti, se i colori sono forti, contrastati, come la saturazione dei colori influenza l'immagine (diventa poi consuetudine conoscere le regole del cerchio dei colori, che il blu contrasta con il giallo, che il magenta sia agli antipodi del verde e cosi via). Com'è la luce della giornata, se cerchi una luce piatta in modo da potere controllare bene i tuoi soggetti e la luce naturale, o se cerchi il contrasto brutale del cielo turchese e le conseguenti ombre forti. Se fotografi in interni, osservi con attenzione i mobili, gli oggetti, i tappeti, tutto quello che può interferire earricchire la composizione e il significato del soggetto. L'utilizzo del colore nella fotografia consente lo sviluppo di una nuova forma di comunicazione visuale. Scattare a colore, per me, fu come mettermi a dipingere. […] La pellicola a colore, rimane per me fonte di costante soddisfazione. Sapere controllare i tempi, immaginarsi le varie sfumature, accentuare la saturazione in fase di scatto, per poi rimanere durante l'attesa e sorprendersi sempre di più, quando la pellicola è sviluppata e stampata. In fondo il digitale per chi usa la pellicola, sembra ancora rimanere lontano dai risultati sempre impeccabili della pellicola, quando il controllo te lo permette. Mi piace avere controllo nell'inquadratura, piazzare i miei soggetti, e relazionarmi, analizzare tutti gli elementi nell'inquadratura per rendere la foto unica, per me come per loro. Ma cerco di non pensare al ritocco all'infinito che mi distoglie dall'autenticità della fotografia iniziale. Ecco perché temo ed evito, quando possibile, il digitale. Con il digitale, la postproduzione di una foto diventa infinita. E infinite le possibilità di renderla diversa. Utilizzo il medio formato e il colore quando fotografo i miei soggetti perché il medio formato mi aiuta a vedere e ritrarre più in dettaglio la scena, come nei ritratti ambientati, il colore a dare il tagliopittorico e preciso allo stesso tempo di una scena. Il formato richiede maggiore concentrazione e meno margine di errori come invece nel mondo del digitale. So di avere poche immagini nel rullo e poco margine di errore, sono consapevole che si tratti di negativi grandi e che sia gli errori sia gli aspetti riusciti saranno poi messi in risalto in modo più appariscente. La macchina che scatta medio formato è più impegnativa, i rullini più cari, i colori più vari. Spinge la mente a fermarsi e prender un po' di distanza prima di buttarsi dentro una scena e ritrarre i soggetti. Quasi sempre cerco il consenso dei miei soggetti nello scattare. […] E con la loro collaborazione dirigo anche le loro posizioni, e tutta l'inquadratura.
 


© Ripa di Meana Giada/Grazia Neri, Genti dell'Asia Centrale. Kazhakistan, Seleskia 2007

 

Susetta Bozzi: Màndala, viaggio in Asia (da Sguardi 67)

Susetta Bozzi ha scelto 28 immagini dal suo vasto archivio fotografico per raccontare un attraversamento di un territorio immenso, di un continente come l'Asia, dove vive da decenni. Carlo Buldrini, giornalista-scrittore che ha vissuto in India per più di trent'anni, l'ha aiutata nella scelta e ha scritto queste parole che Sguardi di seguito riporta. «Màndala significa cerchio, circonferenza. Per le grandi religioni dell'Asia - buddhismo e hinduismo - il màndala è un diagramma circolare a cui vengono attribuiti sia un significato spirituale sia una dimensione rituale. Il devoto tibetano che gira attorno a un edificio sacro in senso orario disegna, idealmente, un màndala. La stessa cosa fa Susetta Bozzi con la sua mostra fotografica "In Asia". Con le immagini, viene percorso - circolarmente e in senso orario - l'intero continente asiatico.Il "cerchio" parte da Pechino dove Susetta vive ormai da più di sei anni. Le prime immagini di questo màndala asiatico mostrano l'inarrestabile processo di urbanizzazione in corso nella capitale cinese. È il risultato di un impetuoso sviluppo capitalistico promosso nel paese da un regime autoritario che dopo il massacro di studenti su piazza Tiananmen è stato costretto ad allargare gli spazi nei quali i cittadini, avendo tacitamente accettato il monopolio sulla politica del partito unico, possono esprimersi im modo relativamente libero. Le immagini documentano alcune opere di autori cinesi di avanguardia esposte nel Distretto artistico 798 di Pechino.Si passa poi a un altro regime comunista asiatico: quello della Corea del Nord. A simboleggiare questo paese sono state scelte due fotografie del Maternity Hospital di Munchon, nella provincia di Kongwon. Alla solitudine e alla miseria che caratterizzano la vita del paese di Kim Jong-il - il figlio dell'"eterno" presidente Kim Il-sung - si contrappone Seul, la capitale della Corea del Sud. Qui, le insegne luminose, la folla e uno sfrenato consumismo caratterizzano quella che è invece una società a capitalismo avanzato. Segue il ricordo di altri due regimi che hanno segnato il recente passato di due paesi del Sud-est asiatico. Quello autoritario, dispotico e corrotto delle Filippine di Ferdinand Marcos e di sua moglie Imelda e quello delirante e sanguinario di Pol Pot che fece del 1975 l'"Anno Zero" della storia della Cambogia provocando due milioni e mezzo di morti tra i suoi abitanti. Le immagini successive mostrano la fatica del vivere quotidiano in due paesi dell'Asia meridionale: la Thailandia e il Bangladesh.
 


© Susetta Bozzi - Thailandia. Bangkok. Novembre 2007. Nana Plaza: un ladyboy esce da uno dei club di questo distretto del divertimento.

 

Laura Salvinelli: Fotografare persone, tra reportage e ritratto (da Sguardi 62)

Lavoro per un reportage non predatorio, fatto essenzialmente di ritratti, che mi piace chiamare reportrait, non perché faccia tendenza parlare in inglese (o in francese), ma perché non esiste in italiano una parola che unisca reportage e ritratto. Il ritratto è la mia chiave personale che mi apre il mondo del reportage, così come le piccole storie mi permettono di entrare in contatto con la storia e i contesti più ampi di cui sono parte. Amo la bellezza e la gioia. Le trovo sempre più spesso nel mondo dei semplici che in quello dei potenti. L'energia vitale, la forza di trasformazione, la passione di sentire la storia credo che appartengano ora ai cosiddetti paesi in via di sviluppo, per questo mi interessa lavorare il più possibile in luoghi come l'India. Rispetto all'«indicibile violenza» ed alla «disparità brutale della vita intorno a sé» di cui parla Arundhati Roy cerco di portare il massimo della mia attenzione, e di fare con cura quello che so fare. Difendo il bianco e nero d'autore e il reportage di approfondimento che si sta facendo di tutto per eliminare. Non solo credo nella dignità della differenza e nel rispetto della libertà di espressione, ma sono profondamente convinta che senza di essi l'informazione e lo sguardo di tutti sono senz'altro peggiori. […] Mi piace che questa rivista on line si chiama Sguardi perché condivido il valore centrale dello sguardo. E tuttavia, nel mio modo di fare fotografia, la tecnica anche conta molto, e proprio perché rafforza lo sguardo. La mia è fotografia artigianale che viene dalla storia che vi ho raccontato. Uso il digitale per dare parte del materiale ai clienti, ma le foto delle mie mostre (almeno finora) sono tutte analogiche, e in bianco e nero. Non ho nulla contro il digitale, ma non vedo uno sguardo nuovo insieme alla nuova tecnologia. In viaggio uso reflex 35mm e spesso preferisco gli zoom alle ottiche fisse per motivi di peso e di rapidità. Viaggio quasi sempre da sola, e il peso è un elemento non indifferente. Ma so che lo sviluppo del negativo è altrettanto importante della scelta dell'ottica, e quindi non mi preoccupo troppo del fatto che non sempre posso usare l'obiettivo migliore. Confido nella mia esperienza artigianale, e lavoro molto più a raffinare lo sguardo, nutrendo la mia sensibilità, e cercando di essere il più possibile attenta al soggetto. Il ritratto, la chiave con cui entro nel reportage, è, per come lavoro io, un incontro. È fatto da chi è fotografato, da chi fotografa, e anche da chi guarda la foto. Sono attratta dal ritratto assoluto, cioè da quello che racconta una storia senza alcuna ambientazione

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